Dyarbakir - P.Martino

Diyarbakyr foto di Paolo Martino

1915, nelle campagne intorno a Diyarbakyr armeni e curdi convivono da secoli nella miriade di villaggi dell'altopiano. Poi la caccia alle streghe lanciata da un Impero ottomano sull'orlo dell'implosione. La pulizia etnica dell'Anatolia è sistematica ma alcuni riescono a salvarsi, aiutati dalla fortuna o dai vicini di casa. La nona puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut"

31/08/2012 -  Paolo Martino

“Mia nonna morì quando avevo diciotto anni. Qualche giorno dopo, ancora in lutto, mio nonno riunì in casa tutta la famiglia. Aveva gli occhi gonfi, ma lo sguardo era sereno. “Vi ho chiamato per dirvi qualcosa.”Tutti pensammo alle ultime volontà della nonna, o qualcosa del genere. “Per troppi anni ho portato dentro un segreto, ora non ce n'è più motivo.” Nessuno immaginava che il nonno aveva dentro un macigno vecchio di settant'anni. “Voi non siete quello che pensate di essere. Il vostro passato è una mia invenzione.” Quel macigno stava cadendo su tutta la famiglia. “Noi siamo armeni.”

L'oscurità cattura Diyarbakyr con arroganza, come se il giorno si fosse ridotto a timido intervallo tra due notti. Al quinto piano di un palazzo a vetri, nella più grande città curda della Turchia, Vedat versa tè in piccoli bicchieri, sulla scrivania del suo ufficio da ragioniere. Fuori, la luce dei neon e delle macchine prende il posto del cielo ormai spento. “Dal giorno in cui mio nonno ci ha svelato le nostre origini, la mia vita è stata una continua scoperta. A volte penso che in realtà sono nato proprio quel giorno.” Il racconto di Vedat parte da lontano. Dal momento in cui un bambino di dieci anni, magro abbastanza da infilarsi in una crepa della parete, salutò per l'ultima volta la sua famiglia prima di sparire per sempre nella prateria, un secolo fa. E la lunga notte di Diyarbakyr, appena iniziata, diventa il palcoscenico in cui si tramanda la storia di una incredibile umana avventura.

Se alle montagne narrassi il mio soffrire
sui pendii non crescerebbero più i fiori.

Baba Tahir, poeta curdo del x sec.

“I soldati entrarono nel villaggio all'alba, ma nelle case degli armeni non trovarono nessuno. L'eco delle retate era già arrivato.” 1915, campagne intorno a Diyarbakyr. Armeni e curdi convivono da secoli nella miriade di villaggi dell'altopiano. Pastori e contadini, musulmani e cristiani, simbiosi e sintesi di una terra antichissima. La caccia alle streghe lanciata da un impero ottomano sull'orlo dell'implosione è capillare. La popolazione armena, accusata di essere la quinta colonna delle potenze europee che stanno banchettando con i resti della Sublime Porta, non ha scampo. La pulizia etnica dell'Anatolia è sistematica, ma nel dramma collettivo alcuni uomini riescono a salvarsi, aiutati dalla fortuna o dai vicini di casa.

“Mio nonno riuscì a infilarsi in un pagliaio, dopo aver corso per tutta la notte senza nessuna meta. Da solo, perché solo lui riuscì a uscire dalla grotta in cui gli armeni del suo villaggio provarono a nascondersi. I soldati che erano sulle sue tracce infilarono per ore le spade nel fieno, ma lui restò rannicchiato e zitto. Il fattore che lo aveva protetto, un anziano proprietario terriero curdo, divenne il suo nuovo padre.” Vedat alterna un ritmo serrato a lunghe pause, racconta con la calma di cui sono custodi solo i popoli antichi. La vicenda prende lentamente forma grazie alle sue parole e ai suoi gesti. “Ho passato ogni ora libera con mio nonno per rivivere i momenti tragici della sua esperienza. La sua vita giovanile, fino ad allora segreta, diventò il mio più grande interesse.”

A dieci anni appena compiuti, il nonno di Vedat fu costretto a rinunciare alla sua identità. Dimenticò il suo nome e le sue abitudini, imparò ad amare una nuova vita. A vent'anni mise su famiglia, una famiglia curda. Sua moglie, sposandolo, pose un'unica condizione al suo amore: il passato, di cui lei era a conoscenza, non sarebbe mai tornato a vivere finché loro erano vivi. “Nel frattempo però la Turchia è cambiata. Oggi posso essere fiero di essere armeno. Turco e armeno. E mio nonno, violando la parola data alla nonna, ci ha restituito la cosa più preziosa, il passato.” Vedat ha visitato molte volte il suo villaggio d'origine, i suoi figli stanno imparando l'armeno, sulla scrivania ha libri di storia sul genocidio e sul passato armeno del suo paese. Prima di uscire dall'ufficio, a notte fonda, tira fuori una bottiglia di liquore, col sorriso sulle labbra. “ Prendila tu, è un regalo di amici armeni. L'ho tenuta per educazione, ma gliel'ho detto che i musulmani non bevono!”

L'anello murario di Diyarbakyr , tozzo e possente, circonda un groviglio di strade e vicoli. Lastre marmoree poggiate secoli fa pavimentano una città tentacolare, vissuta in ogni suo angolo da un'umanità operosa. Risciò a pedali e biciclette sfiorano i banchi dei bazar, mentre attorno alle officine i passanti si attardano per misurare i gesti cadenzati dei fabbri e per godere del caldo che emana dal ferro incandescente. Un portone chiuso è sormontato da una scritta. “Chiesa armena di San Gregorio. 1376.” L'incisione sulla lapide è anche in armeno. Un giovane custode apre, e lo spettacolo che si presenta toglie il fiato. Una cortile spazioso è l'affaccio di una imponente chiesa, circondata da portici. Ogni dettaglio è curato, ogni elemento è al suo posto. Altare, candelabri, tappeti, sacrario, crocifisso. Seduto sui banchi bevo un tè, che il custode si è affrettato a preparare.

“All'inizio del ventesimo secolo la popolazione armena di Diyarbakyr era di trentacinquemila persone. Nel 1927 il numero si era ridotto a tremila, e la chiesa finì in rovina.” Dei pannelli raccontano le vicende che hanno visto la chiesa di San Gregorio diventare prima una caserma e poi un deposito, fino a cadere nell'oblio. “Gli armeni convivevano in città con turchi, curdi, siriaci, caldei, greci, ebrei, nestoriani, yazidi.” Una foto scattata da un torre nel 1904 mostra minareti e campanili, gli uni affianco agli altri, dentellare il profilo della città. Oggi restano solo i primi. “Il restauro e la riapertura della chiesa restituiscono alla città un elemento essenziale del suo patrimonio. Il progetto è a cura della municipalità di Diyarbakyr.”

Dal mio diario. 18 novembre

“La simpatia per la questione armena, qui a Diyarbakyr, capitale del Kurdistan turco, non è fine a se stessa. Un secolo fa vennero spazzati via gli armeni, oggi sono i curdi ad essere nei guai. Sulla stessa terra.” Le parole di Vedat trovano un riscontro in questo santuario di silenzio. Una chiesa armena in Turchia orientale ristrutturata e riconsacrata assume il valore immediato di un simbolo di opposizione verso il governo, verso la politica centralizzatrice di Ankara. Nei vicoli laterali, nelle stradine brulicanti di questo centro storico, respiro la stessa aria tesa dei campi profughi palestinesi del Libano, sento vibrare gli stessi sguardi vigili delle sentinelle di quartiere di Beirut. Campale, martellante, clandestina, la scritta PKK, Partito dei lavoratori curdi, ricorda al passante che il conflitto si annida in ogni angolo di questo labirinto.

Un autobus di linea parte dal centro e attraversa il reticolo di strade fino al limite della città. Batterie di palazzi miseri, mostri di cemento, segnano la periferia sottoproletaria di una città che in pochi anni ha visto decuplicare la sua popolazione. Circa un milione di sfollati sono arrivati qui per sottrarsi alle rappresaglie dell'esercito turco, che in trent'anni di conflitto con il fronte separatista curdo ha incendiato centinaia di villaggi. Un bambino uscito da scuola guarda fuori dal finestrino decine di altri bambini giocare negli squallidi cortili di fango e cemento, illuminati da un sole pallido, ansioso di raggiungerli. Alla fermata si precipita sulla porta già aperta, ma si blocca prima di scendere. Si slaccia le scarpe, velocissimo, e regala all'autista il suo sorriso luminoso prima di correre finalmente scalzo a giocare dai suoi amici.


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