Dal 2005, nel mese di luglio, persone di tutto il mondo arrivano in Bosnia Erzegovina per percorrere 100 chilometri in memoria di Srebrenica. Il racconto di una partecipante di quest’anno. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Marš mira (Marcia per la pace) si svolge ogni anno in memoria dei 15.000 bosniaci musulmani che nel luglio del 1995, all'arrivo dell’esercito di Mladić e dei paramilitari serbo-bosniaci nell’enclave di Srebrenica, cercarono di mettersi in salvo camminando nei boschi verso il cosiddetto “territorio libero” di Tuzla. La maggioranza venne uccisa durante la fuga e i loro corpi vennero occultati in fosse comuni.
La Marcia per la pace avviene dal 2005 in senso contrario al cammino percorso allora, in tre giorni da Nezuk a Potočari per permettere ai partecipanti di arrivare il 10 luglio a Srebrenica, in tempo per assistere alla cerimonia funebre che si tiene per le vittime del genocidio presso il Memoriale di Potočari.
Sono arrivata a Nezuk la sera del 7 luglio come učesnik (partecipante) numero 4577, con uno zaino sulle spalle e il mio bagaglio culturale sul background storico e politico di Srebrenica. Ma da subito mi sono resa conto che nulla avrebbe potuto prepararmi all’impatto psicologico che avrei vissuto in quei giorni.
La mattina dell'8 luglio, dopo aver percorso i primi chilometri fiancheggiando un infinito nastro con le scritte “Pozor Mine” (attenzione alle mine), ho conosciuto Almir, nato a Snagovo, che in un perfetto italiano mi ha parlato della sua vita da rifugiato a Piacenza, dove ha vissuto tra il 1995 ed il 1998. Almir mi ha raccontato come sia stata complessa la ricostruzione e difficile il rientro in un paese lacerato dalla guerra e dalla pulizia etnica, ma allo stesso tempo per lui necessario. Perché, per usare le sue parole, “casa è pur sempre casa e la Bosnia è Bosnia” anche quando l'alto tasso di disoccupazione e la mancanza di sostentamento economico rende difficile sopravvivere.
Dal suo punto di vista, in un paese con ancora forti tensioni etniche la riconciliazione non deve essere forzata, ma è necessaria la lotta contro il negazionismo che molti rappresentanti politici usano per tenere in ostaggio il paese. Mi parla di quanto sia difficile, per lui che è un giudice, non indignarsi ad esempio dinanzi alla manifestazione“Stop with lies” (basta con le bugie), tenutasi a Banja Luka contro il riconoscimento dell'avvenuto genocidio a Srebrenica. La stessa Srebrenica in cui, alcuni cittadini serbo-bosniaci avevano quest’anno proposto di ergere una statua in onore all'Ambasciatore russo presso le Nazioni Unite Vitalij Čurkin, il quale nel 2015 aveva esercitato il veto sulla Risoluzione del Consiglio ONU che definiva i fatti di Srebrenica come genocidio.
Durante la marcia alcuni di noi hanno fatto brevi soste per una tazza di caffè o di tè, preparato gentilmente da alcune donne del luogo. Una di loro, Uriah, ci ha raccontato di essere riuscita a sopravvivere scappando in quel luglio da sola nel bosco, al quinto mese di gravidanza e senza sapere se suo marito fosse ancora vivo. In queste tappe di ristoro risalta violenta la dicotomia tra la bellezza del paesaggio naturale paradisiaco e i cartelli sparsi nei boschi che segnano la presenza di fosse comuni.
Tra i camminatori ho conosciuto Rusmir, ragazzo californiano i cui genitori nel 1996 hanno lasciato la città di Brčko per gli Stati Uniti dove studia informatica. Racconta di come vorrebbe tornare nella sua casa di Brčko e, definendo “Bosnian calling”il richiamo alle origini, della speranza che nutre di vedere un giorno i propri figli giocare negli stessi luoghi che hanno segnato la sua infanzia. Il punto comune che colgo in tutti i racconti è il non aver mai voluto abbandonare la propria terra ma esser stati obbligati, perché nessuno fugge intenzionalmente da casa propria se non è costretto da atrocità e orrori.
La storia di Ado, giovane regista bosniaco nato a Srebrenica nel 1986, è l'emblema di come la cultura possa essere uno strumento di resistenza e di consapevolezza. Oggi vive tra Roma e Sarajevo e i suoi film trattano temi differenti, dalla denuncia della violenza domestica, come nel suo cortometraggio Mama , all'intenso rapporto con la sua città natale in Andjeo Srebrenice (L'angelo di Srebrenica).
Ado ha deciso di partecipare per la prima volta a Marš mira all'età di 31 anni, la stessa in cui suo padre, dopo ben cinque giorni di marcia arrivò nel territorio controllato dall'esercito della Repubblica di Bosnia Erzegovina il 16 luglio 1995. Nell'aprile del 1993, Ado, sua madre ed i suoi fratelli erano riusciti a salire sull'ultimo convoglio delle Nazioni Unite partito da Srebrenica alla volta Tuzla, città nella quale sono rimasti fino al 2003.
Nelle parole di Ado non è percepibile alcun sentimento di odio e, nonostante le esperienze vissute, emergono ragioni che non si basano su stereotipi o preconcetti, ma sul suo presente e inserendo la guerra in una parentesi determinante ma non fondamentale della sua vita.
Dopo aver dormito la terza ed ultima notte in tenda a Kaldrmica, alle sette del mattino del 10 luglio ci siamo incamminati per l’ultimo giorno di marcia. Ero in testa alla colonna dei 5.000 amici che hanno marciato con me e, una volta arrivati a Potočari, siamo stati accolti da una moltitudine di uomini e donne con volti solcati dalle lacrime e la voce commossa che sussurrava timidi “hvala” (grazie).
All’arrivo, il mio primo pensiero è andato a coloro che hanno perso la vita lungo quel percorso minato, ai superstiti che hanno scalato quelle montagne lottando per la sopravvivenza e agli uomini e alle donne che oggi sono costretti a convivere con il terribile ricordo di quella guerra.
Marš mira è il coraggio delle persone di ripercorrere quelle strade per mantenere viva la memoria, è la dimostrazione che l'indifferenza può essere sconfitta stando dalla parte delle vittime - tutte - in difesa dei diritti umani. L’unico vero credo politico che dovrebbe accomunarci tutti.
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