Armenia, foto di Giorgio Comai

Seconda prova letteraria del regista armeno Vasken Berberian, "Sotto un cielo indifferente" è un testo coinvolgente, che sembra fatto apposta per sfidare la rappresentazione più comune di quello che è il vero protagonista del romanzo: il popolo armeno. Nostra recensione

18/07/2014 -  Simone Zoppellaro

Ci sono libri che, seppur capaci di emozionarci, scordiamo dopo aver chiuso l’ultima pagina, e libri che, per quanto interessanti, risultano altresì aridi e infecondi. Infine, merce rara e preziosa, ci sono i libri necessari.

A quest’ultima categoria appartiene Sotto un cielo indifferente, seconda prova letteraria del regista armeno Vasken Berberian. L’autore, nato ad Atene ma ormai da tempo stabile in Italia, torna a pochi anni di distanza ad affrontare il romanzo, dopo l’esordio di Come sabbia nel vento, scritto a quattro mani con Sonia Raule. Lo fa consegnandoci un testo ambizioso e coinvolgente, che sembra fatto apposta per sfidare la rappresentazione più comune di quello che è il vero protagonista del romanzo: il popolo armeno.

Così, la narrazione inizia là dove la maggior parte dei film e dei racconti sugli armeni si concludono: dopo il genocidio del 1915, pianificato e eseguito dai Giovani Turchi. Siamo negli anni trenta, e una giovane coppia di profughi armeni, Seròp e Satèn, mette al mondo due gemelli dai nomi di due angeli, Mikael e Gabriel, le cui avventurose vicende seguiremo per il prosieguo dell’intero romanzo. Sullo sfondo, distante appena due decenni, è il dramma dello Medz Yeghern, “il Grande Male”, sempre implicitamente presente, ma a cui il testo farà riferimento solo in poche toccanti pagine.

Sotto un cielo indifferente

Sotto un cielo indifferente

di Vasken Berberian

ed: Sperling & Kupfer 2013

pp.492

Punto di partenza è dunque la Patrasso dei profughi armeni sfuggiti, insieme a molti greci, alla sanguinosa disfatta della guerra con la Turchia (1919-22). Satèn, la madre dei due bimbi, è una sopravvissuta all’incendio di Smirne, dove ha perso tutta la famiglia, mentre Seròp, il padre, è originario di Adabazàr, da cui è partito alla tenera età di 12 anni. L’umile realtà del campo profughi, segnata da sofferenza, miseria e sfruttamento, ma anche da una grande e generosa umanità, domina in un grande affresco corale la prima parte del romanzo.

E affiora subito, qui, quello che è uno dei pregi maggiori della scrittura di Berberian: la sua capacità di affrontare gli aspetti più duri e ripugnanti dell’esperienza umana con lievità e pudore, a tratti con un sottile velo di ironia, caratteristica tanto più apprezzabile in un’epoca segnata da un continuo e morboso indulgere nella violenza.

Con delicatezza e poesia ci vengono così descritti la nascita dei due gemelli e gli sforzi incessanti dei genitori per crescerli in un contesto difficile come quello di un campo profughi. Licenziato dall’industria tessile dove aveva lavorato per anni come operaio, Seròp cerca come può di sbarcare il lunario come venditore ambulante di pantofole, prodotte in casa da lui stesso e dalla moglie con una vecchia macchina da cucire. Non basta; e così, colto da disperazione per una malattia di Satèn che gli fa temere la sua morte, un giorno – al ritorno da uno dei suoi viaggi – vende uno dei due gemelli a una famiglia di ricchi armeni di Atene.

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Ha inizio così la vicenda parallela dei due protagonisti, Mikael e Gabriel, che l’autore alternerà in un montaggio serrato fino alle ultime pagine di questo romanzo-fiume, da leggere rigorosamente tutto d’un fiato. Senza sapere l’uno dell’esistenza dell’altro, i due gemelli manterranno un legame segreto, un filo rosso che li accompagnerà in paesi diversi e lontani, fino all’epilogo in cui un colpo di scena farà baluginare una speranza.

Dei due, al figlio adottato, Mikael, toccherà paradossalmente la sorte del privilegiato. Dopo un’infanzia agiata trascorsa a Atene, verrà inviato a Venezia per studiare nel prestigioso collegio armeno Moorat-Raphael. Qui, in uno dei luoghi simbolo della cultura armena, seguiremo le vicende di Mikael e dei suoi compagni, armeni provenienti dai paesi più diversi del mondo. In pagine commoventi e vivide, assisteremo alla scoperta dell’amore, alla nascita di grandi amicizie, all’interrogarsi dei ragazzi sulla religione e sui grandi temi tipici della giovinezza.

Tuttavia, nonostante l’esteriore benessere, Mikael non è felice. Abita in lui un male oscuro che gli fa vivere dentro di sé, quasi in una seconda vita, le traumatiche esperienze del fratello che pur ignora di avere. Ben altra sorte toccherà infatti a Gabriel e alla sua famiglia, che decide – ulteriormente provata dagli anni dell’occupazione fascista e nazista – di lasciare la Grecia e “rimpatriare” nell’allora Repubblica Sovietica Armena.

A Yerevan, dove alla famiglia si aggiunge una figlia, Novàrt, che ritroveremo nell’ultima parte del romanzo, nuove e più ardue sfide attendono Gabriel e suo padre. Arrestati a causa di un libro proibito – una raccolta di racconti dell’armeno americano William Saroyan – i due vengono spediti in Siberia in un gulag, dove il padre troverà presto la morte.

Finalista della 47° edizione del Premio Acqui Storia, il romanzo di Berberian è un testo che, pur avendo poco di autobiografico, potremmo certo definire traboccante di Erlebnis. Vi si leggono la formazione cosmopolita dell’autore, il suo ampio respiro mediterraneo, così diverso dall’orizzonte asfittico di tanti narratori nostrani.

Un libro, dicevamo, che è anche una piccola sfida, una messa in discussione dell’identificazione esclusiva che spesso si fa fra gli armeni e il loro genocidio – un crimine tanto più odioso, questo, proprio perché tuttora preda di tenaci negazionismi. Ma, sembra volerci dire Berberian in queste pagine piene di vitalità e speranza, non c’è soltanto quello: gli armeni sono esistiti e esistono, e il suo libro è qui per ricordarcelo. Non un requiem, dunque, ma un omaggio partecipe e sentito a una nazione vivente, di cui l’autore ripercorre le vicende per tutto il corso del Novecento, fino agli anni Novanta.

Concludo ricordando le parole del già citato William Saroyan, un brano che gli armeni amano spesso ripetere, e che pare sintetizzare bene il senso ultimo del romanzo di Berberian:

“Avanti, distruggete l'Armenia. Vediamo se ci riuscirete. Mandateli nel deserto senza pane o acqua. Distruggete le loro case e chiese. Poi vedrete se non rideranno, canteranno, e pregheranno ancora. Perché quando due o tre di loro si incontrano da qualche parte nel mondo, vedrete se non creeranno una nuova Armenia.”


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