partigiani

Una storia apparentemente d'amore che narra degli innamorati Veronika e Stevo nella Slovenia degli anni della Seconda Guerra Mondiale, in cui le violenze della resistenza partigiana le fanno da sfondo. Una recensione

21/04/2017 -  Diego Zandel

Una storia d’amore? Solo apparentemente. “Stanotte l’ho vista”, romanzo dello sloveno Drago Jančar, pubblicato dalla triestina Comunicarte Edizioni per la traduzione della brava Veronika Brecelj, è più probabilmente un romanzo storico e politico. Ambientato in Slovenia, negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale e poi nel corso di quest’ultima mentre infuriava la lotta popolare di Tito, racconta di una donna, l’affascinante Veronika Zarnik, ricordata in cinque capitoli da altrettante persone che l’hanno conosciuta da vicino: Stevo, innanzitutto, il suo amante, un ufficiale di cavalleria, a cui viene ordinato dal suo superiore di dare a Veronika lezioni di equitazione, prologo del loro futuro innamoramento; quindi la madre di lei; quindi ancora il dottor Horst, un medico tedesco; poi Joži, la governante del castello di Podgorsko dove la donna viveva e, infine, uno dei suoi lavoranti, Jeranek, che, nonostante la devozione alla signora e al marito, diventato partigiano, dimenticherà la loro generosità.

All’inizio, presi dalla storia d’amore tra Veronika e Stevo, sì, l’impressione è quella di leggere un romanzo d’amore. Tutto comincia con Stevo, che sette anni dopo la fine della loro relazione, ha la viva impressione di rivederla nel corso di un sogno, da cui il titolo del romanzo. Una storia d’amore non senza conseguenze, tali da spingerla a lasciare il marito Leo. Sentirà di farlo quando, diventato ormai palese il suo tradimento, deciderà di seguire Stevo che, per punizione, su input dell’influente marito di lei, verrà trasferito in una landa sperduta della Serbia, dove non se la passeranno bene. Soprattutto lei, abituata alla vita comoda della signora, per cui a un certo momento ritornerà dal marito, il quale, una volta perdonata, vorrà ricelebrare il loro matrimonio, così suggellando la loro unione per la vita. Di più: i due, con la servitù, si ritireranno nel castello di Podgorsko, in Slovenia, dove a un certo momento faranno irruzione i partigiani di Tito che, animati da rivalsa sociale, spoglieranno il castello. La madre, la cui testimonianza arriverà subito dopo quella di Stevo, chiusa nella sua stanza quasi non si accorge di quello che sta succedendo. Sa solo che la figlia è scomparsa, ma non pensa a una tragedia, perché lei era solita scomparire all’improvviso, come quando una volta è andata da sola, senza dire a nessuno nell’isola di Sansego oppure in Serbia, dietro al suo amante. A raccontare cosa stava succedendo veramente, la violenza dei partigiani, il disprezzo per Jeranek che, nonostante fosse stato salvato dalla prigione dal marito Leo e dall’accusa di essere un partigiano, in realtà lo era e partecipava alla rapina, è la governante Joži, mentre l’ultima parola resta allo stesso Jeranek, che salva la coscienza e la sua ingratitudine accusando i signori Zarnik di intesa con il nemico.

In questo senso la ricostruzione di Jančar della lotta partigiana di Tito e dei suoi uomini è vista nelle sue luci e nelle sue ombre, senza sconti per nessuno.

C’è da dire che questa sottrazione dell’epica alla lotta popolare, che negli anni della ex Jugoslavia condizionava pesantemente la letteratura, rappresenta una sorta di novità nel panorama della narrativa di quelle latitudini, narrativa che quando affrontava o semplicemente, seppur di traverso, si occupava della lotta popolare comunista era intinta più o meno di retorica, con i buoni, i partigiani, sempre da una parte, e i cattivi – oltre ai tedeschi, i ricchi o i nobili – dall’altra. Destino inevitabile di molte opere di fronte alla prospettiva, per i loro autori, del carcere. Per fortuna, però, c’erano gli outsiders, che erano tali non solo nella opposizione, ma anche nella grandezza letteraria che esprimevano. Uno su tutti Danilo Kiš, che visse molti anni della sua vita all’estero, in Francia, dopo le dispute, in nome della libertà dell’arte, che lo portarono a restituire il prestigioso premio letterario NIN. Naturalmente non fu il solo. Tra gli altri scrittori di rilievo ricordo anche il serbo Oskar Davičo, che dovette affrontare 5 anni di carcere.

Lo sloveno Drago Jančar, seppur di un’altra generazione, essendo nato dopo la guerra, nel 1948, si inserisce comunque in questo filone “sovversivo”. Tanto più che il suo romanzo, seppur uscito in Slovenia nel 2010, cioè diversi anni dopo la caduta del regime comunista, non è da considerarsi un’opera di un revisionismo postumo e, perciò, di comodo. Lo testimonia la vita stessa dello scrittore che, prima ancora di diventare il grande autore che conosciamo, è stato un oppositore del regime comunista, motivo per cui fu arrestato nel 1974, chiuso in carcere per tre mesi e poi spedito, come soldato, in Serbia per punizione: un destino molto simile, seppur in un altro contesto, a quello di Stevo nel romanzo.


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