La nuova legge sul lavoro (foto F. Sicurella)

"La nuova legge sul lavoro" (foto F. Sicurella)

Più libertà di licenziare, meno tutele per le categorie deboli, precariato travestito da flessibilità. Sindacati e movimenti di sinistra insorgono contro il nuovo disegno di legge sul lavoro e costringono il governo a ritirarlo. E’ la fine di una lunga stagione di apatia della mobilitazione sociale in Serbia?

21/01/2014 -  Federico Sicurella Belgrado

Eludere la sorveglianza dei sindacati e dei movimenti sociali e giungere, rapidamente e senza intoppi, all’approvazione del nuovo disegno di legge sul lavoro. E’ forse con queste poco nobili intenzioni che il ministero del Lavoro serbo aveva scelto di fissare le audizioni pubbliche con le parti sociali proprio a ridosso delle festività. Ma la tattica - se ti tattica si trattava - è miseramente fallita.

Le prime tensioni si sono registrate già a fine dicembre, quando sindacati, associazioni di categoria e movimenti hanno apertamente criticato il modo in cui erano state organizzate le audizioni, giudicato iniquo e poco trasparente. Da quel momento il nuovo disegno di legge è stato al centro di un dibattito dai toni sempre più accesi. L’atteggiamento del governo, inizialmente irremovibile, è cambiato drasticamente pochi giorni fa, quando i sindacati hanno annunciato un piano d’azione condiviso che prevedeva esplicitamente la possibilità di proclamare lo sciopero generale.

La mobilitazione ha sortito l’effetto auspicato: è notizia di ieri (20 gennaio) che la Commissione per gli affari sociali del governo, presieduta dal premier Dačić e dal vicepremier Vučić, ha deciso di ritirare il disegno di legge. La commissione ha anche annunciato che verrà formato un nuovo gruppo di lavoro con l’incarico di esaminare gli emendamenti proposti dalle parti sociali.

Prologo: le proteste di Novi Sad e Belgrado

Il 17 dicembre scorso il ministero del Lavoro, dell’impiego e delle politiche sociali rende noto il programma delle discussioni pubbliche sul disegno di legge sul lavoro. Sono previsti tre incontri, a Novi Sad, Kragujevac e Belgrado, da tenersi nel giro di dieci giorni. Il preavviso, però, è troppo breve per consentire agli attori interessati di prepararsi adeguatamente agli incontri. Inoltre, il ministero stabilisce che la partecipazione dei sindacati, delle associazioni locali e dei collettivi è limitata a un solo rappresentante per gruppo.

Il dissenso erompe in occasione della prima audizione, fissata per il 20 dicembre a Novi Sad. Rivendicando il diritto a un trattamento più equo e rispettoso, sindacati e movimenti decidono di boicottare l’incontro inscenando una protesta pubblica con striscioni e bandiere. Per tutta risposta, i rappresentanti del governo sospendono la seduta e annunciano la revoca delle due audizioni successive, sottraendosi di fatto al confronto pubblico sulla legge.

Il 26 dicembre sarebbe dovuta essere la volta di Belgrado. Il ministro del Lavoro Saša Radulović, nel tentativo di compensare per l’audizione annullata, sceglie di partecipare al convegno “Lavoro per la Serbia” presso la Facoltà di giurisprudenza. È un fiasco: il pubblico, composto per lo più da sindacalisti e attivisti, lo avversa energicamente, costringendolo a lasciare l’aula tra i fischi.

Il dibattito e le critiche al disegno di legge

Le proteste di Novi Sad e Belgrado generano un dibattito vivace e altamente polarizzato, al quale prendono parte analisti, attivisti e intellettuali. Da una parte ci sono i fautori della riforma, che ne decantano i meriti parlando di “flessibilizzazione del mercato del lavoro” e “creazione di un clima favorevole agli investimenti”. Dall’altra parte ci sono gli oppositori, ai quali queste parole suonano come logori eufemismi che mal celano la chiara spinta neoliberale e ultra-capitalistica che il governo serbo vorrebbe imprimere al mondo del lavoro con il beneplacito di organismi finanziari globali come il Fondo monetario internazionale.

Sono in molti a denunciare il drammatico impatto che la legge, qualora entrasse in vigore, avrebbe sulle condizioni della classe lavoratrice. In una tagliente analisi pubblicata su LeftEast , Aleksandar Matković segnala polemicamente che la nuova legge garantirebbe ai datori di lavoro una libertà quasi totale nel licenziare i propri impiegati, anche nel caso di donne incinte, persone con disabilità o membri di altri gruppi sociali svantaggiati. Inoltre, il lavoratore licenziato non avrebbe diritto ad alcuna indennità, e i limiti legali per il lavoro straordinario verrebbero innalzati a 48 ore settimanali. Infine, la legge andrebbe a incidere fortemente sugli ammortizzatori sociali, sui contratti di lavoro a tempo determinato e sul diritto alle ferie retribuite.

Il provvedimento che suscita più indignazione è però quello che mira a istituire la nozione di vreme pripravnosti (traducibile come “periodo di reperibilità”), che obbligherebbe il lavoratore o la lavoratrice a garantire la propria disponibilità, fino a 24 ore su 24, per far fronte alle eventuali necessità dell’azienda. Lo denuncia il collettivo Gerusija di Novi Sad, che a inizio gennaio pubblica online una serie di mini-filmati per informare il pubblico delle possibili conseguenze della legge.

Il giudizio complessivo di Matković è perentorio: “La nuova legge accorda tutta la sicurezza sociale al datore di lavoro, sottraendola ai lavoratori. Sebbene questa sia esattamente la situazione attuale in Serbia, legittimarla attraverso la legge la renderebbe ancora più tragica”. Gli fa eco Stefan Aleksić in un editoriale apparso su Peščanik , definendo la legge un “atto di anti-civiltà” volto a svalutare la forza lavoro e le persone, in particolare i “perdenti della transizione”.

Fine dell’apatia?

Attraverso un’azione coordinata, i due maggiori gruppi sindacali del paese - Nezavisnost (Indipendenza) e l’Alleanza dei sindacati indipendenti di Serbia - sono riusciti ad impedire l’approvazione della legge, costringendo il governo a tornare sui suoi passi. Si tratta sicuramente di un risultato importante, che in un certo senso segna anche il “riscatto” dei sindacati serbi, tradizionalmente passivi e marginali.

Ma basta questo per affermare che la prolungata apatia della società serba rispetto ai temi sociali e del lavoro sta lasciando il passo a una stagione di mobilitazione, attivismo e confronto serrato? I pareri a questo proposito sono discordanti. Oscillano tra il pessimismo dello psicologo Žarko Trebješanin, che non crede nella capacità dei suoi concittadini, fiaccati e scoraggiati da anni di crisi economica e sociale, di trasformare l’insoddisfazione in aperta ribellione, e l’ottimismo della sindacalista Ranka Savić, che invece si dice convinta che il 2014 sarà un anno di grandi battaglie per i diritti dei lavoratori in Serbia.

In ogni caso, c’è un punto che vale la pena evidenziare. Nel corso dell’ultimo decennio, la società serba si è dimostrata molto più sensibile ai temi del patriottismo e del nazionalismo che non alle questioni sociali. Dalla caduta di Milošević a oggi, sono rarissime le occasioni in cui il governo si è visto costretto a rivedere le proprie politiche in materia di diritti e protezione sociale a seguito di proteste e manifestazioni. Oggi, in un paese in profonda crisi economica in cui quasi un milione di persone non ha un lavoro, l’impressione è che la situazione stia finalmente cambiando. I costi sociali imposti dalla transizione e dalle politiche neoliberali stanno diventando più salienti delle dispute nazionalistiche. Buon segno.


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