Il valico di Maljevac (foto G. Vale)

Il valico di Maljevac (foto G. Vale)

È la Bosnia a ritrovarsi a dover "difendere" le frontiere esterne dell'Ue. È questo il prezzo da pagare per l'adesione? Se lo chiedono polemicamente alcuni abitanti di Velika Kladuša e Bihać, nuovi snodi della rotta balcanica. Un reportage

05/11/2018 -  Giovanni Vale Velika Kladuša

Alla fine, il valico di frontiera di Maljevac è stato riaperto. Alle 18 circa di martedì 30 ottobre, le forze dell’ordine bosniache hanno sgomberato in un paio d’ore gli oltre cento migranti che ancora accampavano a pochi metri dalla linea di confine croato-bosniaca. Decine di abitanti di Velika Kladuša, la cittadina bosniaca a ridosso della frontiera, hanno seguito l’operazione dall’alto di una stazione di servizio che sovrasta il valico.

“Non abbiamo niente contro i rifugiati, ma 200 persone non possono bloccarne 50mila”, spiega un bosniaco sulla cinquantina. Velika Kladuša, aggiunge, “vive del commercio con la Croazia” e “la frontiera chiusa per una settimana è un danno enorme per tutti noi”. Lo scorso 24 ottobre, il tentativo di alcune centinaia di migranti di rompere il cordone della polizia croata per entrare nell’Unione europea ha portato alla decisione di Zagabria di interrompere il traffico a Maljevac. Un danno per la comunità locale.

Questa settimana di tensioni, con le telecamere spiegate a Maljevac e il ping-pong di responsabilità tra un livello e l’altro del complesso sistema istituzionale bosniaco, ha messo in luce l’insostenibilità di quanto va avanti da mesi ai confini esterni dell’Unione europea. Un Far West in cui i migranti sono sballottati da una frontiera all’altra nell’illegalità più assoluta, mentre ai bosniaci viene lasciata la responsabilità di controllare il flusso migratorio in direzione dell’Europa.

Un cantone al centro della rotta balcanica

La confusione di quanto accade è riassunta dalle parole contraddittorie del professor Sej Ramić, consigliere comunale a Bihać e amministratore del gruppo Facebook “STOP invaziji migranata!! Udruženje gradjana Bihaća” (“STOP all’invasione dei migranti!! Collettivo di cittadini di Bihać”). Nella capitale del cantone Una-Sana (la regione frontaliera con la Croazia dove si trova anche Velika Kladuša), Sej Ramić ha preso le redini del malcontento popolare in quanto a immigrazione.

“Non ce l’ho con i rifugiati, ma questi sono migranti economici, che viaggiano senza sorelle, mogli o mamme”, assicura Sej Ramić. “Ma non bisogna prendersela con queste persone, non è colpa loro se si trovano qui. Ci sono interessi più alti. Bisogna chiedersi: chi ha interesse a vedere centinaia di migranti a spasso per Bihać?”, si domanda il consigliere comunale. “Chi?”, gli chiediamo. “Non lo so”, ammette Ramić, prima di attaccare Sarajevo e Bruxelles, entrambe forse responsabili.

“La Bosnia Erzegovina conta dieci cantoni ed un’altra entità, la Republika Srpska. Perché mandare tutti i migranti qui? Ci sono persone a Sarajevo a cui non piace la democrazia nel nostro cantone”, spiega Sej Ramić. All’Unione europea, il professore bosniaco chiede: “L’immigrazione in Bosnia è il prezzo da pagare per l’adesione?”. “Forse - conclude Ramić - c’è un piano più ampio: vogliono che i migranti illegali prendano il nostro posto, mentre noi andiamo tutti in Germania”.

La realtà dà risposte diverse, anche se comunque complesse. Dall’inizio dell’anno, Sarajevo ha registrato l’ingresso di 21mila persone, provenienti perlopiù da Pakistan, Afghanistan, Iran e ancora dalla Siria. Oggi, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) stima che ci siano circa 5mila migranti sul territorio bosniaco. I restanti 16mila hanno lasciato il paese, probabilmente riuscendo ad attraversare la frontiera croato-bosniaca. Nessuno, o quasi, vuole restare in Bosnia.

Il cantone Una-Sana si trova suo malgrado al centro della “nuova” rotta balcanica perché da qui la via è più breve per raggiungere l’area Schengen. In appena 80 km si è in Slovenia e da lì si può entrare in Italia o in Austria in poco tempo. È vero, tuttavia, che la comunicazione tra le diverse realtà politiche locali è così inefficace in Bosnia, che molto spesso non c’è coordinamento tra le città di Velika Kladuša e Bihać, il cantone di Una-Sana o il governo centrale a Sarajevo.

"I bosniaci sono stanchi"

Foto G. Vale

Foto G. Vale

In questo contesto, sono fioccate di recente diverse manifestazioni e petizioni che chiedono alle autorità bosniache di risolvere il problema migratorio. Queste iniziative rappresentano bene le diverse anime esistenti all’interno della popolazione locale: perché se da un lato è vero che esiste un gruppo Facebook che chiede uno “STOP all’invasione dei migranti”, è vero anche che a Velika Kladuša e Bihać c’è anche chi aiuta i rifugiati e che l’ostilità nei confronti di questi ultimi non è diffusa.

Il caso più noto, tra chi si è messo a disposizione dei migranti di passaggio, è quello di Asim Latić, che a Velika Kladuša gestisce la pizzeria Teferić. Da febbraio, Latić offre circa 400 pasti al giorno ad altrettanti rifugiati, contando sul sostegno della popolazione locale che lo aiuta a procurarsi gli ingredienti e i fondi necessari. Anche Latić, tuttavia, ammette che “anche se i bosniaci hanno conosciuto la guerra, sono stanchi di questa situazione che dura da diversi mesi”.

Ecco che, come Latić ha difficoltà oggi a raccogliere gli sponsor necessari per continuare a far lavorare la sua pizzeria divenuta centro umanitario, così molti cittadini del cantone Una-Sana hanno iniziato a protestare. Il caso del valico di Maljevac chiuso per giorni ha fatto scendere in campo i commercianti di Velika Kladuša, autori di una petizione che non vuole “essere considerata una stigmatizzazione dei migranti”, ma che chiede “il rispetto dei diritti dei cittadini” locali e, ovviamente, “la riapertura del valico”.

Una seconda petizione, diffusa all’interno del gruppo Facebook già menzionato, chiede invece di ricollocare i migranti lontano da Bihać, al fine di “proteggere i cittadini” e “la sicurezza dei bambini”. La stessa OIM è presa di mira ed invitata a rispettare “i cittadini del cantone Una-Sana” e “le leggi della Bosnia Erzegovina”. Solo qualche centinaio di persone hanno sottoscritto questo testo, ma anche tra i volontari che lavorano nei centri di accoglienza a Bihać c’è chi ammette che “la presenza di 5mila migranti in una città di 60mila persone comincia a creare qualche problema”.

Quale ruolo per la Bosnia Erzegovina?

La responsabilità della situazione bosniaca è, come spesso accade, diffusa e va cercata a diversi livelli. L’OIM si lamenta ad esempio della “mancanza di volontà politica” per gestire al meglio il problema migratorio in Bosnia Erzegovina. “Tutti vogliono un centro di accoglienza ben controllato, ma nessuno lo vuole sul suo territorio”, fa notare Peter Van der Auweraert, coordinatore dell’OIM per i Balcani occidentali. Ecco che fino agli incidenti di Maljevac, la settimana scorsa, il comune di Velika Kladuša ha sempre rifiutato di ospitare un centro all’interno della propria giurisdizione. Con il risultato che dal febbraio 2018, un campo improvvisato è sorto nel fango vicino al canile municipale e soltanto le organizzazioni umanitarie hanno permesso che ci fosse dell’acqua corrente e dei bagni chimici. Allo stesso modo, il governo del cantone Una-Sana ha deciso di recente di fermare tutti i bus e i treni provenienti da Sarajevo e di rispedire verso la capitale i migranti che vi si trovano all’interno (malgrado questi abbiano regolarmente acquistato un titolo di viaggio).

Ma per capire le origini del caos che va in scena alla frontiera croato-bosniaca, è necessario fare ancora un passo indietro. La maggior parte dei migranti che stazionano nel fango del campo di Velika Kladuša raccontano delle storie molto simili, fatte di tentativi falliti di raggiungere l’Unione europea. C’è chi si è rotto un braccio cadendo mentre fuggiva dalla polizia croata “che aveva liberato i cani”, chi si è fatto riportare indietro dagli agenti di tre Stati diversi (“i poliziotti italiani e sloveni si limitano ad arrestarci e a respingerci, quelli croati ci picchiano”), chi mostra i cellulari rotti, le contusioni e denuncia furti, sempre ad opera - dicono - della polizia croata. Un recente reportage de La Stampa racconta questa stessa storia ma in versione speculare, ovvero dall’altro lato della frontiera: a Trieste. La polizia italiana riconsegna i migranti alle autorità slovene, che li passano a loro volta ai colleghi croati, che li riportano in Bosnia Erzegovina.

Uno scaricabarile internazionale, tutto interno all’Unione europea e nella più completa illegalità. Un comportamento che non è soltanto all’origine di centinaia, migliaia di drammi personali, ma che intacca anche la stabilità della Bosnia Erzegovina, uno dei paesi più poveri dei Balcani, a cui viene affidato il compito di interrompere il viaggio di chi sogna una nuova vita in Europa. A cosa porterà tutto questo? Chi segue da vicino la questione a Bihać e Velika Kladuša parla di nuove possibili deviazioni della rotta (magari verso Knin, in Croazia), o più verosimilmente di una crisi umanitaria in Bosnia, qualora le istituzioni non riuscissero a sistemare al coperto tutti i migranti presenti sul territorio prima dell’arrivo dell’inverno. Lo stesso OIM nota che l’attuale flusso di “mille ingressi per settimana” potrebbe presto diventare problematico, di fronte ad una capacità ricettiva che al massimo potrà raggiungere le 5mila unità (pari al numero di persone già presenti nel paese).

Può dunque far sorridere l’immagine di quel giovane pakistano che al campo di Velika Kladuša ha deciso di issare la bandiera bosniaca sulla sua tenda (“i bosniaci sono persone accoglienti”, ci spiega Aadi), ma il rischio è che, a breve, quella benevolenza si riveli insufficiente.


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