Burj Hammoud - P.Martino

Burj Hammoud - P.Martino

"Ero partito con una guerra in tasca e ne portavo una nuova negli occhi". Genocidio armeno e guerra civile in Siria, tragedie che si intrecciano nei ricordi e nei vicoli stretti di Burj Hammoud, quartiere armeno di Beirut

28/12/2015 -  Paolo Martino

In quel 2012 le notti di Beirut passavano roventi, dolciastre. I primi echi della guerra civile siriana soffocavano la città in un’afa di morte che permeava tutto, il tono della voce, l’umore della gente. Ma dentro allo scantinato di Rafi, davanti al mezzobusto di Lenin e a un vecchio ventilatore, il tempo conservava il ritmo precedente alla fretta del mondo, il tempo del racconto, dove i silenzi fanno più ombra dei fatti e le pause più delle parole.

Nella sua fabbrica polverosa nasceva “Dal Caucaso a Beirut”, un reportage, una rincorsa a piedi della fiumara di anime che cento inverni prima aveva scavato il fondovalle della storia armena rendendola per sempre arida.

Il quartiere di Burj Hammoud fu la più grande scoperta di quel mio anno passato in Libano. L’autobus si infilava nel quartiere armeno passando da Dawra fino alla sponda nord del Nahr Beirut. Da lì proseguivo a piedi fino al retro della fabbrica dove di notte, quando la memoria della diaspora armena mediorientale diventava materia vivente, era lecito abbandonarsi all’impagabile dono dei ricordi altrui.

Rafi evocava quel milione di morti da un secolo prima come se ammiccasse al pubblico di un suo numero teatrale, e loro ogni volta sembravano presenti e curiosi, ansiosi di apprendere insieme a me le traiettorie della loro stessa sorte. E così il tempo presente diventava superfluo, pura circostanza da cui osservare il dispiegarsi della Storia.

Da Beirut risultava tutto chiaro. Il massacro aveva seminato ossa in tutto il Medio Oriente. Armenia, Turchia, Siria, Libano e Giordania erano echi di santuari aridi, cori funebri di una comunità superstite in esilio. Dovevo solo aggrapparmi al lutto e seguirlo sulla terra.

Ma l’aria puzzava già di nuova polvere da sparo. Oltre il Monte Libano colonne di camion carichi di straccioni siriani puntavano a nord est e a sud ovest. Carne scampata al piombo di un rinnovato massacro, umanità restata viva nella carne, e basta.

Da Beirut al Caucaso, le cui nevi annunciarono un inverno ferino. Scendevo a sud ovest attraverso valichi di montagna e memorie terribili, sulle tracce di colonne di fantasmi condotte verso Deir Ez Zor a morire con la bocca arsa di sabbia. L’alba del secolo scorso tinse di rosso la terra, non il cielo.

Poi venne il Kurdistan, terra di uomini forti e di immense greggi; Kars, Igdir, e Van, perle dell’altopiano, poi Antachia, e Mussa Dagh, e poi più nulla. Il confine con la Siria era per la prima volta chiuso, e per sempre. La storia che inseguivo era mutilata dall’attualità, Deir Ez Zor restava oltre una frontiera che non si poteva più attraversare.

Sotto i miei occhi i primi partigiani siriani in esilio sedevano sulle stesse sedie storte, davanti a medesime braci sopite, dei partigiani dell’alba di ogni guerra di montagna, consapevoli di candidarsi a memorie inutili per la maggior parte dei fratelli. Le maniche delle giacche erano scorciate o troppo lunghe, panni scelti in fretta dalle mogli tra mucchi di stracci.

I soldati rimasti fedeli al regime, oltre i reticolati, svuotavano dalle proprie tasche, direttamente in un barile di metallo, le castagne prese nei giorni passati in licenza a casa. Avvicinandosi un po’ si avvertiva il bagliore della brace e l’odore delle caldarroste.

La guerra in Siria era neonata, non sapevamo che sarebbe cresciuta come un bambino di periferia, senza controllo, senza attenzioni. Oggi ha compiuto cinque anni, ed è prepotente e sana, e come ogni nuova generazione allo sbando ama disperatamente la vita e rifiuta la memoria. Non ricorda che Deir Ez Zor, il cortile dove gioca la sua partita di morte, ospita il più grande ossario del Medio Oriente. Mentre il regime bombarda e le fazioni si uccidono a mani nude, le fosse comuni vomitano sabbia che fu ossa.

Tornai alla fabbrica di Rafi dopo un viaggio di un mese e mezzo. Avevo visto la capitale armena di oggi, quella di due secoli fa, avevo bevuto tè sui sacrari armeni di Ani, di Amman, della valle della Bekaa, unendo a piedi il Caucaso a Beirut per ripercorre il cammino dei sopravvissuti di un secolo prima. Ero rimasto appeso al filo di una memoria antica mentre davanti a me tuonavano i prodromi di una nuova vicenda che si candidava a diventare altra Storia. Ero partito con una guerra in tasca e ne portavo una nuova negli occhi.

Lui mi ascoltò, per la prima volta, senza interrompermi. Da quel giorno non l’ho più visto.


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