Una foto d'epoca della funivia di Sarajevo

Una foto d'epoca della funivia di Sarajevo

Dopo più di un quarto di secolo una funivia collega nuovamente Sarajevo al monte Trebević. Dove non sono arrivate le istituzioni è arrivato un fisico nucleare olandese

05/04/2018 -  Azra Nuhefendić

Il 6 aprile è la festa di Sarajevo. In quella data, nel 1945, i partigiani avevano liberato la città dall’occupazione nazi-fascista. Quest’anno, per quella data, è prevista l’apertura della nuova funivia che, dopo ventisei anni, collegherà nuovamente il centro della città con il monte Trebević.

La vecchia funivia aveva funzionato fino all’inizio della guerra degli anni Novanta. Era uno dei simboli della città e subì la sorte degli altri emblemi: fu distrutta nei primi giorni del conflitto.

Anni dopo, a guerra finita, sembrava che la funicolare di Trebević non sarebbe mai più stata ricostruita. Per la nuova funivia sarebbero serviti come minimo dieci milioni di euro. A Sarajevo i soldi mancavano e quando c’erano, la precedenza era data alla ricostruzione di ospedali, scuole e uffici pubblici.

Ci ha pensato uno straniero, il dott. Edmond Offermann, uno scienziato, un fisico nucleare di origine olandese che, per il suo lavoro e il suo concetto di vita, è un vero e proprio cittadino del mondo. Offermann ha deciso di donare quasi 4 milioni di euro per contribuire alla ricostruzione della funivia di Trebević. Ci aveva provato anche nel 2011 quando era riuscito a convincere una cittadina svizzera a donare a Sarajevo la propria funivia dismessa. Ma poi il progetto è fallito, e così il dott. Offermann si è subito dato da fare per trovare un’altra soluzione.

Per il suo gesto il dott. Offerman è stato proclamato cittadino onorario di Sarajevo. Ringraziando, ha spiegato i motivi della sua generosità: "Trent’anni fa ho preso la decisione migliore nella mia vita, ho sposato Maja Amra Serdarević, una una studiosa di fisica nucleare di Sarajevo. Poi mi sono innamorato della città, dei suoi cittadini e delle montagne, e attraverso le numerose visite, ho iniziato ad apprezzare sempre di più l’unicità di questa città, la sua diversità, la sua bellezza culturale e naturale. Nell’estate del 1990 ho fatto il primo viaggio con la funivia che collega Sarajevo con il monte Trebević, era la prima volta che vedevo una funivia in una capitale. Dopo la guerra ho pensato a cosa avrei potuto fare per questa mia amata città. Così mia moglie Maja ed io abbiamo deciso di ricostruire la funivia".

La nuova funivia avrà 33 cabine con 10 posti ciascuna, con i colori olimpici “per sottolineare l’unità e la multiculturalità di Sarajevo”, dice il principale progettista, l’architetto Mufid Garibija.

Con la nuova funicolare si salirà in soli sette minuti dal centro della città al monte Trebević, a 1.160 metri sopra il livello del mare.

Di tutti gli alti monti che circondano Sarajevo, il Trebević è il più vicino, anzi è parte della città. Sulle sue falde ombreggiate ci sono gli antichi quartieri di Bistrik, Jarčedoli, Hrid, Varca, Soukbunar dove, in certi punti, la pendenza supera i 45 gradi.

La vecchia funivia

La vecchia funivia era stata inaugurata il 4 maggio 1959. Per l’occasione fu fatta una grande festa a cui parteciparono i membri del Comitato Centrale del Partito Comunista e il governo della Repubblica della Bosnia Erzegovina al completo.

Il primo giro in funicolare spettò ai ministri e ai membri principali del partito comunista, poi vi salirono i semplici cittadini. Quel giorno la funivia trasportò più di 3.000 persone dal centro della città al monte Trebević.

Rovistando tra i documenti rimasti dopo la morte di mio padre, ho trovato un foglio degli anni Cinquanta su cui sono riportate le regole di comportamento del buon cittadino, come ad esempio: non buttare le immondizie dalla finestra, non fare rumore tra le due e le quattro del pomeriggio, ecc.

Ma pare che le autorità municipali dell’epoca non avessero preparato i sarajevesi su come comportarsi con la funivia. Secondo un articolo pubblicato sul quotidiano di Sarajevo, Oslobođenje, il giorno dopo l’apertura della funivia, tutti i fiori piantati intorno alla stazione di partenza furono calpestati, i pini rovinati, le cabine danneggiate, undici vetri della stazione frantumati. I bambini lanciavano pietre sui passanti, ed erano stati sequestrati alcuni fucili ad aria compressa perché i passeggeri sparavano contro i passanti di sotto. Inoltre i bambini si arrampicavano sui pali di sostegno della funivia ignorando il pericolo dell’alta tensione.

Ma queste “malattie infantili” le abbiamo superate presto e abbiamo imparato a voler bene, a custodire e a proteggere la funivia di Trebević..

Slitte e baci

Il monte Trebević e la sua funivia sono sempre stati più di un simbolo della città, facevano parte, in modo diverso, di tutte le fasi della vita dei sarajevesi, dalla prima infanzia alla vecchiaia.

Da bambini erano i nostri genitori a portarci su quella montagna. E quando la piccola cabina della funivia dondolava pericolosamente a dieci, venti o cinquanta metri dal suolo, nonostante il senso di paura, ci sentivamo ben accuditi e protetti tra le loro braccia.

A casa mia vigeva la regola che, se durante la settimana io e le mie sorelle facevamo le brave, potevamo andare a Trebević non a piedi (ci voleva un’ora da casa) ma con la funivia. I ricordi più vivaci risalgono alle escursioni invernali.

Con la funivia, in dodici minuti si saliva sul Trebević. Dopo i primi minuti di tragitto la città non si vedeva più, coperta dalla nebbia “più fitta di quella londinese”, ci vantavamo almeno di questo aspetto negativo che ci metteva al di sopra delle altre città europee.

In cima al monte si scendeva dalla cabina e si era presi subito da un leggero giramento di testa per l’aria pulita (la città puzzava per lo smog) e sembrava di arrivare in cielo, con il sole forte sullo sfondo azzurro.

Per prendere la funivia si partiva la mattina presto da casa, e ognuno si portava dietro la slitta o gli sci. Noi avevamo una slitta trofeo, costruita dai prigionieri tedeschi dopo la Seconda guerra mondiale. Era un bel modello per l’epoca, ma ingombrante e pesante, e con invidia guardavamo le altre slitte fatte in casa, leggere, di legno, talvolta piccolissime, non più grandi del sedere di un bambino.

La distanza tra il punto di partenza della funivia, nei pressi della Sarajevska Pivara (la Fabbrica della birra) e il punto di arrivo è di circa due chilometri. La differenza di altitudine tra i due punti è di cinquecento metri.

I dodici minuti che impiegava la funicolare per percorrere quella distanza, ci parevano lunghissimi quando eravamo piccoli: eravamo impazienti di arrivare in cima, perché il divertimento principale era la discesa con la slitta.

Si scendeva per un sentiero tra i pini alti e folti del Trebević, si passava per uno spazio aperto, e poi a tutta velocità si attraversavano le mahale, le viuzze strette e curve che portavano in città.

I pini, le case, i passanti, tutto ci appariva in un’unica immagine, come in alcune fotografie d’arte di oggi dove un’immagine si amalgama con l’altra, con le linee confuse degli oggetti o delle persone, i colori mescolati e tutto un po’ sfocato.

Se nevicava, il che una volta era molto frequente durante i sei mesi invernali, i fiocchi di neve si appiccicavano sulle nostre guance rosse dal freddo, ci entravano negli occhi, nella bocca aperta per l’eccitazione e il continuo ridere. In una ventina di minuti si arrivava fino alla Vijećnica (la Biblioteca Nazionale) e al Carev most (Ponte dell’Imperatore).

Durante l’adolescenza quel senso di paura nello stare sospesi si trasformò, e mutò pure la percezione del tempo all’interno della piccolissima cabina.

I primi fidanzatini ci portavano sulla funivia, dove cercavano l’occasione per abbracciarci. E lo spavento di noi ragazzine era un buon pretesto per ritrovarci tra le loro braccia, mentre i dodici minuti del tragitto erano decisamente troppo pochi per la durata del bacio che si desiderava.

Disco-club

Negli anni Ottanta a Trebević si andava nel disco-club di moda, nelle grandi sale dei rifugi o dei ristoranti aperti fino a tardi dove la musica degli allora popolari “Bony M” non disturbava nessuno.

Andavamo là con l’auto o la funivia, che finiva di girare alle nove di sera. Per il ritorno ci si arrangiava, intanto per scendere da Trebević a Sarajevo a piedi non ci vogliono più di 40 minuti, un’ora al massimo, e una volta non si correva alcun pericolo in qualsiasi ora.

In una di quelle disco-notti sul Trebević uscimmo dal locale dopo la mezzanotte, l’amica Dana non riusciva a far ripartire l’auto, una “Dyane” Citroën. Era bloccata da una pietra. Dopo vari tentativi noi quattro, tutte ragazze, la sollevammo di peso. Ed eravamo così felici che fino a casa avevamo cantato una delle canzoni più popolari dell’epoca su quattro ragazzi che scendono dal Trebević in città (Četiri mladića jure s Trebevića).

La guerra

Uno dei locali più conosciuti sul Trebević era il “Vidikovac” (Belvedere): grande, costruito al punto di arrivo della funivia. Nel 1991 era stato dichiarato come il migliore ristorante del paese. Mentre si svolgevano i festeggiamenti per la premiazione, alcuni ospiti si lamentarono perché delle persone armate li avevano fermati e avevano controllato i loro documenti.

“Probabilmente sono dei cacciatori”, disse uno calmo.

“Ma che dici, da quando in qua i cacciatori ti chiedono la carta d’identità?” Iniziava la guerra. Per ironia della sorte, proprio il 6 aprile 1992, il giorno della festa della città.

Sarajevo fu attaccata e messa sotto assedio, il più lungo assedio di una città nella storia moderna. La prima vittima fu un addetto della funivia, Ramo Biber, ucciso con un proiettile nella schiena.

Di lui si ricorda bene la mia amica Gordana. Insieme al gruppo degli astro-fisici di Sarajevo saliva sul Trebević con la funivia e poi camminava per mezz’ora per raggiungere il piccolo osservatorio astronomico in cima al monte, in una torre austro-ungarica.

I suoi compagni spesso si fermavano lì anche a dormire, ma Gordana, essendo l’unica donna, doveva rinunciare perché, come le diceva la madre: non stava bene. Gordana tornava tardi, e Ramo l’aspettava con la funivia, per non farla scendere a piedi per il sentiero buio. “Arriva quella che guarda le stelle”, annunciava Ramo.

Durante la guerra la funivia di Trebević fu completamente distrutta e la montagna in gran parte minata. Una delle cabine della vecchia funivia appare nel documentario della BBC “Serbian Epic” (1992) del regista polacco Pawel Pawlikowski.

Nel film l’ex presidente dei serbo bosniaci, Radovan Karadžić, la utilizza come cabina telefonica, mentre in primo piano si vede il suo ospite, il poeta russo Eduard Limonov.

Limonov guarda Sarajevo assediata, poi con calma prende posizione accanto al cavalletto, si accosta bene al mirino e dalle “altezze poetiche” spara con il mitra sulla città inerme e indifesa.

Dopo la guerra per quasi vent’anni i sarajevesi non sono saliti sul Trebević. La funivia era distrutta, il bosco minato, ci giravano persone sospette, capitava che ti rubassero i soldi o l’auto. Ma non ci andavano soprattutto perché la nostra montagna di casa, il Trebević, durante la guerra era diventata il simbolo della morte.

Era dal Trebević che ci bombardavano, da là sparavano i cecchini, da là il poeta Limonov mitragliava “la bara di Sarajevo” (come lo scrittore bosniaco Abdulah Sidran ha definito la città). Da lì Sarajevo si mostra aperta come se fosse sul palmo di una mano, da sopra capisci che nella valle non ci si può nascondere e che non ci sono né strade né case né ponti sicuri.

E sulle pendici del Trebević si trova la fossa di Kazani dove i paramilitari bosniaci, durante l’assedio, con il pretesto di fare i patrioti, portavano e uccidevano i cittadini non musulmani, principalmente serbi.

Per vent’anni non sono salita sul Trebević, lo ignoravo, passavo per le vie della città e non guardavo neanche nella sua direzione. Era il mio modo di negare quello che ci era successo.

Due anni fa un’amica mi ha portato su, in macchina. Ho trovato il Trebević come una volta: la natura bellissima, l’aria fresca, il cielo azzurro, i pini ancora più alti, color verde scuro, il bosco fitto come se fossimo centinaia di chilometri lontano dalla civilizzazione, alcuni ristoranti ricostruiti, gli spazi dove una volta imparavamo a sciare affollati di bambini, i nonni che all’aria aperta bevevano il caffè o il tè.

Mancava solo la funivia.


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