Tiraspol (flickr/Marco Fieber)

Mentre domenica i cittadini ucraini andranno alle urne e nel Donbass proseguono gli scontri tra forze governative e separatisti filo-russi è l'inquietudine a dominare in Transnistria. Si teme la destabilizzazione della regione mentre l'economia locale soffre della chiusura delle frontiere

(Pubblicato originariamente da Le Courrier des Balkans il 23 ottobre 2014)

Un'immensa statua di Lenin s'innalza nel centro di Tiraspol, proprio di fronte al Soviet supremo. Certamente, nei corridoi dell'università si sente l'odore di vecchi parquet e i quadri appesi alle pareti hanno il gusto inequivocabile dei tempi andati. Ma la “Repubblica moldava del Dniestr” non è solo un “conservatorio dell'epoca sovietica”, secondo una definizione ormai radicata e un po' sdegnosa degli occidentali di passaggio.

La Transnistria è una striscia di terra schiacciata tra la Moldavia e l'Ucraina, un regime autoritario che sopravvive grazie all'aiuto di Mosca da quando, nel 1991, ha dichiarato la propria indipendenza dalla Moldavia. E' così che i suoi 500.000 abitanti – secondo le statistiche ufficiali, in realtà meno – si battono per sopravvivere in una partita di poker diplomatico che viene giocato sopra le loro teste. Per chi non ha un lavoro nella pletorica amministrazione dell'entità o nella polizia è spesso obbligatorio attraversare il confine per procurarsi le risorse per mantenere la propria famiglia.

Malgrado gli accordi di cessate il fuoco sottoscritti in settembre a Minsk, i combattimenti continuano nel Donbass tra l'esercito ucraino e i separatisti filo-russi. Temendo un'infiltrazione di agenti del Cremlino, Kiev ha vietato l'ingresso sul proprio territorio di tutti i cittadini uomini della Transnistria in possesso di un passaporto russo.

Volodia, giovane autista di taxi, due anni appena trascorsi a Mosca, ha una soluzione: oltre al passaporto russo è anche titolare di un passaporto moldavo, accettabile da parte delle autorità ucraine. Come lui, molti altri transnistriani sono divenuti dei “diplomatici” di tipo del tutto particolare: hanno tre o quattro documenti di identità. Oltre a quello della repubblica secessionista hanno passaporti moldavi, russi, ucraini, che tirano fuori a seconda del confine di attraversare.

Ma il blocco non riguarda solo le persone. In virtù di accordi sottoscritti con Chișinău i prodotti transnistriani devono ottenere un certificato doganale moldavo per essere inviati all'estero. Dal luglio scorso la Russia ha posto un embargo sulle merci moldave in risposta alla firma, il 27 giugno scorso, dell'Accordo di associazione tra l'Unione europea e la Moldavia.

Sergueï Chirokov è un ex diplomatico transnistriano e dirige attualmente il centro di ricerca Mediator, che si presenta come “indipendente”. Riassume in questo modo il paradosso kafkiano delle patate e dei pomodori della Trannistria: “Se posseggono un certificato doganale moldavo, il mercato russo, la loro principale destinazione, è loro chiuso”. Quest'anno quindi i prodotti raccolti marciranno perché non troveranno sbocchi sull'esiguo mercato locale.

Tatyana Bilskaia dirige una grande azienda privata, con sede nel villaggio di Vladimirovka, una decina di chilometri a nord di Tiraspol. Coltiva legumi su 25 ettari di serre, teoricamente con agricoltura biologica. “L'embargo doganale non è il solo problema” denuncia. “Con l'affondamento del corso della moneta ucraina non siamo più competitivi: i legumi prodotti in Ucraina arrivano sul nostro mercato a prezzi inferiori ai nostri costi di produzione”. Tatyana Bilskaia non sa più come garantire un salario ai 70 lavoratori della fattoria, pagati meno di 200 euro al mese.

Nella primavera scorsa il Soviet supremo della Transnistria ha ufficialmente richiesto l'unione dell'entità separatista alla Federazione russa. La richiesta è rimasta senza risposta. “I russi ci dicono di aspettare” sospira Sergueï Chirokov “la Transnistria non è che una piccola pedina per Mosca”. Mosca ha riconosciuto nel 2008 le due entità secessioniste del Caucaso, Abkhazia e Ossezia del sud. Lo status della Transnistria rimane invece incerto, anche se questa strana repubblica dispone di una moneta propria, il rublo transnistriano e di un sistema politico e sociale distinto da quello della Moldavia. Mosca alimenta direttamente il budget della piccola repubblica, fornendole gratuitamente gas e assicurando un po' di aiuto “umanitario” a tutti i suoi pensionati. Ma in ogni caso sembra preferire lo status quo. Dal punto di vista di Mosca, la piccola repubblica è innanzitutto un elemento permanente di destabilizzazione regionale, che può essere utilizzato con efficacia nel mercanteggiare con l'Ue.

Sergueï Chirokov non aveva più di vent'anni ai tempi della secessione del territorio nel 1991 e della guerra con la Moldavia l'anno successivo. Ha conosciuto il sistema sovietico solamente durante la sua adolescenza ma ha poi partecipato agli anni di massicce negoziazioni tra Transnistria e Moldavia. E' quindi un esperto dei margini stretti entro i quali un esile territorio secessionista deve giocare nello scontro tra grandi blocchi. “Noi potremmo ben consigliare i compagni di Donetsk e Lougansk grazie alla nostra grande esperienza”, afferma con un sorriso. “E' certo che la crisi ucraina avrà per noi gravi conseguenze: da qualche anno Kiev si impone come un fattore di stabilità regionale e come un mediatore nelle negoziazioni. Ormai tutto è rimesso in causa”.

In effetti i seppur fragili risultati ottenuti con queste negoziazioni hanno permesso una certa “normalizzazione” della situazione e ad esempio hanno portato Tiraspol a riconoscere le dogane moldave. Paradossalmente è l'avvicinamento avvenuto tra Moldavia e l'Europa ad aver rimesso in moto la conflittualità. Non è pensabile, per Tiraspol, avvicinarsi ad una Moldavia che va verso Bruxelles, dato che l'entità secessionista sogna di unirsi alla Russia.

La crisi ucraina suscita inoltre grandi timori a Chișinău, i cui dirigenti riformatori e liberali stano tentando di rafforzare i legami con la vicina Romania, l'Ue e la Nato per tutelarsi da un irschio diretto da parte russa.

Alcuni affermano che Vladimir Putin avrebbe come progetto di riunire le “repubbliche” secessioniste del Donbass alla Crimea e alla Transnistria annettendo tutto il sud dell'Ucraina. Una regione che corrisponde al Governatorato della nuova Russia, creato dall'Imperatrice Caterina II alla fine del XVIII secolo. Tiraspol era allora un avamposto russo contrapposto ai principati romeni, vassalli dell'impero ottomano. Queste considerazioni storico-politiche non provocano che un'alzata di spalle da parte di Sergueï Chirokov. “Sono elucubrazioni della propaganda ucraina. Come potrebbe la piccola Transnistria, coi suoi 500.000 abitanti, rappresentare una minaccia per l'Ucraina?”.

Ma l'inquietudine è comunque palpabile sui due lati della frontiera. Le indiscrezoni si propagano velocemente in tempo di guerra anche se l'ovest dell'Ucraina rimane risparmiato dalla violenza dopo gli scontri del maggio scorso tra “filo-russi” e “filo-ucraini” che hanno causato 50 morti in una città russofona vicino ad Odessa.

Il giornalista Serguei Bibrov è uno degli animatori del “Gruppo due maggio”, che tenta di far luce su quei fatti tragici. “Poco dopo la caduta del presidente Viktor Ianoukovic, Odessa avrebbe potuto chiedere la secessione. Ma la gente ha capito che vi è una differenza essenziale tra il contrasto politico e la guerra. E' stata la prima volta che i cittadini di Odessa si sono battuti tra loro dalla guerra civile del 1918” spiega. “E' da vent'anni che siamo vicini della Transnistria i cui abitanti vengono a lavorare ad Odessa. E tutti possono constatare che il separatismo non porta lontano. Ci è servito da vaccino”.


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