Beirut - foto di P.Martino

"Nel tempo i paesi in cui viviamo, il Libano, la Siria, la Giordania, l'Iraq sono diventati casa nostra. L'arabo è diventata la nostra lingua. Il pane azzimo è diventato il nostro cibo. Ma noi, non lo dimentichiamo mai, apparteniamo a un'altra storia". Nella dodicesima puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut" Paolo Martino ritorna tra gli armeni del Libano

21/09/2012 -  Paolo Martino

Beirut. Eterna nella precarietà delle terrazze crivellate, effimera nei grattacieli di vetro che riflettono un futuro vuoto. La città è battuta da una pioggia tagliente che annuncia l'inverno. Una melma densa rigurgita odori sopiti dai mesi della siccità, gorgogliando sui tombini. Burj Hammoud, il più grande caposaldo armeno in Medio Oriente, è stranamente silenzioso, ovattato dal grigio di un cielo che sfiora i tetti. Un palazzo alto e pallido, spiovente sull'autostrada, è la sede del Tashnag, uno dei tre partiti armeni rappresentati nel parlamento libanese. Il portiere mi annuncia all'interfono. “Prego, il signor Pakradounian l'aspetta nel suo ufficio, al quinto piano”. 

Bisogna che il caso

rivolti la formica,

perché essa veda il cielo

Detto arabo

Il deputato, uomo di mezza età, troneggia su una sedia di cuoio. Dalle finestre alle sue spalle le case basse del quartiere armeno riempiono la vista fino alla linea bassa delle nuvole. “Mi dicono che lei ha viaggiato molto tra i nostri fratelli della diaspora. Immagino oggi voglia parlare della situazione degli armeni in Libano”. Il Tashnag è storicamente il partito più seguito dalla comunità armena e uno degli organi politici più influenti del paese. Il quartiere di Burj Hammoud non ha mai avuto un amministratore che non provenisse dalle sue fila. “No, vorrei parlare della Siria”.

Pochi mesi dopo le prime manifestazioni di piazza contro il regime degli Assad, la Primavera siriana ha assunto le sembianze di una guerra civile. Il grido di rabbia giovanile partito a fine 2010 dalla Tunisia, in grado di rovesciare due governi e di far vacillare tutte le dittature arabe, si sta arenando nella guerriglia urbana delle provincie siriane di Hama, Homs, Daraa.. I centomila armeni, come le altre minoranze presenti nel paese, si ritagliano posizioni più marginali man mano che la violenza aumenta. Il fronte della contestazione, sempre meno trasversale, si estremizza, mentre il ruolo delle armi cresce di giorno in giorno. 

“Gli armeni non temono il cambiamento”. Pakradounian si esprime col tono di chi voglia giustificare una scelta sofferta. “Però hanno paura del salto nel vuoto, perché ne conoscono la pericolosità. Chi come noi ha perso la casa una volta, non può correre il rischio di perderla di nuovo”. Il genocidio, l'eterno marchio esistenziale che segna l'identità della diaspora armena, emerge con la forza di un dogma. “D'altronde non si può chiedere agli armeni di fare di più. Il ruolo della nostra diaspora in Medio Oriente si è sempre limitato alla sfera economica, raramente è sconfinato nella politica”. Allo scoppio della guerra civile libanese, a metà degli anni '70, i rappresentanti della comunità armena concordarono per l'assoluta neutralità tra le parti in lotta. A vent'anni dalla fine del conflitto, quella scelta viene vissuta ancora come un momento di successo.

“Ma al di là delle strategie politiche, gli armeni credono o no negli obiettivi della Primavera araba?” Pakradounian si inchina sulla scrivania, come a cercare maggior intimità. “Nel tempo i paesi in cui viviamo, il Libano, la Siria, la Giordania, l'Iraq sono diventati casa nostra. L'arabo è diventata la nostra lingua. Il pane azzimo è diventato il nostro cibo. Ma noi, non lo dimentichiamo mai, apparteniamo a un'altra storia. E il nostro obiettivo è altrove: riconquistare i diritti perduti sulle terre dei nostri padri.” Il deputato torna a rilassarsi, come se si fosse alleggerito di una verità pesante. “Per il resto, noi saremo per sempre grati agli arabi per averci ospitato a casa loro. A prescindere da chi siede sulla sedia del capo”. Alle sue spalle, una mappa della Grande Armenia si estende spavalda dalle alture del Nagorno-Karabakh all'altopiano anatolico, dalla Georgia meridionale all'enclave azera di Nakhichevan.

Dal mio diario. 5 dicembre

Da Yerevan a Beirut, dal Caucaso al cuore del Medio Oriente. Via terra, per misurare le dimensioni di una storia che non ama farsi inquadrare nelle mappe. Il viaggio attraverso i territori della diaspora armena mediorientale è arrivato a compimento, ma le domande che mi ponevo alla vigilia restano quasi tutte aperte. L'unica conclusione che appunto sul diario è che in questa vicenda non bisogna rivolgersi alla Storia per risolvere gli interrogativi: al contrario, la Storia è il campo di battaglia fumante in cui si continua a dare la caccia al nemico, a gridare vendetta, a scavare trincee di rancore sempre più profonde tra l'Uomo e i suoi sogni.

La valle della Bekaa è vestita dei colori tenui dell'autunno. Hrayer guida tra i filari spogli valutando i lavori che lo impegneranno sui campi. “Potatura e aratura, per lasciare la terra a riposo durante i mesi freddi”. Anjar, il villaggio fondato nel 1939 tra le montagne libanesi dai profughi armeni di Musa Dagh, compare in lontananza, incorniciato dal blu di un cielo che raramente si concede a Beirut. “Prima della tua partenza per l'Armenia avevo promesso che ti avrei mostrato la bandiera dei combattenti di Musa Dagh”. Il ragazzo, conosciuto tra questi monti quasi un anno fa, sorride pregustando il seguito della frase. “Hai fatto bene a venire oggi”.

Il parroco di Anjar ci accompagna attraverso la chiesa fino alla sacrestia. Tra le immagini sacre che adornano la volta, una serie di affreschi racconta i passaggi drammatici che hanno segnato la storia di questa comunità. La battaglia contro le truppe ottomane nel 1915 e la fuga precipitosa a bordo di una nave; l'arrivo a Port Said e la vita nel campo profughi; il primo terribile inverno trascorso in tenda sull'altopiano della Bekaa. Con gesti misurati, il parroco apre la porta di un magazzino. Lo sguardo è calamitato dal drappo bianco appeso al muro, protetto da un vetro. Cuciture grossolane disegnano una grossa croce rossa al centro del rettangolo.

“E' fatta con pezzi di lenzuola e stracci”. Il parroco guarda la bandiera con aria familiare, come una vecchia conoscenza. “Fu issata nel 1915 dai combattenti di Musa Dagh dopo più di un mese di resistenza tra le montagne”. Ridotti al limite delle forze, gli armeni si rifugiarono sull'ultima linea di difesa possibile, il Mussa Dagh, il monte più alto. Incapaci di rompere l'assedio delle truppe ottomane, sistemarono la bandiera sulla vetta, nella speranza che qualche nave in transito nel vicino Golfo di Antachia la notasse. “La sorte fu dalla loro parte. A notte fonda i superstiti riuscirono a raggiungere la spiaggia e a imbarcarsi su una nave francese. Naturalmente portarono via anche la bandiera”. La sua mano sfiora il vetro. Nel giardino che circonda la chiesa, un monumento raccoglie le ceneri dei diciotto martiri della battaglia.

Vartuhi,personaggio chiave del racconto

Mentre il vento gelido che precede il tramonto si impossessa della valle, Hrayer mi accompagna per l'ultima visita nel suo villaggio. Angel, la donna più anziana di Anjar, è seduta nello stesso punto in cui l'avevo lasciata più di un mese fa. I suoi racconti, memorie vecchie di novant'anni, sono stati il filo conduttore del viaggio sulle tracce della diaspora armena attraverso il Medio Oriente. Alle sue spalle, in lontananza, la sottile catena montuosa dell'Antilibano è inondata di luce rossa. Oltre quelle alture si distende, misteriosa e marziale, la Siria.

“Sono venuto con una sorpresa”. Lo sguardo della donna segue nervosamente le mie mani mentre estraggo dallo zaino un ritratto. Angel lo afferra come uno specchio e, in quel volto in tutto e per tutto simile al suo, si specchia. Nelle rughe che solcano quel volto misura la profondità delle sue. In quello sguardo lucido si riflette il suo. “E' Vartuhi, tua sorella”. Angel risponde senza distrarsi. “L'avevo capito. Dagli occhi”. La donna rimane assorta fino a che il cielo diventa buio. Angel e Vartuhi non si vedono dal 1948, quando furono separate da una storia che offriva ai profughi biglietti di sola andata. Angel tra i monti del Libano, Vartuhi nella campagna piatta dell'Armenia.

Dal mio diario. 8 dicembre

Non ho più ritratti nello zaino, mi avventuro da solo per scrivere il capitolo finale di questa storia. Il taxi per Damasco ha i sedili comodi e tra i passeggeri si respira un'atmosfera leggera. Beirut, sempre più piccola a valle, mi sembra per la prima volta una bella città.


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