Rieletto alla guida del proprio partito, il presidente della RS ha evocato per la trentesima volta un referendum sull'indipendenza dell'entità della Bosnia Erzegovina a maggioranza serba. L'omaggio alle vittime di Srebrenica
Se c'è un politico bosniaco che di sicuro non è rimasto in disparte nelle ultime settimane è il presidente della Republika Srpska (e leader indiscusso dell'SNSD, fresco di riconferma) Milorad Dodik. L'ultima provocazione, in realtà annunciata, è giunta sabato scorso, quando al quinto congresso generale del proprio partito ha reso nota la volontà di "organizzare un referendum per una Republika Srpska libera e indipendente", nel caso in cui all'entità "non vengano restituite le proprie competenze costituzionali", competenze che secondo il leader serbo sarebbero minacciate dal governo centrale di Sarajevo.
La dichiarazione programmatica, nella quale si può leggere anche il sostegno alle aspirazioni autonomiste dei croati di Bosnia Erzegovina, ha suscitato un prevedibile vespaio, con le reazioni dure dei partiti unitaristi e bosgnacchi come l'SDA, che alle parole di Dodik ha replicato sottolineando che, "se qualcuno cercherà di replicare la politica di Karadžić e Mladić in Bosnia Erzegovina, finirà come loro", cioè davanti al Tribunale dell'Aia.
In realtà, la serietà delle minacce di secessione andrebbe riconsiderata alla luce di due circostanze: la prima è che il referendum in questione non sarebbe comunque organizzato prima del 2018 (e delle prossime elezioni politiche generali); la seconda è che, come giustamente sottolineato (non senza ironia) dai giornalisti del portale informativo Klix, Dodik nel corso della sua carriera politica ha già annunciato "la volontà di organizzare un referendum" in almeno una trentina di occasioni.
Una tigre di carta?
Se la carta del secessionismo sembra tutto sommato una boutade a uso e consumo dei propri elettori, è anche vero che il Congresso generale dell'SNSD organizzato a Istočno Sarajevo lo scorso 25 aprile ha sancito una volta di più l'egemonia di Dodik sul proprio partito. Per la quinta volta egli infatti è stato eletto alla carica di presidente, posizione che detiene ininterrottamente dal 1996. In suo favore hanno votato tutti i delegati presenti - scelta obbligata, del resto, dal momento che non vi erano altri candidati (ma la 'personalizzazione' del partito è una tendenza che non riguarda solamente l'SNSD: l'SDA è ormai in mano a Bakir Izetbegović, l'HDZ BiH a Dragan Čović, l'SBB BiH è sempre stata la creatura del magnate Fahrudin Radončić).
Secondo l'analista e redattore del portale Buka, Aleskandar Trifunović, se Dodik ha parlato di referendum è semplicemente "perché evidentemente il suo partito non è stato capace di produrre uno slogan o una politica alternativa", capace di attirare consenso. E visto che "si è parlato del 2018 come data concreta", è lecito attendersi che l'ennesimo appello al referendum sia meramente strumentale "a dare un senso ai due teatrini politici che ci attendono nei prossimi quattro anni: le elezioni locali del 2016 e quelle generali, per l'appunto, del 2018. Dodik e il suo partito sono al governo da otto anni", conclude Trifunović, "se avessero voluto, avrebbero potuto organizzare una consultazione in ogni momento".
Se l'SNSD non organizzerà il tanto temuto referendum, è però vero che nel frattempo continua a bloccare il lavoro del Parlamento centrale, attraverso il boicottaggio dei lavori alla Camera dei Popoli, dove il partito controlla la maggioranza dei rappresentanti nel caucus serbo. Posizione che può essere mantenuta grazie alla maggioranza acquisita all'Assemblea Nazionale della Republika Srpska, sulla quale però gravano (come già scrivevamo nei mesi scorsi ) fondati dubbi di corruzione e di compravendita dei voti di due parlamentari decisivi.
I sospetti erano stati avallati in ottobre da un'intercettazione in cui il Primo Ministro attuale, Željka Cvijanović, assicurava di avere acquistato i deputati necessari. Il procuratore speciale della RS, chiamato a investigare sulla veridicità della registrazione, tentenna, e non si è ancora deciso a verificarne l'autenticità - un'apparente negligenza che è stata duramente condannata da Transparency International, la quale ha esortato le autorità di Banja Luka a "proseguire in un'indagine dalla quale dipende la stessa legittimità dell'attuale governo dell'entità", oltre che il non funzionamento del parlamento centrale.
Srebrenica, Armenia
Se la risoluzione del Congresso dell'SNSD per un "referendum" era ampiamente annunciata, nessuno si sarebbe aspettato una mossa a sorpresa come quella con cui Dodik ha scelto di recarsi a Srebrenica il 16 aprile scorso. Un evento che ha sorpreso gli stessi residenti, come racconta ad esempio Marinko Sekulić, giornalista storico di RTV Srebrenica. "Mi hanno chiamato neanche quindici minuti prima che arrivasse, pensavo a uno scherzo", spiega a Osservatorio.
In una città blindata, protetto da imponenti misure di polizia, Dodik si è recato per la prima volta al memoriale di Potočari, che ospita i corpi di migliaia di bosgnacchi massacrati dalle truppe serbe dopo la caduta dell'enclave, nel luglio 1995. Anche se il leader ha scrupolosamente evitato di parlare di 'genocidio', ha comunque deposto una corona di fiori e ha pubblicamente dichiarato "di essere dispiaciuto per le vittime di questo crimine", oltre a invocare "la fine delle speculazioni politiche su quanto accaduto a Srebrenica" e a promettere 25.000 euro per l'organizzazione della commemorazione di quest'anno. Per Sekulić, come pure per altri opinionisti come il politologo Srdjan Puhalo di Banja Luka, la visita di Dodik è stata determinata soprattutto da un calcolo di opportunismo politico, "per lanciare un segnale di apertura nei confronti della comunità internazionale e non rimanere troppo isolato", conclude Sekulić.
Il sindaco di Srebrenica, Čamil Duraković, ha accolto positivamente la visita del presidente della Republika Srpska. La reazione delle associazioni delle vittime è stata, al contrario, piuttosto fredda. Voci storiche come quella delle “Madri delle enclave di Srebrenica e Žepa” hanno minimizzato la portata della visita: "Nessuno lo ha invitato e per noi la sua visita è stata indifferente", ha minimizzato Munira Subašić, esponente del movimento. "Se avesse voluto dare un segnale, avrebbe dovuto approvare nell'assemblea della Republika Srpska una risoluzione con cui si riconosce il genocidio nei confronti dei bosgnacchi durante la guerra". Prospettiva che, al momento, sembra poco realistica.
Al contrario, Dodik ha annunciato che presenterà una risoluzione per riconoscere il genocidio degli armeni nella Republika Srpska. Il leader della RS ha anche cercato di recarsi a Yerevan per le commemorazioni, ma il suo aereo è stato bloccato dalla Turchia, che non gli ha concesso il permesso di sorvolare il proprio territorio, ed è stato costretto a tornare a Banja Luka.
Bosić Vs Dodik
Nelle ultime settimane, il presidente della RS sembra essere ovunque. Forse è proprio a causa dei suoi impegni che non ha potuto essere presente all'apertura del processo che, a Banja Luka, lo vede opposto al leader dell'opposizione, Mladen Bosić. Dodik lo ha citato per diffamazione, chiedendogli 10.000 KM (5.000 euro circa) di danni.
All'origine della discordia c'è la frase con la quale Bosić ha accusato in passato Dodik "di avere rubato dei milioni" dalle finanze pubbliche, lucrando sulle privatizzazioni di compagnie pubbliche come il centro commerciale 'Boska' di Banja Luka, o la compagnia telefonica dell'entità, la Telekom Republike Srpske.
Dodik si è detto sicuro delle proprie ragioni, scansando ogni accusa e sostenendo che Bosić non dispone delle prove per incriminarlo. Durante la prima sessione, lo scorso 8 aprile, Bosić ha tuttavia presentato delle prove relative agli anni 1992 e 1993 che, secondo le sue parole, proverebbero il coinvolgimento dell'attuale Presidente della RS in un traffico illegale di carburante e di sigarette. "Dodik rivendeva le sigarette a un prezzo incrementato del 300%", ha accusato Bosić, concludendo che "in linguaggio colloquiale, lo si potrebbe definire un profittatore di guerra".
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