Photo by Paul Brennan

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Negli ultimi cinque anni, da quando la Croazia ha fatto ingresso nell’UE e da quando è salito il centrodestra al governo, i rapporti coi vicini hanno subito un progressivo deterioramento

28/06/2018 -  Francesca Rolandi

Per molti anni la prospettiva di un ingresso dei paesi provenienti dall’area post-jugoslava nell’Unione europea è stata considerata come una panacea per la riconciliazione regionale, che si pensava sarebbe stata incentivata da una più ampia cornice europea. Tuttavia l’esempio della Croazia, entrata nell’Unione nel 2013 e investita dalle diverse crisi che sono scaturite al suo interno, sembrerebbe contraddire questo assunto. A cinque anni di distanza, Zagabria si trova a gestire situazioni di conflitto, più o meno aspro, con tutti i suoi vicini, assistendo sia alla riapertura di antichi focolai che all’inasprimento di rapporti storicamente non problematici.

Le relazioni tra Serbia e Croazia, che avevano attraversato una fase di distensione nella seconda metà degli anni 2000, in particolare sotto le presidenze di Boris Tadić e Ivo Josipović, hanno subito nell’ultimo quinquennio un progressivo deterioramento.

Croazia e Serbia

Nell’estate del 2015, mentre i flussi sulla rotta balcanica aumentavano e venivano indirizzati verso la Croazia dalla costruzione del muro al confine dell’Ungheria, il governo socialdemocratico di Zoran Milanović decideva di chiudere la frontiera per alcuni giorni ai veicoli provenienti dalla vicina Serbia. Il blocco temporaneo, oltre a creare interminabili code, ha proiettato un’immagine negativa che a qualcuno ha ricordato gli anni della guerra, quando i cittadini serbi, per viaggiare verso l’Europa occidentale, dovevano passare attraverso l’Ungheria.

Successivamente, nel 2016 e all’inizio del 2017, con i successivi governi di centro-destra, la Croazia ha esercitato il diritto di veto, bloccando l’apertura dei capitoli 23, 24 e 26 nei negoziati della Serbia con l’Unione europea. Le ragioni del contendere risiedevano nella cosiddetta “giurisdizione universale” che l’apparato giudiziario serbo si riserva sui crimini di guerra e nell’insufficiente tutela della minoranza croata in Serbia, per la quale si richiedeva un seggio in parlamento e un maggiore investimento in termini educativi.

Nel 2016 la presidente croata Kolinda Grabar Kitarović e l’allora primo ministro serbo Aleksandar Vučić avevano firmato una Dichiarazione sul miglioramento delle relazioni e sulla risoluzione delle questioni aperte, nella quale si impegnavano, tra gli altri punti, a risolvere le problematiche confinarie ancora aperte e a incentivare la collaborazione per determinare la sorte dei dispersi nelle guerre degli anni ‘90. Gli stessi propositi sono stati ripetuti in occasione della visita di Vučić a Zagabria nel febbraio 2018.

Tuttavia, crisi e incidenti diplomatici si sono insinuati nelle relazioni tra i due paesi negli ultimi anni, fino a raggiungere il punto più basso nella primavera del 2018, quando la visita di una delegazione del parlamento croato a Belgrado è stata interrotta da una provocazione orchestrata dal leader del Partito radicale serbo (SRS) Vojislav Šešelj, che ha calpestato la bandiera croata e insultato la delegazione stessa. Šešelj, che siede nei banchi del parlamento serbo, è fresco di condanna in secondo grado da parte dell’International Residual Mechanism for Criminal Tribunals dell’Onu – subentrato al Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia – per crimini contro l’umanità che però non dovrà scontare, avendo già trascorso in detenzione un periodo equivalente.

Sebbene le autorità serbe abbiano condannato l’accaduto, la delegazione croata ha dichiarato conclusa la visita e fatto ritorno a Zagabria. A pochi giorni di distanza un’altra polemica, scaturita da dichiarazioni del ministro della Difesa serbo Aleksandar Vulin – che spesso, nella dialettica delle relazioni con la Croazia, svolge il ruolo di incendiario, a cui Vučić risponde indossando i panni del pompiere – prima Zagabria e poi Belgrado hanno posto un veto all’entrata nel proprio paese dei ministri della Difesa dello stato confinante.

L’andamento negativo delle relazioni tra i due paesi, unito all’atmosfera di esacerbato nazionalismo, hanno creato un clima negativo verso la minoranza serba in Croazia (186.633 persone secondo l’ultimo censimento) che sempre più viene presentata da determinate frange della destra croata come un nemico interno e le sue rappresentanze etichettate sprezzantemente come “etnobusiness”.

In questa temperie ha visto la luce la raccolta di firme, portata avanti dall’iniziativa “Il popolo decide”, per un referendum che, oltre a far propri determinati cavalli di battaglia del populismo europeo, come la riduzione del numero di parlamentari, richiede di tagliare i seggi riservati alle minoranze e limitarne le competenze. “Il popolo decide”, che è riuscita a raccogliere oltre 400.000 firme, al di sopra della soglia necessaria per indire un referendum, ha alle sue spalle un cartello della destra clericale che si era già palesato nelle iniziative antiabortiste, nonché il sostegno della presidente Grabar Kitarović, che in questo modo pare voglia scavalcare a destra l’attuale premier del partito conservatore HDZ Andrej Plenković. Paradossalmente, nonostante la richiesta di maggiori diritti per la comunità croata in Serbia fosse stata all’origine dei tentativi di bloccare i capitoli negoziali della Serbia con l’Unione Europea, ora un’iniziativa croata punta a diminuire i diritti delle proprie minoranze sanciti dalla legge.

Croazia e Bosnia Erzegovina

A fare le spese del clima di tensione sono anche coloro che attendono la verità sulla sorte di molte vittime delle guerre degli anni ‘90. L’iniziativa Rekom, che propone la creazione di una commissione regionale che accerti la sorte dei dispersi, rimane tutt’ora in stallo, anche per l’opposizione di principio della Croazia, che rifiuta una collaborazione regionale .

Secondo uno dei promotori dell’iniziativa, il filosofo Žarko Puhovski, Zagabria rappresenterebbe il problema maggiore per la riconciliazione nella regione perché, essendo già parte dell’Unione europea, non ne può più subire le pressioni. Tuttavia, le schermaglie tra Zagabria e Belgrado degli ultimi anni testimoniano una forte complementarietà tra i discorsi politici portati avanti nei due paesi maggiori usciti dalla dissoluzione della Jugoslavia.

Sebbene i rapporti con la Bosnia Erzegovina non abbiano mai toccato picchi di tensione così espliciti, la politica di Zagabria verso il vicino oscilla tra un allarmismo esplicito su un presunto pericolo islamico presente nel paese e le frequenti ingerenze nella sua politica interna, a sostegno della componente croata.

Mentre sotto la presidenza di Stipe Mesić si era instaurato un rapporto più diretto tra Zagabria e Sarajevo, a discapito di Mostar, in particolare con gli ultimi due governi si è rafforzato il supporto al controverso presidente dell’HDZ Bosnia Erzegovina Dragan Čović che con grande slancio spinge verso la creazione di una terza entità croata all’interno della Federazione di Bosnia Erzegovina (FBiH)  e che, nel tentativo di erodere le competenze del governo centrale, non nasconde un’alleanza di intenti con il leader della Republika Srpska Milorad Dodik.

Čović ha sempre goduto del sostegno di Grabar Kitarović, che lo ha sostenuto nella sua battaglia per una legge elettorale in BiH che garantisca saldamente il potere dell’HDZ partendo dalle roccaforti erzegovesi.

La recente attribuzione di un dottorato ad honorem dall’Università di Zagabria a Čović è stata vissuta da una parte della comunità accademica come scandalosa. Lo scrittore spalatino Jurica Pavičić ha restituito il suo dottorato rilasciato dalla stessa istituzione, ricordando, tra l’altro, il ruolo di Čović a capo dell’industria mostarina Soko durante la guerra, quando la stessa avrebbe utilizzato come lavoratori forzati i prigionieri bosgnacchi. “Immaginate che in Germania venga assegnato un dottorato a un industriale che nella Thyssen, Krupp o Siemens avesse utilizzato schiavi polacchi o russi” ha dichiarato Pavičić .

L’ambiguo rapporto con le mire tudjmaniane su una porzione della Bosnia Erzegovina è inoltre stato ben rappresentato dall’atteggiamento empatico nei confronti di un criminale di guerra tenuto delle autorità croate in occasione della vicenda di Slobodan Praljak, ex generale dell’entità di Herceg Bosna, suicidatosi dopo la condanna del Tribunale dell’Aia per crimini contro civili bosgnacchi.

E nella condizione di estrema polarizzazione che caratterizza l’odierna Bosnia Erzegovina un’ennesima contesa è nata intorno al progetto di un ponte per unire la penisola croata di Pelješac alla terra ferma. Mentre Čović ha sottolineato il suo consenso, il membro bosgnacco della presidenza Bakir Izetbegović ha espresso la sua contrarietà alla costruzione di qualsiasi infrastruttura prima che siano determinate le frontiere marittime e l’accesso della Bosnia Erzegovina al mare aperto attraverso il piccolo sbocco costiero di Neum.

Croazia e Montenegro

I rapporti tra la Croazia e il Montenegro, che condividono una piccola linea di frontiera, pur essendo stati amichevoli sin dalla dichiarazione di indipendenza di Podgorica del 2006, sono complicati dallo stallo nei negoziati bilaterali per la definizione della frontiera marittima e dello status della penisola di Prevlaka, rimasta sotto il controllo dell’ONU fino al 2002. In mancanza di passi avanti, i due paesi potrebbero essere costretti a rivolgersi alla mediazione internazionale.

Croazia e Slovenia

Tuttavia, il conflitto internazionale più aspro divide in questo momento la Croazia e la Slovenia, l’unica repubblica confinante dell’ex Federazione jugoslava con la quale non esisteva un fardello negativo legato a memorie divisive del conflitto. L’arbitraggio sulla frontiera marittima nel golfo di Pirano, ad opera della Corte permanente di arbitrato dell’Aia, ha assegnato nel 2017 la maggior parte delle acque contese a Lubiana, nonché l’accesso alle acque internazionali. La sentenza è stata rigettata da Zagabria che accusa il vicino di non aver rispettato le norme, a causa di contatti illegittimi tra un membro della Corte e la controparte slovena.

I due paesi si erano impegnati a sottoporre la questione ad un arbitraggio esterno nel 2009 su pressioni europee, dopo che la Slovenia per quasi un anno aveva bloccato alcuni capitoli negoziali per l’accesso di Zagabria all’Unione. Di fronte al rifiuto croato di rispettare la sentenza sull’arbitraggio del golfo di Pirano, Lubiana ha quindi bloccato l’ingresso del vicino all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico.

Inoltre, nell’inverno del 2015, per rispondere a quella che i vertici sloveni consideravano una mancanza di cooperazione da parte di Zagabria durante la crisi migratoria, Lubiana ha deciso di installare una barriera di filo spinato per un tratto di frontiera tra i due paesi. Un confine giovane tra territori interdipendenti si è così trasformato nell’ennesima ferita all’interno dell’Unione, delimitando la zona Schengen alla quale la Croazia non è ancora riuscita ad accedere.

Lo scontro tra i due paesi sulla gestione dei flussi di profughi riflette le politiche europee di esternalizzazione. E proprio il mancato rispetto dell’accordo di Dublino è stato al centro di una sentenza della Corte di giustizia europea del 2017, che, su indicazione di Slovenia e Austria, ha condannato la Croazia per aver autorizzato il transito di profughi verso l’Unione europea durante i mesi di apertura della rotta balcanica.

A bloccare l’ingresso della Croazia nell’OCSE si è unita alla Slovenia anche l’Ungheria, che lamenta il mancato rispetto degli arbitrati internazionali sul caso INA-MOL che vede la maggiore compagnia croata controllata dal colosso ungherese. La tesi presentata dal governo Milanović contestava la cessione, operata dal precedente esecutivo di Ivo Sanader, come effetto delle pratiche corruttive messe in atto dallo stesso capo del governo.

Unione Europea ante litteram?

Sebbene non siano passate inosservate alcune comunanze ideologiche tra le autorità di Zagabria e il blocco di Visegrad, la Croazia non si è mai contrapposta frontalmente a Bruxelles. I sondaggi, tuttavia, confermano una drastica perdita di fiducia dell’opinione pubblica croata nell’Unione europea che avrebbe deluso le aspettative, mentre salgono i consensi del partito populista anti-europeo Živi Zid (Muro umano). Dall’altra parte, si è aperto, con la benedizione della presidente Grabar Kitarović, un asse di comunicazione tra l’amministrazione Trump e Zagabria, che è diventata un perno della nuova alleanza energetica Trimarium .

In un momento in cui l’Unione europea appare come una somma di egoismi, dilaniata da conflitti al suo interno, i paesi dell’area post jugoslava, con la Croazia in testa, tendono a riprodurre le stesse dinamiche, tra frammentazioni e litigiosità, vecchi e nuovi nazionalismi, sovranismi e ricerca di un nemico interno. Le opportunità di riconciliazione offerte da un presente o futuro ingresso nell’Unione sono per ora, in gran parte, rimaste sulla carta, mentre si è assistito alla creazione di nuove gerarchie in base all’anzianità di membership e allo scoppio di molte piccole crisi. Uno spazio comune può, a seconda dei casi, rafforzare i legami tra i suoi attori o trasformarsi in un catalizzatore di micro-conflitti. E qui la parabola della Federazione jugoslava, paragonata da diverse voci – più o meno provocatoriamente – ad un’Unione Europea ante litteram, avrebbe molto da insegnare.


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