"Come sfasciare un paese in sette mosse", di Ece Temelkuran, è un libro che racconta l'ascesa al potere di Recep Tayyip Erdoğan e l'attuale deriva della Turchia. Ma che racconta, al tempo stesso l'Europa dei populismi
Ora vive a Zagabria, perché ha dovuto abbandonare il suo paese, la Turchia. Parliamo di Ece Temelkuran, giornalista e scrittrice quarantaseienne, licenziata dal giornale “Habertṳrk” in cui lavorava per essersi occupata di argomenti poco graditi al governo, tra i quali il massacro di curdi al confine tra Turchia e Iraq. Comunque, altre testate non turche, da “The Guardian” a “Le Monde Diplomatique” dal “New York Times” al “New Statesman”, dal “Frankfurter Allgemeine” a “Der Spiegel” hanno riportato i suoi articoli e, più in generale, alcuni suoi libri sono stati tradotti all’estero. Anche in Italia.
Fresco di stampa è “Come sfasciare un paese in sette mosse” dal sottotitolo “La via che porta dal populismo alla dittatura”, edito da Bollati Boringhieri, che della Temelkuran aveva già pubblicato lo scorso anno “Turchia folle e malinconica”.
Sono entrambi libri che nascono dall’esperienza che la Turchia sta vivendo da quando Recep Tayyip Erdoğan ha vinto nel 2002 le elezioni col suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi- AKP), movimento di ispirazione islamica, che, quando vinse, appariva moderato, tant’è che in Italia lo assimilavano a una Democrazia Cristiana in versione islamica. Poi, negli anni, si è trasformato sempre più mostrando la sua fame di potere. Le vittorie elettorali successive hanno confermato l’AKP al governo, finché nel 2014, con la riforma che sanciva l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, fino allora eletto dal Parlamento, Erdoğan non ha assunto, appunto, la presidenza della Repubblica.
La stretta sul dissenso si è manifestata in tutta la sua forza dopo il colpo di stato del 15 luglio 2016, addebitato da Erdoğan a Fethullah Gülen, un suo ex alleato che ora vive esule negli Stati Uniti, e che gli ha consentito di mettere in galera un bel po’ di oppositori, militari, giornalisti, intellettuali.
Un’architettura costruita dal 2002 a oggi che Ece Temelkuran racconta nel suo libro, analizzando le sette mosse che sono state messe in pratica da Erdoğan, riassumibili in quelli che sono i capitoli che compongono il suo libro. E cioè: 1) Crea un movimento, 2) Disgrega la logica, spargi il terrore nella comunicazione, 3) Abolisci la vergogna: essere immorali è ‘figo’ nel mondo post-verità, 4) Smantella i meccanismi giudiziari e politici, 5) Progetta i tuoi cittadini e le tue cittadine ideali, 6) Lascia che ridano dell’orrore, 7) Costruisci il tuo paese.
Ciascun capitolo affronta poi le tematiche enunciate, allargando il discorso ad altri paesi in cui il populismo ha trionfato, inteso come tendenza a solleticare e sollecitare gli istinti più bassi presenti nel popolo all’insegna di un riscatto, anche se solo di sfacciato propagandismo, che restituirebbe al popolo quanto altri fino a quel momento gli hanno preso, se non depredato. Cioè i ricchi, le élites, i politici, l’intero establishment e così via e nella lotta a questi viene coinvolto in particolare chi li invidia, chi aspira ad assumere quelle stesse posizioni, nell’idea - non limitata ai diritti e doveri - che uno vale uno, per cui anche un incompetente, uno privo di specifiche esperienze umane, professionali, culturali, possa prendere il posto, qualsiasi posto, anche quelli di maggiore responsabilità per il paese.
Non è un caso che, nel parlare dell’Italia – così come degli Stati Uniti di Trump o dell’Ungheria di Orban o della Russia di Putin e così via – la Temelkuran inserisca il Movimento 5 stelle tra le prime cause della deriva populista, che ora, ormai, con la crescita anche di Salvini, stringe a tenaglia il nostro paese, sottolineando come l’illusione possa, talvolta, confondere anche le menti migliori.
“Noi cambieremo tutto in questo sistema corrotto” sono le espressioni che Ece Temelkuran riporta dagli anni in cui l’AKP di Erdoğan cresceva, quasi un’eco di quel grido “onestà, onestà” che avremmo anche noi sentito anni dopo. Oppure “Nuovi rappresentanti del popolo, non contaminati dalla politica”, oppure ancora “Una nuova Turchia con una nuova dignità”, “Siamo il popolo della Turchia. E quando dico popolo, intendo il popolo reale”. Parole espresse da militanti dell’AKP, con note fanatiche che sembravano espressione di minoranze ineleggibili, tant’è che nessuno in Turchia, in quel lontano 2002, immaginava potessero vincere le elezioni. Ma Ece Temelkuran, nel raccontare le sue corrispondenze dalle province del paese, capì il rischio che la Turchia stava correndo e nel suo articolo scrisse “Vinceranno”. E racconta: “Venivo presa in giro dai miei colleghi, ma nel novembre del 2002 il partito della stupida lampadina dei tre tizi al bar diventa il nuovo governo della Turchia. Da allora, quasi diciassette anni fa, il movimento che aveva raccolto potere nei piccoli centri domina ininterrottamente la Turchia”.
Quando poi la giornalista andrà in Europa, per presentare i suoi libri, ad esempio a Varsavia, con la Polonia anch’essa nella morsa del populismo, si confronterà con gli stessi problemi, o, meglio, con lo stesso lessico, “perché in svariate nazioni il risentimento provinciale mobilitato politicamente ha annunciato il suo grandioso ingresso nella scena globale usando essenzialmente le stesse affermazioni”. Gli diranno infatti i lettori venuti ad ascoltarla: “Abbiamo la stessa cosa qui. Esattamente la stessa cosa! Ma chi sono, cos’è questo ‘popolo reale’?”. E viene fuori che è “un movimento di persone reali che sta oltre e al di sopra di tutte le fazioni politiche”. Una propaganda – in Italia peraltro sorretta da una società privata che opera nel campo delle nuove tecnologie, dell’intelligenza artificiale, delle telecomunicazioni come la Casaleggio associati che, come scrivono Nicola Biondo e Marco Canestrari nel loro informatissimo libro “Il sistema Casaleggio”, edito da Ponte alle Grazie, ha nel Movimento 5 stelle il suo asset politico e nei parlamentari i propri avatar – finisce inevitabilmente per influenzare il pensiero, fino a far scomparire, come nei peggiori regimi del Novecento, l’individuo, rifugiandosi in un noi, per far parte di quei “pochi fortunati che sopravvivono sotto la guida di un uomo forte”. Scrive, infatti, appropriatamente Ece Temelkuran: “Quello che stiamo sentendo, nel suo diffondersi dalle province alle grandi aree urbane, è il grido di sopravvivenza di coloro la cui paura di annegare nel mare nascente della disintegrazione prevale sul loro interesse nella sopravvivenza altrui. E quindi, senza alcuna pietà, si muovono.”
E naturalmente c’è chi se ne approfitta, alimentando questa paura, promettendo loro una salvezza che, almeno questo, da Hitler a Stalin a Mussolini, la Storia lo ha insegnato, ha sempre e soltanto portato alla distruzione.
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