Can Dündar © Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons

Can Dündar © Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons

Giornalista e direttore del quotidiano turco Cumhuriyet, Can Dündar, è stato condannato a 5 anni di reclusione per rivelazione di segreto di stato. Lo abbiamo incontrato

01/07/2016 -  Dimitri Bettoni Istanbul

Se gli spazi che abitiamo raccontano molto di noi, ciò deve essere vero anche per l'ufficio di Can Dündar, giornalista e direttore del quotidiano turco Cuhmuriyet (Repubblica): l'enorme pila di corrispondenza ancora da aprire, la miriade di appunti scritti a mano e sparsi su ogni centimetro di spazio disponibile, il ripiano colmo di premi letterari e giornalistici. “Ne ritirerò uno anche in Italia, il prossimo luglio”, dice in riferimento al premio Giornalistico Ischia 2016.

Dietro la sua scrivania campeggia un poster, già presente all'ingresso della palazzina, con decine di foto di membri della redazione giornalistica. Dopo che si è alzato il polverone, tutti i colleghi del giornale hanno firmato un messaggio di solidarietà, in cui si dichiarano tutti responsabili di quanto pubblicato.

Dündar e il suo collega Erdem Gül sono saliti alla ribalta internazionale dopo aver pubblicato un articolo in cui rivelavano il traffico di armi gestito dai servizi segreti turchi tra Turchia e Siria. Per questo i due sono stati perseguiti penalmente, anche a seguito di un intervento diretto del Presidente della Repubblica turca Recep Tayyip Erdoğan, che ha personalmente presentato un esposto alla magistratura: “Ho ringraziato più volte il Presidente per aver permesso al mio caso di acquisire una risonanza internazionale così importante”.

Le accuse

Le accuse a carico di Dündar e Gül erano pesantissime: propaganda in favore del terrorismo, spionaggio militare e politico, sovversione, divulgazione di segreto di stato e fabbricazione di notizie false, abbastanza per ottenere più di un ergastolo. Incarcerati preventivamente lo scorso novembre in vista del processo, ai due giornalisti è stata restituita la libertà a febbraio, quando una sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato che l'arresto violava i loro diritti di libertà d'espressione e la loro sicurezza personale. Il primo grado del processo, conclusosi il 6 maggio, vede Dündar e Gül condannati rispettivamente a 5 anni e 10 mesi e 5 anni di reclusione per rivelazione di segreto di stato, mentre sono decadute tutte le altre accuse. Al momento i condannati sono però in libertà, in attesa del processo di appello.

“La vita in carcere è stata dura, non solo come uomo ma anche come giornalista. Sottoposto ad un isolamento a cui non ero abituato, ne ho approfittato per scrivere il mio libro sulla vicenda” (dal titolo “Tutuklandık”, ci hanno arrestati). Dündar non è affatto pentito di aver scritto quel pezzo: secondo lui, quella era una storia che andava pubblicata perché dimostra il profondo coinvolgimento della Turchia nella guerra siriana e prova il passaggio di armi attraverso il confine che, ci tiene a sottolineare, “costituisce un crimine a livello internazionale. Portare la questione all'attenzione del pubblico, rivelare al mondo il sostegno della Turchia al jihadismo militante in Siria era fondamentale per provare a rallentare il progressivo coinvolgimento della Turchia nel conflitto in cui rischiava e rischia tutt'ora di essere trascinata”.

Dopo la scarcerazione, la vita è di certo migliorata ma non sono finiti i problemi. “Ormai tutti i giorni ho colloqui con i pubblici ministeri, ricevo richieste per comparire in tribunali, dove passo quasi più tempo che non in redazione. Non sono l'unico ovviamente, anche oggi ad esempio verranno arrestati altri tre colleghi”, dice in riferimento al giornalista del portale Bianet e rappresentante nel paese di Reporters Without Borders Erol Önderoğlu, a Şebnem Korur Fincancı [arrestati lo scorso 20 giugno N.d.R.], attivista per i diritti umani e presidente della Human Rights Foundation in Turchia e ad Ahmet Nesin, scrittore e giornalista indipendente.

Il giorno prima della sentenza di primo grado, Dündar è stato anche vittima di un'aggressione fuori dall'aula del tribunale, quando un uomo gli ha esploso contro alcuni colpi di pistola prima di essere immobilizzato. Un atto intimidatorio più che un vero e proprio tentativo di assassinio, come sottolineato dallo stesso giornalista, rimasto illeso e che oggi vive sotto scorta, una situazione a cui non può abituarsi: “Immagina di fare il tuo lavoro di giornalista, spostarti per incontri e interviste con sei uomini sempre attorno a te, come fossi un politico. Non è certo la migliore situazione per lavorare serenamente. Spesso mi chiedo quanto questi uomini siano qui per proteggermi e quanto, invece, per sorvegliarmi”.

Sostegno internazionale

Dündar è convinto che il sostegno internazionale che ha ricevuto sia stato determinante per la sua liberazione. “Senza una mobilitazione internazionale capace di esercitare pressione sulle istituzioni turche sarei ancora in carcere. Questa mobilitazione e questa pressione non devono cessare: ci sono ancora 35 giornalisti in carcere che hanno bisogno di tutto il nostro sostegno. Bisogna scrivere, dare visibilità a loro e alle storie che raccontano”.

Il direttore considera fondamentale che giornalisti, avvocati e attivisti civili siano testimoni nelle aule di tribunale in cui si processano i giornalisti, così come è importante costruire una dimensione transnazionale del giornalismo. “Oggi voi siete qui con me a parlare di Turchia, domani io potrei essere in Azerbaijan per documentare i casi di corruzione del presidente di quel paese”. Questo aiuta a superare i tentativi di bavaglio che le autorità cercano di imporre ai mezzi d'informazione, perché è più facile perseguitare un proprio cittadino che uno straniero. “Credo che la Turchia stia attraversando il suo periodo più buio, per il giornalismo. Non è mai stato un paese facile per chi svolge questa professione, ma credo che oggi si sia toccato il punto più basso e si stia sperimentando una repressione senza precedenti”.

La figura di Dündar ha ovviamente polarizzato l'opinione pubblica. Accanto alle molte di manifestazioni di sostegno, il giornalista ha anche sperimentato attacchi alla sua persona e alla sua integrità professionale, più volte definito traditore e terrorista, un termine che ricorre ossessivamente nella comunicazione pubblica in Turchia e non solo. Un termine con cui soprattutto ogni giornalista deve misurarsi, nell'esercizio della sua professione: “In Turchia siamo almeno 20 milioni di terroristi, siamo il paese con la più alta percentuale di terroristi in Europa. Questo perché Erdoğan usa la scusa del terrorismo per attaccare ogni opposizione. Sono stato chiamato terrorista e sono stato chiamato spia, ma ho imparato anche a non dare peso a queste etichette. Terrorismo è una parola che nasce da una prospettiva soggettiva e di cui si avverte l'esigenza di una definizione più specifica. Soprattutto, in Turchia c'è una legge antiterrorismo che deve essere cambiata, perché il governo la sta sfruttando per i suoi scopi politici”.

L'autoritarismo di Erdoğan

A proposito del progetto politico di Erdoğan, la riforma in senso presidenziale della Repubblica parlamentare turca e il suo sogno di una Nuova Turchia, Dündar non usa mezza parole: “Se glielo consentiamo, Erdoğan ha il potere necessario a spingere il paese verso una definitiva svolta fascista. Le oltre 2000 denunce per insulto al presidente rivelano la dimensione del suo ego e l'intoccabilità della sua figura è centrale nel suo progetto politico. Si tratta di una strumentalizzazione che serve da un lato a proteggerlo dalle critiche e dall'altro a punire l'opposizione. È nostro dovere resistere a questa deriva autoritaria”.

Secondo Dündar, Erdoğan ha dato ampiamente prova della sua indole autoritaria anche sulla scena internazionale, specialmente nelle relazioni con l'Europa, che “purtroppo si è dimostrata pronta non solo a tollerare, ma anche ad accettare questo scenario politico in Turchia pur di trovare un accordo sulla questione dei rifugiati, chiudendo un occhio su quanto sta accadendo in questo paese”. Un atteggiamento che “rappresenta una vera tragedia per i sostenitori della democrazia in Turchia”.

Il giornalista è certo che l'adesione all'Unione europea continui ad essere il sogno di ogni cittadino democratico di Turchia ed è perciò importante che l'Europa non rinunci ad offrire questa opportunità ed insista sui negoziati, in particolare quelli che riguardano le libertà civili. Ma deve anche capire che “Erdoğan non è pronto ad accettare vincoli in tal senso”.

“Siamo tutti responsabili” dice quindi Dündar, che vede nella divisione delle opposizioni il principale ostacolo alla creazione di una forza politica in grado di opporsi efficacemente al governo in carica: “Abbiamo bisogno di un fronte democratico comune, che includa tutti coloro che hanno a cuore le sorti democratiche del paese: curdi, aleviti, movimento LGBT, sindacati, accademici, università, stampa, tutti insieme determinati ad opporci a questo progetto fascista. Se non sarà così, lui ci farà fuori tutti, uno per uno”.

“Nessuno di noi si era aspettato dimostrazioni di massa di tale portata, tre anni fa” racconta in riferimento alle manifestazioni che nell'estate del 2013 hanno portato in strada milioni di persone in tutto il paese. “Spiazzando tutti, la gente era scesa in piazza e questo accade quando la vessazione nei confronti della società diventa insostenibile; allora non puoi mai sapere cosa può accadere. Se mi aspetto un'altra Gezi? Sì, io ci spero davvero”.

Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto


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