Parco nazionale di Sutjeska - Wikimedia

Parco nazionale di Sutjeska - Wikimedia

Un percorso a piedi, tra le montagne della Bosnia, fatto in occasione del compleanno di Tito. Tra cime innevate, i misteriosi stećci e l'accoglienza semplice e genuina dei pastori

30/11/2016 -  Azra Nuhefendić

Quelle “gojzerice” (parola tedesca che utilizziamo in Bosnia per scarponi) avevano più di vent’anni quando divennero di mia proprietà. Prima le adoperavano le mie sorelle, ed erano ancora perfette. Avrebbero potuto durare ancora, ma nel corso dell’ultima guerra se le sono mangiate i topi, disperati per la fame, come del resto i sarajevesi sotto l’assedio.

Gli scarponi erano l’unico pezzo dell’attrezzatura da montagna di mia proprietà, tutto il resto l’avevo preso in prestito da amici e  vicini. Frequentavo il terzo anno del liceo classico e, insieme a una trentina di ragazzi e ragazze, mi accingevo a partire per Tjentište, a sud-ovest della Bosnia Erzegovina, verso il confine con il Montenegro.

Tjentište fa parte del parco nazionale di Sutjeska e oggi si trova in Republika Srpska, una delle due entità che compongono la Bosnia Erzegovina. È il luogo di una delle leggendarie battaglie della Seconda guerra mondiale. A Tjentište è situato un ossario dedicato ai combattenti partigiani della Repubblica Federale di Jugoslavia caduti nel 1943 nella battaglia di Sutjeska.

La distanza tra Sarajevo a Tjentište è di circa cento chilometri, seguendo la strada, ma se si va su e giù per i monti e i boschi è molto più lunga. Il viaggio, di cinque giorni, era stato organizzato in occasione del compleanno del presidente Tito, il 25 maggio, data in cui da noi si celebrava la Giornata della gioventù. A Tjentište si davano appuntamento i giovani da tutte le parti del paese.

20 maggio 1970

Il giorno della partenza, il 20 maggio 1970, era una giornata fredda, cupa, con un sottile nevischio. Anche per Sarajevo, abituata ai lunghi inverni, la neve a fine di maggio era un’eccezione. I fiocchi di neve umidi e pesanti cadevano sugli alberi appena fioriti. Proprio come diceva l’antica canzone bosniaca: “Snijeg pade na behar na voće”.

Con l’autobus percorriamo una trentina di chilometri a sud-ovest di Sarajevo, fino al villaggio di Turovi che sta ai piedi della montagna. Da là, a destra, una strada s’inerpica verso il monte Bjelašnica. Il suo nome vuol dire bianco, infatti, è sempre coperto di neve. Salendo dritti per il sentiero, come abbiamo fatto noi, si arriva a Treskavica, una delle montagne più belle della Bosnia. Luminosa, con fitti boschi e bellissimi prati, cinque laghi e laghetti glaciali che si trovano sopra i 1500 metri di altitudine. Secondo alcune stime a Treskavica ci sono almeno 365 sorgenti d’acqua e uno, volendo, potrebbe bere l’acqua ogni giorno da una fonte diversa.

La nostra guida, il professore di ginnastica Jazić, ci fa mettere in fila per uno: lui a capo, seguito dai più deboli, per imporre il ritmo di marcia e infine gli altri. Il sentiero è largo, sembra una galleria. L’effetto è dato dai rami degli alberi che su ambedue i lati accompagnano il percorso. Sotto il peso della neve inaspettata, le deboli frasche con le foglie delicate si sono curvate, basta alzare la mano per toccarle. Se lo fai per gioco, come avevo fatto io, in un attimo ti ritrovi sotto una doccia di neve.

La salita sembra facile. Alcuni ragazzi più forti e impazienti superano gli altri e, con il consenso del professore, vanno avanti velocemente. Poco dopo, dietro una curva, li troviamo seduti per terra senza fiato.

“Be’, la prima lezione l’avete imparata”, dice il professore, senza rimprovero. Poi chiama uno studente: “Seki, figliolo, vieni qua”. Il ragazzo si avvicina, si gira e il professore dalla tasca del suo zaino prende una bottiglia e tira un sorso di grappa. Questo “richiamo”, lo impareremo presto, si ripeteva ogni qualvolta il professore si sentiva incerto, contento o preoccupato.

Quello che all’inizio pareva una tranquilla scalata, si rivela un’arrampicata faticosa della durata di oltre quattro ore. La salita, di per sé faticosa, lo è ancor di più con gli zaini che pesano dieci o venti chili sulle nostre spalle. Ci trasciniamo piano e con tanta fatica, fermandoci spesso per riprendere fiato.

Salendo la neve è sempre più alta, ma è quella “vecchia” rimasta dai mesi dell’inverno e mai sciolta. All’altezza di oltre 1500 metri, usciamo dalla foresta e ci appare davanti una vallata. Il posto si chiama Kozija Luka, a destra c’è il rifugio “Josip Sigmun”.

Vista Adriatico

Togliamo gli scarponi nell’atrio, come è uso, e saltando l’uno sopra l’altro, entriamo nel soggiorno. La sala è piena di tavoloni e di panchine, e nel mezzo c’è una stufa di maiolica. Un caldo avvolgente e il profumo di minestra di fagioli: era giusto quello che ci voleva. Dopo cinque ore di salita, di freddo e fatica, l’ampio spazio di questa casa di montagna mi sembra una reggia. Ho la piacevole sensazione di sentirmi a casa.

Si dorme in un unico stanzone sotto il tetto, per terra, uno accanto all’altro, disposti in ordine come grosse pagnotte di pane. Di mattina ci svegliano presto, ci laviamo in fretta nei bagni non riscaldati, l’acqua è gelida e batto i denti dal freddo.

Continuiamo a salire verso il lago Nero (Crno jezero), a 1675 metri, chiamato così per il colore dato dalle alghe che coprono il suo fondo. Il lago non si vede, è coperto di ghiaccio e di neve. Giriamo alla sua destra e proseguiamo verso una delle cime.

Treskavica è tra le più alte montagne bosniache, dalla sua cima di 2088 metri, quando il tempo è bello, si vede il mare Adriatico. Non stamattina, la foschia abbuia, sembra già sera. La salita è ripida, camminiamo sulla crosta ghiacciata che si è creata sulla superficie di neve. Ogni tanto la crosta cede, qualcuno sprofonda nella neve che arriva sopra il ginocchio, si tira su a fatica, i più deboli si fanno aiutare dagli altri. Procediamo zitti, nessuno fa commenti, nessuno scherza.

Dopo aver varcato la sella, ci troviamo davanti a una voragine: sotto la neve e la superficie ghiacciata. La passiamo di traverso. Butto l’occhio, il fondo mi pare tanto lontano, se scivoli non ti fermi per varie decine metri. Mi spavento, traballo. Il professore ci dice di guardare avanti. È più faticoso e pericoloso di quello che immaginavo.

Piano, passo dopo passo, alcuni a gattoni, passiamo il punto critico. Una volta superato, ci torna la forza, ci sentiamo come se avessimo vinto qualcosa, liberati dalla paura parliamo all’unisono, qualcuno fa battute su come eravamo spaventati un attimo prima. Il professore chiama “Seki, figliolo, vieni qua”, e noi ci scambiamo occhiate, qualcuno ride, sappiamo già che il professore vuole un goccio di grappa.

Il paese delle meraviglie

Scendiamo e proseguiamo per il fondo della valle. Gli alberi sono rari, alti, snelli, e qui ancora nudi di foglie. I tronchi neri sul fondo di neve bianca sembrano spettri che camminano parallelamente a noi. Il vento muove le cime degli alberi e in basso si sente solo un minaccioso UUUUU. Saliamo di nuovo e dopo aver superato una collina entriamo in una fitta foresta di alti pini. Sotto i rami verdi, coperti dalla neve, fa meno freddo, ci sentiamo protetti.

La Bosnia è il paese delle meraviglie, delle montagne imprevedibili, del tempo capriccioso.

Usciamo dalla foresta e, come se qualcuno ci avesse fatto oltrepassare un muro, ci troviamo in un paesaggio tutto diverso. Davanti a noi si stende un campo verde, circondato da colline spoglie, qua e là tra l’erba, gettate senza ordine, delle pietre bianche. I raggi del sole cadono, da destra, ad angolo acuto e illuminano forte un lato delle pietre creando lunghe ombre per terra.

Forse per la stanchezza, o per la paura che abbiamo superato, o per l’effetto della sorpresa, questa bellezza ci colpisce forte. Ci fermiamo, zitti e meravigliati a guardare la piana di Gvozno Polje.

Poi, qualcuno grida di gioia, qualcuno butta il cappello in aria, molti si tolgono gli zaini e corrono a toccare le pietre, a vederle da vicino.

Il professore chiama: “Seki, figliolo, vieni qua”.

Le pietre bianche sono gli stećci, pietre tombali fatte dai bogomili, il popolo slavo che viveva qui e apparteneva alla medievale Chiesa cristiana bosniaca. Gli stećci, spesso, pesano più tonnellate e non si sa come siano state portate là, nel mezzo di una radura, o sulle cime delle montagne. Vi sono scolpiti semplici disegni e iscrizioni in “bosančica”, l’alfabeto medievale bosniaco. Si trovano in tutta la Bosnia e sono circa duecentomila.

Il professore ci chiama a raccolta, ci conta per assicurarsi che nessuno si sia perso, quindi proseguiamo per la piana, in direzione sud-ovest.

Tra i pastori

La seconda notte dormiamo in un “katun”, dimora estiva di pastori sul bordo di Gvozno Polje. I due pastori che ci ospitano sono felici di avere compagnia. Il gregge di pecore sta nell’ovile adiacente a un muro della baita. Da là si sente un dolce beeee e il campanaccio appeso al collo del montone. Due cani, in allerta, ci guardano, poi ci annusano uno ad uno. Pare che gli piacciamo, si lasciano accarezzare, corrono contenti davanti alla porta e scodinzolano.

La modesta dimora consiste in un unico spazio, senza finestre, nel mezzo c’è un focolare con sopra un triangolo di ferro e una catena da dove pende un pentolone di rame. Intorno ai muri, per terra, c’è la paglia stesa con sopra le pesanti coperte fatte di lana grezza, di colore naturale beige e marrone. A destra dell’entrata sono appoggiati dei sacchi con la farina, i mestoli e i barili di legno che servono per fare il formaggio.

I pastori sono gente di poche parole. Quello che non riescono a esprimere parlando, lo fanno capire con i gesti e con quello che offrono. Aggiungono legna sul fuoco, versano l’acqua nel pentolone. Ci preparano la cena.

Il fumo sale dritto in alto, si ferma per un attimo sospeso sotto il tetto, poi si dilaga ed esce fuori attraverso le crepe. In alto appesi su una corda, pendono pezzi di carne affumicata e salsicce. Per cena mangiamo polenta, formaggio di pecora, bianco e grasso, carne affumicata e salsicce. Da bere ci offrono latte fresco bollito e, per chi vuole, “mlaćenica” (latticello), una bevanda acida derivata dalla lavorazione del burro. Seduti per terra, attorno al fuoco, mangiamo in silenzio, contenti. Le fiamme illuminano i nostri visi rossi per via del calore, negli occhi di ciascuno brillano mille scintille. Sulle pareti le ombre ballano, se ci si concentra potrebbe sembrare di essere in un teatro.

Il professore chiama “Seki, figliolo”, e quello gli porta la bottiglia con la grappa. Il primo sorso lo offre a uno dei pastori, questo esita, poi prende la bottiglia e tira un sorso lungo, sorride per la prima volta, poi la passa all’altro, e questo dopo aver bevuto, porge la bottiglia al ragazzo seduto accanto, ma il professore è più veloce e gliela prende.

Fa caldo dentro, siamo sazi, riposati, contenti, si chiacchiera. Chiediamo cosa siano le pietre che abbiamo visto nel campo. “Ah, sono i mramori i cimiteri greci”, risponde uno dei pastori. È così che la gente comune, ignorante dell’origine dei monolitici medievali, chiama quelle pietre tombali.

Poi il pastore, incoraggiato dalla nostra curiosità, ci racconta che non lontano da lì ci sono “intere nozze pietrificate”. Riusciamo a capire che si tratta di un gruppo di stećci ai quali è legata una leggenda. Si narra che una bella ragazza fosse stata promessa in sposa a un giovane. La madre dello sposo però era contraria a questo matrimonio e, con la sua maledizione, pietrificò la ragazza e i partecipanti alle nozze.

All'addiaccio

La mattina, non ci lasciano andare senza aver fatto prima colazione. Preparano la “pogača”, un pane semplice, sottile, che cucinano “ispod sača”. Il pane viene coperto con un coperchio metallico di forma concava, sul quale vengono poste le braci. Mangiamo il pane, ancora caldo, con il kajmak, la crema che si fa raccogliendo la panna che si forma sul latte bollito.

Dopo Gvozno Polje, il tragitto è di nuovo tutto un saliscendi. Riprendiamo a marciare sulla neve, sempre in direzione sud–orientale. Nel tardo pomeriggio il professore ci indica, da una cima, un’altra vetta. È là che dobbiamo arrivare entro sera per dormire a Donje Bare, vicino a una villa del presidente Tito.

In montagna non ci sono lunghi tramonti, la notte cade giù all’improvviso, spesso senza darti il tempo di accorgertene. È sera, ma il buio non è totale, grazie alla luna che diffonde la sua lattea luce e illumina il paesaggio. Scaliamo l’altra collina di traverso. Sono sfinita, cammino a fatica, lo zaino mi pesa, ogni due-tre passi cado. Un ragazzo capisce che sono in difficoltà e mi prende lo zaino. Se lo carica davanti, il suo lo porta dietro sulle spalle. Mi vergogno tantissimo della mia debolezza, ma non ho neanche la forza di parlare, ho la bocca asciutta, mi manca la saliva, faccio fatica a deglutire.

In cima all’altura, giriamo, passiamo per il bosco, e poi ci ritroviamo nello stesso posto. “Ci siamo persi”, ammette il professore, “non fa niente, dormiremo qui all’aperto”. Ci dice di appoggiare gli zaini per terra e di disporli in cerchio, così da formare una sorta di muro protettivo.

L’ultimo ricordo, prima di precipitare nell’inconscio, o in un sogno immediato e profondo, è che qualcuno mi teneva per mano e mi sistemava per terra. Dopo non so quanto tempo, apro gli occhi, qualcuno cerca di farmi bere del tè caldo. È ancora notte. Siamo accampati sulla cima dell’altura, sulla neve, intorno al fuoco. Bevuto il tè, mi addormento di nuovo.

Casa di caccia

La mattina scopriamo che eravamo a soli dieci minuti di cammino dal posto dove dovevamo dormire. La casa di caccia di Tito a Donje Bare è una modesta baracca in legno, con la terrazza che dà sul laghetto. Il custode, un paesano, ci permette di stare sulla terrazza, anche se sarebbe proibito. Il tempo è bello, fa caldo, ci spogliamo e restiamo in maniche corte a prendere il sole, seduti.

Il custode ci dice che Tito non è mai venuto qui. È una delle decine di case o ville che i politici locali costruivano per il presidente sperando che lui venisse per la caccia o il riposo. Aspettavano di incontrarlo di persona per poter promuovere se stessi, il proprio paese, la città o la regione.

L’ultima tappa del nostro itinerario tocca il monte Zelengora, il cui nome vuol dire montagna verde. È un altopiano dolce e mite, bellissimo, ampio con grandiose cime. Ricchi boschi si susseguono con le falde, vasti prati e pascoli. Qui l’albero di munika (pino loricato), un pino alto con la cima ampia, è endemico. E sotto questi alberi, sui prati erbosi e morbidi, spuntano i bucaneve.

Siamo vicino alla nostra meta, il nostro passo è leggero, ci sentiamo giovani, felici e contenti. La stanchezza chi la sente, chi se la ricorda più!

Ce l’abbiamo fatta, penso, e mi viene da urlare. Cantiamo le canzoni rivoluzionarie, sulla gloria dei partigiani, sulla nostra patria e l’immancabile “Druže Tito mi ti se kunemo” (Compagno Tito noi ti giuriamo), una canzone sui giovani che giurano di non cambiare mai la strada indicata dal nostro amato presidente.


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