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Amer è uno dei 46 bambini dell'orfanotrofio di Bjelave portati via dall'assedio di Sarajevo nel luglio 1992 per essere accolti a Milano. Alla fine della guerra invece che rientrare in patria, nonostante i genitori in vita, viene dato in adozione. Dopo 26 anni, la sua ricerca della madre biologica si è finalmente conclusa

30/10/2018 -  Nicole Corritore

Dopo mesi di indagini, studio di documenti e intreccio di fonti di diverso tipo, ho cominciato a pubblicare una serie di articoli sulla storia dei 46 bambini dell'orfanotrofio di Bjelave che da Sarajevo, il 18 luglio del 1992, con un convoglio umanitario, vennero portati in salvo in Italia. Bambini che non erano tutti orfani e che nonostante questo non sono rientrati in Bosnia a fine guerra ma dati in adozione a famiglie italiane.

La procedura di adottabilità decisa dalle autorità italiane, come raccontato in maniera dettagliata nell'intervista in due puntate a Jagoda Savić, attivista di Sarajevo per i diritti umani che si occupa della vicenda dal 2000, è seguita a un intreccio di errori, rigidità burocratiche e carenza di comunicazioni tra le parti, quella italiana e quella bosniaca, quest'ultima già di suo in situazione di caos istituzionale post-conflitto.

È certo che il sostegno offerto nel 1992 – con il trasferimento dei bambini all'estero - sia stato dettato da profondo spirito umanitario, diversamente da chi in questi anni ha paventato un traffico di minori venduti a famiglie italiane. Rimane però un dato, che emerge ormai senza alcun dubbio: è stato provocato un distacco violento tra questi bambini e le famiglie d'origine, e alcuni genitori biologici hanno vissuto per anni, fin dal 1996, a fine guerra, con il peso della disperata ricerca dei propri figli.

Distacco

Un distacco violento, sebbene diverso, che è stato vissuto anche da alcuni dei bambini dell'orfanotrofio che partirono con un secondo convoglio, il 1° agosto 1992, in direzione Germania . Dei 42 bambini partiti ne tornarono a Sarajevo, a guerra finita, solo 31. Nel viaggio di andata i due più piccoli, Vedrana e Roki, vennero uccisi mentre l'autobus percorreva il "viale dei cecchini". Mentre altri 9, al check point delle forze serbo-bosniache di Ilidža, vennero tirati giù dal convoglio perché portavano "nomi serbi" e di molti di loro non si sa ancora oggi cosa ne sia stato.

La storia di questo convoglio racconta quanto a Sarajevo, fin dai primi giorni della guerra iniziata il 6 aprile del 1992, fosse alta e continua la probabilità di morire. I bambini arrivati a Milano sono stati dunque salvati dall'inferno, sebbene una volta adottati abbiano portato con sé il peso del vuoto rispetto al proprio passato, alle proprie origini, alla mancata informazione sui motivi dell'abbandono da parte delle famiglie biologiche.

Tutto ciò ha segnato anche chi tra gli adottati ha poi trovato una famiglia italiana che li ha cresciuti con il dovuto amore. È emerso chiaramente dalle parole scambiate con alcuni di loro, allora bambini e oggi trentenni, in questi mesi di indagine.

Per capirlo, basta leggere Jagoda Savić quando racconta dell'incontro avvenuto tra Sedina e il padre Uzeir nel 2008, a 16 anni dall'allontanamento e dopo 12 anni di silenzio imposto: "La prima cosa che Sedina ha detto è che le avevamo tolto un grandissimo peso dal cuore perché si è sentita sempre abbandonata dal padre".

L'impegno di Jagoda Savić e di una rete di persone e legali ha permesso negli anni ad alcuni di questi non più bambini di tornare in contatto con le famiglie d'origine e ricucire almeno parte dello strappo subito. Tra loro vi sono anche i due fratelli Amer e Alen Ljuša, che grazie a OBCT sono riusciti a entrare in contatto e conoscere due cugini bosniaci che, a loro volta, cercavano notizie da anni.

Ritrovamenti

Ma questa storia non è finita. Amer, al quale con l'adozione è stato cambiato il nome in Luca, avute le informazioni sulla morte del padre nel 1993 sul fronte di guerra mi aveva chiesto di proseguire e cercare notizie della madre, di cui si erano perse totalmente le tracce.

Dopo più di un anno, di recente abbiamo potuto dargli notizia che la madre Hirija è viva e li ha cercati per 26 anni. Tutto questo è stato possibile grazie all'uscita dei nostri articoli e al servizio Rai di Andrea Oskari Rossini sulla storia di Amer e Alen che abbiamo realizzato insieme a Sarajevo. Media bosniaci con cui siamo in contatto e che ci seguono hanno cominciato a riprendere la notizia e una donna di Sarajevo l'ha letta.

Questa donna è Amerisa Ahmetović, del segretariato della "Uduženja civilnih žrtava rata Sarajevo" (Associazione vittime civili di guerra di Sarajevo) e caso vuole che sette anni fa abbia conosciuto un'altra donna, vicina di casa dei suoi nonni. Con questa vicina di nome Hirija aveva cominciato a chiacchierare, nel giardinetto antistante casa. Tra un caffè e l'altro le due donne si raccontavano le proprie vite. In una delle prime chiacchierate Amerisa aveva notato un tatuaggio sul braccio di Hirija, che riportava i nomi "Alen Amer". Le aveva chiesto chi fossero e Hirija, in lacrime, le aveva risposto che erano i figli che le avevano portato via nel 1992 e di cui non era riuscita più a sapere nulla.

Ecco che Amerisa lo scorso 18 settembre legge la notizia sul quotidiano bosniaco Avaz , accorre da Hirija per dirle che i suoi figli sono vivi e che li hanno trovati. Insieme si recano presso l'associazione di Jagoda Savić che incontrano il giorno stesso. Jagoda le fa vedere il servizio Rai online, dove finalmente Hirija vede suo figlio Amer/Luca che parla via Skype da Milano con il cugino Kenan di Sarajevo dicendogli: "Di mia mamma non so niente, è tutta la vita che voglio sapere chi mi ha creato. Questo è il desiderio più grande che ho...".

Con Hirija ci siamo sentite più volte. Ho poi cominciato a fare da ponte tra lei e suo figlio Amer/Luca, ormai impossibilitati a comunicare direttamente a causa della lingua madre che lui, arrivato in Italia a 4 anni di età, ha perso totalmente. Ma soprattutto ho raccolto il suo racconto, dal quale traspare il dolore insopportabile che ha provato.

Difficoltà

Prima della guerra Hirija e il marito si erano divisi e lei, non avendo buoni rapporti con la famiglia di lui, rimase di fatto sola con i due figli a vivere in condizioni disagiate e senza una fonte di reddito sicura. Il 6 aprile 1992 iniziò l'assedio di Sarajevo e nell'arco di poche settimane Hirija si trovò obbligata ad abbandonare il suo quartiere e ad andare a vivere nel centro di accoglienza per sfollati di Vranica, sempre a Sarajevo. Nel centro si offrì di dare una mano a preparare i pasti per gli sfollati e un giorno, mentre era fuori dallo stabile per recuperare cibo e acqua per cucinare, venne colpita gravemente alla testa e alle gambe da una granata.

Venne portata in ospedale dove restò ricoverata per diverse settimane. Quando uscì non trovò più i figli al centro sfollati di Vranica e iniziò, nonostante la difficoltà a muoversi per la città bombardata e sotto il tiro dei cecchini, a cercare informazioni. Solo dopo settimane scoprì che erano stati portati all'orfanotrofio Bjelave e da qui, il 18 luglio, che erano partiti per l'Italia con un convoglio umanitario.

Nonostante il distacco, saperli al sicuro la rincuorò. Ma dal 1996 alla fine della guerra, quando non riuscì ad avere più alcuna altra informazione e scoprì, attraverso le storie di altri genitori, che quei bambini erano stati dati in adozione, cadde in una forte depressione.

Per Hirija iniziarono anni duri, in cui venne ricoverata alcune volte per essere sostenuta psicologicamente. Riuscì a ristabilirsi e ottenuto dal comune di Sarajevo un appartamento in cui vivere, come altri cittadini di Sarajevo nel post-conflitto, sopravvisse senza alcun sostegno sociale lavorando nella cura di persone anziane e nella pulizia di appartamenti.

Ora, grazie ai legami e ponti ormai ventennali esistenti tra Italia e Bosnia Erzegovina tra associazioni, attivisti e organi dell'informazione, Amer e Hirija si sono ritrovati e il dolore provato da entrambi potrà finalmente essere sostituito dalla gioia.

Per approfondire

Leggi gli articoli dedicati da OBCT a questa inchiesta, nel Dossier "I bambini di Bjelave "


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