Trieste - Pxhere.com

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"Il suo nome quel giorno", di Pietro Spirito, narra la vicenda di una madre e una figlia che si ritrovano dopo quarant'anni di separazione. Sullo sfondo i campi profughi e la vicenda dell'esodo della comunità italiana dalla Jugoslavia titina

12/04/2018 -  Diego Zandel

La dura realtà dei campi profughi, predisposti dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli inizi degli anni Sessanta per i profughi istriani, fiumani e dalmati, è ben raccontata nella loro disperazione da Pietro Spirito nel romanzo “Il suo nome quel giorno”, edito da Marsilio. Lo fa, a mio avviso, in forme di degrado un po’ eccessive, tra furtarelli e prostituzione, che personalmente, per essere nato e cresciuto in uno di questi campi, non ho mai conosciuto.

È vero, però, che i campi profughi del primo dopoguerra che mi hanno visto abitante raccoglievano massimamente i fuggitivi che - rinunciando a condizioni fin lì di benessere - erano spinti dalla paura del regime comunista, dalle persecuzioni titine degli italiani, da motivazioni ideali, mentre il campo profughi nei pressi di Trieste, sul Carso, dipinto da Pietro Spirito, essendo collocato agli inizi degli anni Sessanta risulta composto da gente spinta da motivazioni forse più strettamente materiali. Negli anni Sessanta infatti ad andar via dalla Jugoslavia di Tito erano quelli che, assaggiata ormai da più di un decennio la realtà del regime comunista, poco avevano gradito il livellamento sociale, la nazionalizzazione delle imprese anche minori, dei campi, delle stalle, l’impoverimento diffuso e lo stato poliziesco, da scegliere di andarsene più per ragioni di comodo, in cerca di una vita migliore. Tanto più di fronte alle notizie confortanti che provenivano dai parenti e amici che già si trovavano in Italia.

Negli anni Sessanta, ad esempio, la mia famiglia come molte altre, si era già sistemata dopo un lustro vissuto nella precarietà: mio padre era stato assunto all’Adriatica Navigazione, mia madre alle Poste, mia nonna poteva godere della pensione di reversibilità del marito per i 28 anni di navigazione e della pensione di guerra per essere lui morto, appunto, in guerra. Da aggiungere ancora che molti di quegli ultimi profughi non erano neppure italiani, ma, facendo leva su qualche parentela italiana, approfittavano delle possibilità di opzione consentita dagli accordi bilaterali tra Italia e Jugoslavia, per venirsene via da quest’ultima sull’onda del benessere che la prima viveva in quel momento.

Ritengo però anche che Pietro Spirito, dipingendo nel suo romanzo la vita del campo profughi in queste forme di estrema miseria anche morale, abbia soprattutto obbedito alle esigenze narrative che la storia, per altro magistralmente raccontata, richiedeva.

La storia è quella di due donne, una madre e una figlia. La madre è Vera, che vive in misere condizioni con madre e padre disoccupato e alcolizzato nel campo profughi, verosimilmente quello di Padriciano, e che, rimasta incinta a causa di uno dei suoi occasionali incontri sessuali, dà alla luce, nel 1961, una bambina di nome Giulia. La quale un mese dopo la sua nascita viene data in adozione, con l’interessamento da parte di un avvocato, a una coppia di esuli senza figli già emigrata a Cape Town in Sudafrica.

Quarant’anni dopo, Giulia, che crede invece di chiamarsi Giuliana e anche con un cognome ben diverso da quello registrato all’anagrafe triestina, scopre qual è stato il suo destino nello specifico e si adopera per meglio conoscere la madre naturale e, più in generale, le sue vere origini. Scrive per questo a un ufficio di assicurazioni marittime dove lavora Gabriele Sala, il quale, presa a cuore la faccenda, farà, con lo stile del detective, tutte le ricerche necessarie per conto di Giulia/Giuliana riuscendo così a rintracciare la madre naturale di lei, Vera, appunto, tanto da spingere la figlia a venire da Cape Town a Trieste per conoscerla.

L’incontro non sarà come sperato. Vera, che per tutta la vita ha cercato di rimuovere dalla memoria e dalla coscienza quel suo gesto compiuto per le difficoltà in cui si era trovata, accomodatasi poi con un uomo con il quale avrebbe fatto un figlio, dalla vita sempre segnata da difficoltà materiali e insoddisfazioni, accetta mal volentieri la visita della figlia. Per soffocare il senso di colpa che emerge non esita a dirle “Lasciami in pace, cosa vuoi da me?” quasi a brutto muso, ribadendo a propria scusante, quasi nel timore potesse arrivare l'accusa per averla data via, di averle garantito una famiglia che l’ha amata e che l’ha fatta stare bene, mentre lei, invece, Vera, non si è mai staccata dalle sue condizioni di miseria e fatica. Di che ti lamenti, la rimprovera. Per poi scappare per sempre dalla figlia, con la cinica decisione di chiudere davvero una volta per tutte con lei.

Bisogna dire che tutta la fase di questi rapporti, prima lontani, poi sempre più ravvicinati, fino all’incontro finale tra le due donne, l’autore ha saputo narrarli con una grande sensibilità psicologica, restituendoci un ritratto dal quale emerge in entrambe lo smarrimento che, in forme diverse, vivono, l’una non capendo il rifiuto della madre, l’altra non capendo le ragioni che spingono la figlia a cercarla. Così come bene è tratteggiata la figura di Gabriele Sala, l’impiegato della Cassa Marittima, che da spettatore esterno si fa sempre più partecipe della vicenda, fino a coinvolgere e in parte sconvolgere la propria vita quotidiana, i propri amori e le proprie amicizie.


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