Seka

La lunga lotta dei lavoratori della Seka, industria statale della cellulosa, simbolo delle contraddizioni della rivoluzione liberista intrapresa dalla Turchia a partire dagli anni '80. Il governo evita la soluzione di forza e sceglie il compromesso. La fabbrica diventerà un parco pubblico

11/04/2005 -  Fabio Salomoni Ankara

Nelle scorse settimane si è concluso l'ennesimo atto, probabilmente non l'ultimo, della lunga vicenda che ha visto coinvolti la cartiera SEKA di Izmit, nella regione a sud di Istanbul, ed i suoi 734 lavoratori. Di proprietà pubblica e con imponenti buchi di bilancio, nell'ambito del processo di privatizzazione il governo turco aveva deciso per il 27 gennaio la sua chiusura definitiva. Ad una parte dei lavoratori era stata proposta l'assunzione presso una succursale della stessa fabbrica, a Silifke, sulla costa mediterranea, a diverse centinaia di chilometri da Izmit. I lavoratori hanno risposto occupando la fabbrica ed incatenandosi ai macchinari per evitare un eventuale sgombero forzato. Con la mediazione del Ministro dei Trasporti, dopo 51 giorni di resistenza, si è arrivati ad una soluzione di compromesso: la fabbrica con i suoi operai, quelli che non potranno essere pre-pensionati, sarà ceduta all'amministrazione comunale di Izmit. Ad essa spetterà poi la decisione se continuare la produzione oppure, come sembra più probabile allo stato attuale, chiudere la fabbrica trasformando l'area in un parco pubblico ed integrare gli operai nell'organico dei dipendenti comunali.

Le vicende della SEKA (Società per la cellulosa e la carta) ben rappresentano in scala ridotta le trasformazioni economiche e sociali vissute dalla Turchia contemporanea.

Al momento della proclamazione della Repubblica, nel 1923, il Paese era completamente privo di una struttura industriale. Fu lo Stato a promuovere la politica di industrializzazione con la creazione di una serie di installazioni industriali (KIT, Impresa a Gestione Pubblica) chiamate a fornire al paese alcuni prodotti chiave quali cemento, cotone, farina, carta. E' all'interno di questo contesto che nel 1936 venne fondata la SEKA con l'obbiettivo di soddisfare il fabbisogno di carta e cellulosa del Paese. Alle nuove industrie di Stato non veniva però assegnato solo un obbiettivo economico. Situate generalmente al di fuori delle aree metropolitane principali, le fabbriche di Stato avevano anche l'ambizione di favorire processi di trasformazione a livello sociale ed culturale. Per questa ragione all'interno delle fabbriche vi erano cinema e teatri, club sportivi, attività culturali destinate agli operai ed alle comunità locali. Nel 1937 alla SEKA venne fondata anche una squadra di canottaggio femminile. Inoltre nella fabbrica vi era anche una scuola di formazione professionale.

Nei decenni successivi le industrie di Stato hanno continuato ad avere un ruolo di primo piano nella struttura industriale del Paese: negli anni '70 le fabbriche KIT rappresentavano il 25% dell'industria turca. Proprio gli anni '70 furono per la SEKA un periodo di grande dinamismo, con i suoi 7.500 dipendenti distribuiti anche tra diverse succursali sparse in tutto il Paese, e di importanti aumenti della produttività.

Il clima è radicalmente cambiato negli anni '80, quando la Turchia ha intrapreso la sua rivoluzione liberista fondata sul rafforzamento del settore privato ed una struttura economica integrata con i mercati internazionali e fortemente orientata verso le esportazioni. Questa rivoluzione copernicana, fortemente sostenuta da organizzazioni internazionali quali il Fondo Monetario, aveva come condizione imprescindibile lo smantellamento della presenza diretta dello Stato nelle attività produttive, una presenza considerata inefficiente, anche attraverso l'avvio di un vasto piano di privatizzazioni. In realtà negli anni '90 si è prodotta però la paradossale situazione per cui da un lato la breve esperienza di un governo di centro sinistra ha cercato di introdurre criteri di efficienza nella gestione delle industrie di Stato, dall'altro invece le politiche ispirate dal Fondo Monetario miravano a sottrarre gli investimenti necessari al loro riammodernamento. L'obbiettivo era quello di arrivare alla totale scomparsa della presenza pubblica nel settore industriale.

Come ricorda Ufuk Saka, un manager proveniente dal settore privato, alla guida della SEKA nei primi anni '90: "Il nostro obbiettivo era quello di dimostrare la falsità dell'equazione industria di Stato uguale inefficienza. Certo c'erano problemi di sovrabbondanza di manodopera e di efficienza. Noi abbiamo cercato di introdurre alcuni principi del settore privato nella fabbrica ed i risultati si sono visti: abbattimento dei costi e degli sprechi, aumento della produttività dei lavoratori che, dopo le prime resistenze, ci hanno seguito in questo progetto di rilancio della fabbrica. Il bilancio del 1995 presentava utili per 104 milioni di dollari. Il problema però è che dietro le pressioni del Fondo Monetario questi utili venivano incamerati dal Tesoro per ripianare il deficit pubblico e non venivano reinvestiti nella fabbrica. Il risultato è stato un progressivo invecchiamento degli impianti ed il crollo della produttività".

Nel 1998 di fronte al perdita di efficienza della fabbrica ed alla mancanza di compratori privati, il governo dell'epoca ne decise la chiusura. Le mobilitazioni che ne sono seguite hanno di fatto portato ad un congelamento della situazione. Fino allo scorso gennaio quando il governo Erdogan, che ha fatto della privatizzazione uno dei suoi cavalli di battaglia che gli hanno permesso di guadagnare l'appoggio degli ambienti imprenditoriali, ha ribadito la volontà di procedere alla chiusura della SEKA il 27 gennaio.

Una decisione che ha provocato un vasto movimento di protesta che, cominciato con l'occupazione della fabbrica da parte degli operai, si è rapidamente esteso a tutto il paese dove si sono moltiplicate le manifestazioni di solidarietà. Durante i 51 giorni di occupazione all'interno della fabbrica gli operai, spesso affiancati da mogli e figli, hanno dato vita ad un gran numero di iniziative che hanno visto anche la partecipazione di molti esponenti del mondo artistico ed intellettuale turco: concerti, dibattiti ma anche matrimoni e gare sportive. Una mobilitazione che, seppure non priva di richiami nostalgici per le mobilitazioni operaie degli anni '70, ha costituito una importante novità nel depresso panorama sindacale del Paese ed ha permesso di rimettere al centro dell'attenzione la questione del lavoro, dell'occupazione e del modello di sviluppo economico. Tra le richieste degli operai e dei movimenti sindacali non solo quella di salvaguardare 734 posti di lavoro ma soprattutto il rilancio della produzione, attraverso un processo di rinnovo degli impianti.

Una ricerca ha mostrato infatti come sarebbe stato sufficiente un investimento di pochi milioni di dollari per poter rinnovare le strutture della fabbrica e restituirle competitività, permettendo cosi di salvare quello che è stato definito "l'orgoglio della Repubblica". Ad essere sotto accusa poi è stata la filosofia portante del processo di privatizzazione rivolto alle KIT, desideroso più di cancellare le tracce di una importante bagaglio di esperienza e di competenze che di cercarne il rilancio anche immaginando forme originali di proprietà, magari capaci di combinare pubblico e privato.

Di fronte all'ampiezza del fronte della resistenza il governo, deciso a continuare sulla propria strada, ha preferito arrivare ad un compromesso che evitasse il ricorso alla forza. La proposta di trasferire la proprietà della fabbrica ed i lavoratori al comune di Izmit, trasformando la SEKA in una BIT (Impresa a Gestione Comunale) è stata sottoposta alla votazione degli operai, che l'hanno approvata a grande maggioranza.

Ora la decisione sul futuro della fabbrica spetta al Comune di Izmit. Nelle sue prime dichiarazioni il sindaco Karaosmanoglu, del partito di opposizione CHP Partito Repubblicano del Popolo, non ha mostrato grande entusiasmo per la prospettiva di doversi occupare del rilancio della fabbrica. La soluzione che attualmente appare più probabile è quella della sua dismissione per trasformare l'area in un parco pubblico, "alla Hyde Park" così come suggerito dal Presidente Erdogan. Resta però il problema dei lavoratori, integrati nell'organico di una amministrazione comunale che è attualmente la più indebitata del paese.

Piuttosto che una soluzione convincente, l'evoluzione delle vicende della fabbrica SEKA sembra quindi rappresentare il tentativo di aggirare l'ostacolo costituito dalle caratteristiche e dalle conseguenze prodotte dal processo di privatizzazione, proprio mentre esso entra in una fase cruciale con la messa in vendita di alcuni dei "gioielli di famiglia" quali il monopolio di Stato TEKEL e soprattutto TurkTelekom.


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