In Turchia è stato scoperto un focolaio di virus H5N 1. Ma l'opinione pubblica non sembra particolarmente preoccupata. Cala comunque il consumo di carne di pollo

25/10/2005 -  Fabio Salomoni

"Ogni essere vivente assaggerà la morte" parole che si trovano spesso incise sul portale di ingresso di molti cimiteri turchi. Capita non di rado che l'automobilista o il passeggero di un mini-bus intrappolato nel caotico traffico delle metropoli turche si trovi per lunghi minuti a tu per tu con questa frase, a metà tra la minaccia e la serena constatazione. Presenza nella quotidianità di un ospite scomodo che in altri contesti culturali sarebbe interpretata come insopportabile ma che in Turchia sembra essere più serenamente integrata nell'esperienza quotidiana. Da qui deriva quell'atteggiamento più distaccato verso la morte che già in passato aveva attirato l'attenzione di molti viaggiatori europei di passaggio sui territori ottomani, che spesso avevano fatto un pò sbrigativamente riferimento al "fatalismo orientale".

Questo distacco può forse aiutare ad interpretare il diverso modo con cui i turchi hanno reagito alla scoperta della presenza nel paese del virus H5N 1 ed anche la loro difficoltà nel comprendere l'agitazione febbrile registrata in molti paesi europei. Mentre dall'Europa infatti arrivavano notizie di code alle farmacie, record di ordinativi e aste in rete per avere confezioni dell'ormai celebre Tamiflu, in Turchia tutto sembrava scorrere come sempre. Le uniche code visibili erano quelle, tradizionali, davanti ai fornai per acquistare il pane speciale, ramazan pidesi, immancabile elemento del pasto, iftar, che segna la rottura del digiuno quotidiano durante il mese di Ramazan.

All'indomani dell'annuncio dei risultati degli esami del laboratorio di Londra che hanno confermato la presenza del virus mortale tra i polli e tacchini dell'allevamento di Manyas, nell'ovest dell'Anatolia, un rapido giro tra le farmacie di Ankara od Istanbul permetteva di constatare una situazione tutto sommato nella norma: ad Ankara i farmacisti registravano solo un lieve aumento delle richieste del farmaco rispetto alla media stagionale. Ad Istanbul non di rado i farmacisti mostravano di avere le idee poche chiare sulla presenza del farmaco in Turchia cavandosela con uno sbrigativo "Arriverà tra un mese". Il presidente dell'ordine dei farmacisti di Ankara ha dichiarato che i depositi cittadini erano stati svuotati del farmaco in seguito a massicci ordinativi da parte soprattutto delle ambasciate straniere. Alla domanda di un giornalista che chiedeva conferma dell'indiscrezione secondo cui sarebbe stata soprattutto l'ambasciata americana a fare incetta di Tamiflu, il presidente si è rifiutato di fornire ulteriori particolari. Dal canto loro, le autorità hanno più volte ribadito che nel paese c'erano scorte sufficienti del farmaco mentre la Roche ha inviato 20.000 confezioni.

Girando per le strade, sugli autobus, negli uffici, si aveva la sensazione che l'appello del ministro dell'agricoltura, "Non fatevi prendere dal panico", fosse in qualche modo esagerato perchè la gente non sembrava particolarmente preoccupata dalla minaccia dell'influenza, tuttalpiù liquidava la faccenda con una frase " Basta non mangiare pollo".

Ed effettivamente nelle ultime due settimane le vendite di carne di pollo e di tacchino hanno subito un calo importante, segno che qualcosa di anomalo stava accadendo, mentre quelle del pesce aumentavano sensibilmente. Un calo del 30/40% secondo le associazioni degli allevatori, fortemente preoccupati che il settore, da alcuni anni in forte crescita, possa entrare in una crisi profonda prodotta dalla combinazione tra il rallentamento dei consumi interni ed il divieto di importazioni dalla Turchia deciso dall'Unione Europea. Preoccupazioni che hanno spinto il primo ministro Erdogan ed il presidente del Parlamento Arinc a farsi fotografare mentre mangiavano dell'insalata di pollo nel ristorante del Parlamento. Lo stesso ristorante che agli inizi dell'emergenza aveva eliminato dal menu tutti i piatti di pollo per poi reintrodurli precipitosamente dopo che la stampa aveva segnalato l'accaduto.

Proprio la stampa ed i media in generale hanno invece dedicato molto spazio all'evolvere della crisi. Inizialmente però gli organi di informazione sono sembrati soprattutto impegnati a stigmatizzare l'atteggiamento dei contadini dell'area messa in quarantena (10 chilometri quadrati, 28 villaggi), accusati di aver nascosto parte dei loro animali per sottrarli all'abbattimento. Necessità di sopravvivenza in condizioni economiche difficili, simbolo della chiusura della cultura contadina o atavica diffidenza verso l'autorità, non è dato saperlo. Rimane però il fatto che una commissione di parlamentari del CHP (Partito Repubblicano del Popolo) che ha visitato la regione ha ammesso che " là i contadini non credono all'influenza aviaria". Nelle perquisizioni a tappeto le autorità sanitarie e la polizia hanno effettivamente rinvenuto più di 400 animali.

Nei giorni successivi poi i media hanno assunto un atteggiamento più costruttivo dispensando informazioni sull'atteggiamento da tenere nel consumare carne di pollo e tacchino ed indicazioni sulle precauzioni igieniche da osservare.

L'epilogo della crisi si è avuto sabato 15 quando il direttore dei servizi veterinari del ministero della sanità ha dichiarato che "si è concluso il periodo di incubazione dell'infezione comparsa a Manyas senza che si siano segnalati casi di contagio. Non ci sono più pericoli nè per gli animali nè per gli uomini". Il ministero ha anche annunciato che manterrà la quarantena nell'area di Manyas fino al 29 ottobre, come da programma ma che la quarantena non sarà prolungata.

Un ritorno alla normalità certificato anche dagli esperti della UE che hanno visitato la regione, i registri delle autorità sanitarie ed alcuni allevamenti dichiarando di averli trovati "come ospedali".

Intanto da giorni ormai sulle prime pagine dei giornali le fotografie dei polli di Manyas hanno lasciato il posto a quelle provenienti da Izmir dove da più di una settimana si susseguono ripetute scosse di terremoto, tra il 5° ed il 6° grado della scala Richter. Edifici danneggiati, famiglie compostamente accampate lungo le strade ed anche le dichiarazioni degli esperti che avvertono che "le scosse potrebbero continuare anche per mesi", situazioni che fanno parte parte integrante della vita quotidiana del paese, tradizionalmente costretto a convivere con le apprensioni ed i dolori, questi si molto concreti, prodotti dalle catastrofi naturali. Il terremoto è infatti una presenza familiare nella vita dei turchi, non sono nelle sue manifestazioni più catastrofiche, l'ultima nel 1997 ha fatto più di 20.000 vittime, ma anche in quelle minori che si ripetono con regolarità impressionante nei quattro angoli del paese.

E' proprio questa familiarità con i dolori prodotti dalle catastrofi naturali, oltrechè gli antichi legami storici tra i due paesi, che sta alla base anche della grande partecipazione che il paese sta mostrando in questi giorni per la tragedia che ha colpito il Pakistan "Noi conosciamo bene questi dolori", titolava un quotidiano accanto alle foto delle rovine di Muzafferabad. Una partecipazione che si è concretizzata nell'invio di squadre di soccorso, tra le prime a raggiungere il Kashmir, e nello stanziamento di 100 milioni di dollari. Anche il primo ministro Erdogan ha voluto testimoniare la solidarietà del paese andando a visitare la regione colpita dal terremoto. Il presidente pakistano Aziz in una conferenza stampa congiunta ha dichiarato " Tutti i paesi sono corsi in nostro aiuto. C'è un paese però che ci ha fornito l'aiuto più completo, è la Turchia, il nostro fratello"


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