Proteste dei profughi

Rifugiati siriani in Turchia (Foto di Alberto Tetta)

La primavera araba obbliga la Turchia a un esercizio di equilibrismo per mantenere buone relazioni con Iran e Siria. Ankara ricalibra la sua politica estera in linea con la dottrina degli “zero problemi con i vicini” e richiede le scuse ad Israele per l'eccidio della Mavi Marmara

27/07/2011 -  Alberto Tetta Istanbul

Mentre continua la repressione del regime di Assad contro l’opposizione interna siriana e le relazioni tra Ankara e Damasco si fanno sempre più tese, turchi e israeliani cercano un riavvicinamento a un anno dalla rottura delle relazioni diplomatiche seguita all’uccisione di nove attivisti della nave Mavi Marmara diretta a Gaza. A rendere tutt’altro che semplice il dialogo tra i due paesi, la prossima pubblicazione della relazione finale della commissione ONU sull’attacco israeliano alla nave turca. A sei mesi dall’inizio delle rivolte che stanno scuotendo i paesi arabi, Ankara ricalibra la sua politica estera in linea con la dottrina degli “zero problemi con i vicini” del ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu.

Il dialogo con Israele

Dopo la vittoria degli islamisti moderati alle elezioni turche del 12 giugno, le vive congratulazioni inviate dal Parlamento dello Stato ebraico e dal Primo ministro Benjamin Netanyahu all’omologo turco Erdoğan sono state il primo segnale che qualcosa stava cambiando nelle relazioni tra i due paesi. I toni concilianti usati dal vice-ministro degli esteri israeliano Danny Ayalon nell’intervista pubblicata dal quotidiano Hürriyet il 24 giugno hanno rappresentato un ulteriore passo avanti verso il disgelo. “La globalizzazione è un vantaggio sia per la Turchia che per Israele. Per questo motivo è molto importante che lavoriamo insieme. Le nostre economie sono compatibili, i nostri interessi gli stessi; lo dimostra il fatto che a livello economico le nostre relazioni siano continuate nonostante le tensioni politiche” ha dichiarato Ayalon. Il viceministro israeliano, inoltre, si è detto favorevole ad un possibile ruolo di mediazione della Turchia nei conflitti in atto nella regione, ma ha invitato Ankara a tenere fuori la questione palestinese dalle relazioni bilaterali tra i due paesi: “Le relazioni bilaterali tra Turchia e Israele sono state influenzate da fattori esterni che non hanno niente a che vedere con il rapporto tra i nostri due paesi: la questione palestinese, le incomprensioni tra Israele e Palestina e il terrorismo di Hamas. Perché aggiungere una terzo elemento nelle relazioni bilaterali tra i nostri due paesi? Questa situazione credo non sia positiva per nessuno.”

Ankara, dal canto suo, per creare condizioni favorevoli al dialogo ha fatto pressione sul IHH, (l’organizzazione umanitaria di ispirazione islamista che, lo scorso anno, ha organizzato la partecipazione turca al tentativo di violare, via mare, l’embargo su Gaza) perché non facesse partire la Mavi Marmara pronta a salpare a fine giugno con la seconda Freedom Flottilla. I gesti di distensione sia da parte turca che israeliana servivano a creare le condizioni favorevoli al dialogo in vista della pubblicazione del rapporto finale della commissione ONU che ha indagato sull’attacco alla nave turca della scorsa estate.

La pubblicazione del report conclusivo della commissione guidata dall’ex primo ministro nord-zelandese Geoffrey Palmer, originariamente prevista per fine giugno, è stata più volte posticipata per permettere a Turchia e Israele di trovare un accordo autonomo. Maggiore sponsor del riavvicinamento tra i due paesi sono gli Stati Uniti che hanno visto nelle recenti tensioni tra Ankara e il vicino siriano, storico nemico dello stato ebraico, una situazione favorevole al dialogo tra i due paesi. Sono state proprio le pressioni del Segretario di stato Usa Hilary Clinton e della ambasciatrice Onu Susan Rice sul Segretario generale Ban Ki-moon a consentire il congelamento temporaneo della pubblicazione del report da parte della Commissione Palmer.

Secondo quanto dichiarato il 20 luglio da Ibrahim Kalın, capo-consigliere del Primo ministro Erdoğan, in un'intervista uscita sul quotidiano israeliano Haaretz, Erdoğan e Netaniyahu erano sul punto di trovare un accordo per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche che prevedeva scuse ufficiali da parte di Israele per quanto era successo l’estate scorsa e un risarcimento per le famiglie delle vittime, tuttavia il dialogo ha subito una battuta d’arresto quando il 6 luglio il ministro degli Esteri israeliano, l’ultra-nazionalista Avigdor Lieberman, ha dichiarato, aprendo una crisi di governo, di essere favorevole a iniziative tese alla normalizzazione delle relazioni con la Turchia, ma senza presentare scuse ufficiali. ”Siamo disponibili a cercare un compromesso, ma scusarsi non rappresenta un compromesso” ha detto il ministro.

La pubblicazione del rapporto ONU

Difficile quindi che i due paesi trovino un accordo prima della pubblicazione del rapporto ONU. La commissione Palmer nel settembre 2010 aveva già accertato un “eccessivo uso della forza” da parte del comando dell’esercito israeliano durante l’arrembaggio alla nave turca, considerato comunque legittimo come il blocco marittimo di Gaza. Una presa di posizione di questo tipo ribadita nel rapporto finale, secondo gli esperti di difesa israeliani, consentirebbe alle organizzazioni internazionali pro-palestina di denunciare per crimini di guerra i militari coinvolti nell’assalto alla Mavi Marmara. A rendere la trattativa ancora più complessa l’annuncio da parte del Primo ministro Erdoğan, il 19 luglio durante una visita a Cipro Nord, di voler visitare Gaza a breve, e l’organizzazione ad Istanbul della Conferenza degli ambasciatori palestinesi, nella quale si discuterà della richiesta di riconoscimento da parte dell’ONU di uno stato palestinese indipendente che verrà presentata in settembre. L’incontro sarà aperto dal primo ministro turco e dall’omologo palestinese Mahmud Abbas.

Le rivolte siriane

Il campo profughi di Boyunyogun

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Mentre sul fronte israeliano si cerca il dialogo, rimangono tese le relazioni tra Ankara e Damasco. Il Primo ministro Erdoğan, a fine giugno, aveva parlato di “barbarie” riferendosi alle violenze perpetrate dal regime di Assad contro i civili e il ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu il 16 giugno appellandosi in maniera diretta al Presidente siriano aveva detto: “realizza le riforme nel più breve tempo possibile. Instaura un sistema pluripartitico. Sii un presidente super partes e partecipa ad elezioni democratiche.” Il 14 giugno la Turchia ha fatto un ulteriore passo a favore dell’opposizione siriana ospitando la Conferenza per la liberazione nazionale della Siria che si è tenuta a Istanbul e a cui hanno partecipato 350 rappresentati dell’opposizione che si sono dati come obiettivo la formazione di un governo ombra e l’organizzazione, nel più breve tempo possibile di una riunione in territorio siriano.

Le critiche turche rivolte al governo siriano e l’appoggio ai gruppi di opposizione non sono piaciute per nulla all’Iran, storico alleato di Damasco, che a inizio giugno ha accusato Ankara di essere il vero organizzatore delle rivolte in Siria. Secondo l’agenzia di stato Fars Ankara avrebbe fatto “il doppio gioco” sostenendo a parole Assad, e allo stesso tempo addestrando e fornendo armi alle “bande criminali” responsabili delle violenze nel Paese.

La politica equidistante degli “zero problemi coi vicini” promossa dal ministro degli Esteri Davutoğlu è oggi messa seriamente in discussione da una primavera araba che sta facendo tremare molti dei leader con cui Ankara aveva trovato di recente un accordo costringendo la Turchia a un esercizio di equilibrismo per mantenere buone relazioni con Iran e Siria senza voltare le spalle ai movimenti d’opposizione e allo stesso tempo accontentare l’Europa e soprattutto gli Stati Uniti che, spaventati dalle prese di posizione pro-Iran e filo-palestinesi di Erdoğan degli ultimi anni, spingono per la normalizzazione dei rapporti con Israele, senza tuttavia tradire i fratelli palestinesi. E’ un test importante per il terzo governo Erdoğan il cui risultato mostrerà se la Turchia sarà davvero capace di diventare quella superpotenza globale e regionale di cui il primo ministro ha più volte parlato durante la campagna elettorale.


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