E' in Estremadura, tra boschi e sorgenti, che emerge il ricordo dell'evento chiave attorno a cui tutto ruota, l'incendio dei Balcani. L'Istria, la giovane Slovenia, il Cile ed un mondo che non esiste più. Un libro di Franco Juri, edito da Infinito Edizioni

03/10/2008 -  Redazione

"Ritorno a Las Hurdes - Guerre, amori, cicogne nere e istriani lontani" di Franco Juri è uscito di recente in Italia con Infinito Edizioni. Nella primavera del 2009 verrà pubblicato in lingua slovena su iniziativa della casa editrice Sanje di Ljubljana. Pubblichiamo l'introduzione al libro, di Paolo Rumiz.

Franco Juri è un uomo fortunato. Ha vissuto da vicino eventi storici cruciali, con un'accelerazione che iniziava esattamente quando in certe università qualcuno profetizzava la fine della storia mondiale. Ha trovato nella sua patria slovena un punto d'osservazione centralissimo eppure appartato, un sismografo tra Alpi, Mediterraneo e Danubio capace di registrare al meglio i terremoti circostanti senza subirne le distruzioni.

Istriano di anima e intelletto, dunque nobilmente "bastardo", dalla sua penisola-madre egli ha succhiato, col latte, il gusto dell'ibridazione tra popoli e culture, proprio nel momento in cui i tamburi dei nazionalismi riprendevano a rivendicare sciagurate purezze etniche, traendone un gusto per la complessità che lo ha aiutato a guardare oltre la superficie.

Ma questo figlio del mondo di ieri sparato nella contemporaneità ha potuto anche godere di punti d'osservazioni privilegiati. In appena vent'anni è stato attivista di spicco dei diritti umani, protagonista dello sgancio del suo Paese dal comunismo e poi dalla Jugoslavia, deputato di una nuova giovane democrazia, scrittore di una costituzione, ambasciatore, vice-ministro agli esteri, giornalista e - da sempre - straordinario vignettista. I suoi fulminanti disegni hanno accompagnato tutta la guerra jugoslava fornendo ai cronisti chiavi di interpretazioni politiche e insieme antropologiche capaci di andare oltre gli eventi. Ricordo per esempio un Tito mollemente sdraiato su una nuvola che scuoteva la cenere del suo sigaro su un campo di battaglia, commentando sardonico: "Dio ci guardi da questi miei squallidi imitatori".

 

Tanto, forse troppo da dire su un ventaglio di accadimenti che meriterebbero ciascuno un libro. Urgente, di conseguenza, il bisogno di fissare tutto questo magma in un volume, in fretta, perché il ricordo non si perda e la verità non sia manipolata dai seminatori di zizzania costruttori di nuovi conflitti. Il libro nasce soprattutto da questo: dal bisogno di liberarsi di un fardello, di mettere ordine negli scaffali della memoria. E allora ecco questa storia costruita sulle rievocazioni, su un cenacolo di amici che si danno appuntamento nelle terre estreme della Spagna, là dove passano come sogni le cicogne nere e l'ombra allampanata di un hidalgo cavalca sugli altopiani, e cominciano a dipanare senz'ordine di tempo un gomitolo di vite, itinerari, incontri, amori e utopie perdute.

Lì, in Estremadura, tra boschi e sorgenti, ai margini della meseta, torna il film dell'evento-chiave attorno a cui tutto ruota, l'incendio dei Balcani.

Il protagonista Cesco, che è in tutto e per tutto l'autore, registra la dissoluzione dell'impianto federale del suo Paese, una dissoluzione che inizia molto prima della guerra, forse già prima della morte di Tito; lo svuotarsi rapidissimo dei dogmi ideologici come "fratellanza e unità"; la tensione etnica che cresce, assieme al vittimismo, nei popoli costitutivi della Jugoslavia; l'inizio dello sfaldamento di un Paese multietnico che per certi versi - anche nel "divide et impera" - ricorda l'ultimo degli imperi, l'Austria-Ungheria di Kaiser Franz Josef. Ed anche, anni prima, lo stravolgimento culturale della sua Istria, l'esodo degli autoctoni, l'arrivo di genti nuove spostate per decreto, i contraccolpi pesanti su un genius loci delicato, ma sempre capace di rigenerarsi su basi nuove.

Con Cesco dialogano Javier, spagnolo, e Ramón, cileno. Entrambi hanno conosciuto una dittatura, e nelle vite di entrambi hanno lasciato il segno i malanni dell'età neoliberale, le assurdità della società del superfluo, la morte delle ideologie e dei sogni, le guerre del ventunesimo secolo, gli incubi della società dell'ansia che invoca impossibili sicurezze, l'invasività della tecnologia nelle esistenze private delle persone. Tutti e tre si chiedono, ora, come affrontare tutto questo con l'armamentario ideologico e morale della loro gioventù e maturità. Tutti e tre, nel buen retiro di Las Hurdes, capiscono l'esistenza di una cesura tra epoche: quella prima dell'11 settembre e quella dopo. Ma nessuno di loro accetta di restare bloccato nella No man's land che le separa.

A un tratto capiscono: se la loro epoca è tramontata, non tutto di essa è da buttare; se loro sono sconfitti, certamente nessun ha trionfato; se molti bei volti hanno attraversato la loro esistenza spesso senza più tornare, quei volti hanno lasciato un segno indelebile nell'anima; se le utopie sono finite, i valori e l'etica nati da quelle utopie aiutano ancora a mantenere l'integrità dell'individuo. È lì che si innesta il ragionamento sul perché della violenza, e si conclude che i meccanismi sono sempre gli stessi, vista la banalità del male. È un cocktail micidiale costruito sulla manipolazione della memoria, sulla cultura muscolare del nazionalismo, sull'autismo populista di certi leader, ma soprattutto sui rancori di maggioranze silenziose e frustrate: greggi capaci di invocare il loro macellaio e di farsi spingere in stato di esaltazione verso lo scannatoio.

La vita riemerge come arte dell'incontro, diventa una sequenza di storie, a partire da quella del padre di Cesco, partigiano comunista costretto all'esilio dopo la strage di Porzûs. Una folla di uomini e donne: Ramón in fuga dal Cile di Pinochet; Eveline, appassionata figlia di un fuoruscito croato ustascia pentito e di una ebrea di Seattle; i venti riservisti dalmati che precipitano col loro elicottero nel mare sconvolto dalla bora; Jelena, bella e sfortunata infermiera belgradese ingannata da un italiano; la "banda del giardinetto" che negli Anni '70 batte le stradine veneziane di Capodistria; Tanja, la donna che Cesco incontra e diventa compagna di vita; Janez Jansa (attuale capo del governo sloveno) che nella guerra di secessione del '91 chiede più sangue affinché l'evento non appaia separazione consensuale e quasi certamente concordata.

E poi, ancora, i miserabili bambini di Cochabamba in Bolivia; Rade e Lenka, esuli eterni, rinnegati da tutti perché non accettano nessun timbro nazionale e in Istria cercano un posto dove allestire un festival teatrale dedicato alla tragedia; gli abitanti delle Valli del Natisone, sulla frontiera presidiata da Gladio, terrorizzati dai "servizi" in funzione anti-comunista e anti-jugoslava; Joze, ingegnere informatico che si perde in un centro commerciale di Santa Cruz de Tenerife e per cinque giorni erra alla cieca sull'isola, dopo avere perso l'orientamento; oppure ancora i giovani tori liberati per le strade di Caminomorisco in Estremadura, per la festa della Vergine del Pilar. Tutte storie vere che, insieme, formano l'almanacco di un mezzo secolo.

Franco Juri è nato a Capodistria (Koper) in Slovenia/Jugoslavia nel 1956 da padre italiano e madre croata. Giornalista e vignettista satirico, collabora con testate slovene e italiane. Negli Anni '80 e '90 si è occupato di diritti umani ed è stato deputato nel primo Parlamento democraticamente eletto di Lubiana. Dopo l'indipendenza della Slovenia, nei governi di Janez Drnovšek, ha rivestito importanti incarichi nella diplomazia del suo Paese: ambasciatore in Spagna e a Cuba e segretario di Stato agli Affari esteri.

Si vedano i programmi dettagliati degli incontri di presentazione di Bologna (11 ottobre) e di Gorizia (13 ottobre) nella sezione appuntamenti, ai quali parteciperà anche l'autore.


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