Ricordi tanti, nessun rimpianto, il desiderio di non mollare e una gran voglia di guardare al futuro. A dieci anni dal 5 ottobre 2000, data storica che segna la caduta del regime di Slobodan Milošević, la riflessione dalla nostra corrispondente da Belgrado

05/10/2010 -  Petra Tadić Belgrado

Oggi è il 5 ottobre. Un altro giorno nella marea di giorni storici della Serbia. Per alcuni è il giorno in cui la Serbia si è levata di dosso gli artigli del regime autoritario, per altri è il giorno delle aspettative tradite, ma c’è anche chi vive il 5 ottobre come il giorno nero della storia serba.

Ricordo vivamente il 5 ottobre di dieci anni fa. Lo ricordano vivamente anche la mia famiglia e i miei amici. Ho vissuto gli anni Novanta sognando il giorno in cui avremmo cancellato dalla scena politica Slobodan Milošević e tutto quel che incarnava il regime da lui guidato. Ho lottato, insieme a migliaia di altre persone, affinché cessassero le guerre, le sanzioni, la miseria. Ho marciato con le manifestazioni studentesche sotto la pioggia e la neve. Con Otpor ho fatto il giro del Paese invocando un pacifico cambio di potere.

I Novanta, paradossalmente, sono stati gli anni più belli e più difficili della mia vita. Particolarmente belli perché ho partecipato alla rivolta dei cittadini, ho conosciuto gente coraggiosa e intelligente, e poi perché anche io sono stata una piccola parte di una grande storia di una Serbia diversa, in cui tuttora credo.

Difficili, ma lo dimentichiamo facilmente, perché le vite di tutti erano intessute di paura e repressione, grigiore e assenza di speranza.

Ricordo con orgoglio il 24 settembre, il giorno delle elezioni, quando con la matita e la ragione abbiamo detto definitivamente “no” agli anni Novanta.  Quella fu la vittoria dei cittadini della Serbia. Ma non era finita. Seguirono proteste in tutto il Paese, fu indetto uno sciopero generale, la Serbia era paralizzata. La vita si era fermata. Una sola cosa sembrava veramente importante: la difesa del voto e del risultato elettorale. Già allora, ma non ce ne accorgemmo né avremmo potuto, era cessata la rivolta dei cittadini ed erano iniziate le trattative per il controllo del potere. Precisamente, chi parlò con chi, chi si mise d’accordo con l’esercito e la polizia affinché non attaccassero i cittadini per le strade, cosa fu richiesto in cambio e quali compromessi si fecero, questo per noi “comuni” cittadini tuttora rimane un mistero. Ma in questo frangente la cosa non è così importante. Non sto cercando di comprendere la storia recente della Serbia, sto piuttosto descrivendo un ricordo personale.

Non era nemmeno in discussione di passare quell’autunno in un luogo diverso da Belgrado. Non mi pento affatto, fu una mia decisione. Io, la mia famiglia e miei amici non eravamo davanti al palazzo del Parlamento perché credevamo nei leader dell’Opposizione democratica della Serbia (DOS), eravamo là perché non avevamo altra scelta. Non ho mai creduto ad un altro nuovo dio impersonato dal politico dell’opposizione, desideravo solo vedere la fine di quel regime autoritario. Ed è per questo che il 5 ottobre per me è importante. Nessuno mi può togliere il ricordo del sentimento di grande felicità che provai. Nemmeno tutti i delusi, né tutti i critici di turno, né tutti gli oppositori politici oggi al governo, nessuno e niente può convincermi che avrei potuto scegliere più volentieri un luogo diverso per quel mattino di ottobre.  

Il 5 ottobre eravamo per le strade. Sull’esito della giornata ormai si sa tutto. Vojislav Koštunica diventò presidente, furono indette elezioni politiche alle quali l’allora Opposizione democratica della Serbia vinse. Iniziavamo a tirare un sospiro di sollievo e a sperare in un “domani migliore”.

Dieci anni dopo. Forse vi starete chiedendo se è questa la Serbia per cui ho lottato. Ne valeva la pena? Sì e no. Rifarei tutto da capo, in nessun momento mi sono pentita per le scelte che ho fatto e, col senno di poi e l’esperienza acquisita, posso tranquillamente dire che non riuscirei mai a starmene da parte. No, questa non è la Serbia che desideravo. Va tutto lento, tutto è in ritardo. Ci dimeniamo senza successo nei vortici del passato. Non siamo neanche un po’ vicini all’essere un paese a posto, in cui tutti i cittadini possano sentirsi bene.

Il nazionalismo corrode il tessuto sociale, il Kosovo continua ad essere una parola dolente e non riusciamo a consegnare i latitanti al Tribunale dell’Aja. L’Europa è lontana, la corruzione selvaggia, la sindrome post traumatica è sempre più evidente, i giovani sono senza sogni, i genitori senza tempo da dedicare loro, gli investimenti scarsi. Non sappiamo nemmeno chi siamo né qual è la nostra identità. Un premier è stato ucciso, mancano nuove élite politiche, i vecchi diventano nuovi, più belli da vedere, ma è difficile dimenticarli e perdonare loro tutti i peccati commessi. È un boccone difficile da mandare giù. E come dice Dragoljub Žarković, editorialista del settimanale Vreme , lo spettro della stanchezza ammanta la Serbia. Ma nonostante tutto questo qualcosa è cambiato.

Guardo su B92 il documentario sui mesi che precedettero il 5 ottobre. I tagli dalle notizie di allora. Ed è un bene che ce lo ricordino. I titoli: "Non c’è pane", "Manca l’olio", "Arrestato", "Picchiato", "Sparito", "Ucciso", "Imposte le sanzioni", "I bombardamenti sono durati tre mesi", "Le frontiere chiuse". Fade out. Dieci anni dopo, non c’è il buio in Serbia. È scuro certo, ma a volte spunta il sole a riscaldarci. Viaggiamo liberamente. Stipendi e pensioni sono bassi ma regolari. Votiamo ad elezioni senza brogli. Andiamo avanti, lentamente e, spesso perché gli altri ce lo ricordano, impariamo “nuovi” concetti che per la maggior parte degli altri paesi sono ormai vecchi. Non ci sono guerre. Non ricorriamo alle armi se non siamo d’accordo coi vicini e col mondo.

Nemmeno oggi voglio mettere sulla bilancia quel 5 ottobre per sapere se sono state di più le cose positive o quelle negative. Non vedo come possa aiutare, anche se non fuggo certo dalla realtà serba. E nemmeno oggi voglio essere tra chi si lamenta del destino di questo Paese. Sono qui, dieci anni dopo, in Serbia, nonostante sia ancora lontana da quella che desideravo che fosse. È una mia scelta, proprio come è una mia scelta continuare a fare il possibile affinché la Serbia sia un luogo migliore dove vivere. E anche oggi, non credo incondizionatamente ai leader politici e ai loro progetti.

Esistono luoghi migliori di Belgrado il 5 ottobre 2010? No. Perché Belgrado è la mia città. Qui sono le mie battaglie e scelgo di non rinunciarvi. Passo dopo passo, fino a quel sogno utopico denominato Serbia normale. Il prossimo passo, e chissà quale nel lungo elenco, sarà il 10 ottobre prossimo quando a Belgrado faremo il primo Gay Pride. Dopodiché molti altri passi ci attendono.

Ma anche un’altra cosa mi pare importante. Ho l’impressione che ci  siano fin troppe ricorrenze di “giorni storici” in Serbia, compreso il 5 ottobre. Questa è l’ultima volta che richiamo il ricordo. Voglio guardare al futuro e voglio sentire ancora quell’energia di cambiare ciò che riconosciamo come non buono. Ne ho abbastanza di miti e leggende. Nonostante siano state leggende che io stessa ho contribuito a creare.


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