L'improvvisa partenza del padre e la sua prolungata, inspiegabile assenza, rappresentano per il giovane Dzsátá una dolorosa ferita. Il ritratto della vita in una società totalitaria, al contempo brutale e delicato. Questa recensione è pubblicata in collaborazione con Il Gioco degli Specchi

19/01/2014 -  Silvia Camilotti

Il romanzo di György Dragoman, appartenente alla minoranza ungherese in Romania che ha abbandonato nel 1988 per l'Ungheria, si costruisce con una serie di affreschi ognuno riassunto per lo più da una parola. Se si scorre l'indice infatti, si incappa in un elenco sintetico ed essenziale di termini, scritti in minuscolo: "tulipani, salto, piccone, musica, guerra, africa" per fare qualche esempio, ognuno nucleo, soggetto, del capitolo a cui dà il titolo.

Nonostante l'indice possa dare l'impressione di un romanzo costruito su frammenti, in realtà a tenere legata la narrazione è il punto di vista di un ragazzino, che l'autore riproduce in maniera molto realistica e fedele, a partire dal linguaggio, dai pensieri, dalle "bravate", dalle ingenuità e dalle paure. Soprattutto le paure e il clima di abbrutimento di uomini e cose non abbandonano mai il personaggio principale, che descrive, in quel modo ingenuo tipico della sua età, le storture, le volgarità e la violenza della società.

I riferimenti alla dittatura che ha oppresso la Romania sono evidenti e Dragoman - senza alcun tono di denuncia o indignazione, che sarebbe irrealistico affidare a un bambino - riesce a dipingere la degenerazione e la miseria facendo immergere il lettore in quel momento storico.

La vicenda che si snoda tra molteplici episodi che vedono sempre protagonista il ragazzino si apre con la partenza del padre (che in realtà è la prigionia in un campo di lavoro per i dissidenti) e prosegue con la speranza mai abbandonata di vederlo ritornare, nonostante il trascorrere dei mesi, degli anni. Una vicenda amara, profondamente triste e carica di vuoti, caratterizzata dalla scarnificazione di parole e paesaggi che ci ricorda qualche tratto de Il buio del mare di Ron Kubati.

La violenza delle azioni e del linguaggio, l'abbrutimento delle persone ci rimandano invece a Il paese delle prugne verdi di Herta Muller che con l'autore de Il re bianco ha in comune l'appartenenza a una minoranza in Romania e l'abbandono del paese.

Ultimamente sono stati molti gli autori rumeni tradotti in lingua italiana e spicca tra loro l'enorme differenza di approccio e di stile, quasi agli antipodi. Se pensiamo a Sono una vecchia comunista! di Dan Lungu o a Il santo nell'ascensore di Petru Cimpoesu osserviamo come, pur parlando di Romania e dei suoi anni grigi, questi ultimi due autori scelgano la strada del sorriso, che a tratti sfocia nel comico e nel grottesco.

Ancora una volta la letteratura ci offre la possibilità di osservare, in tal caso un paese e il suo popolo, da vicino, nella pluralità di voci e punti di vista. Al lettore non sfuggirà, in alcuno di questi testi, la volontà da parte di tali autori di raccontare, avvicinare, sensibilizzare su temi e vicende molto vicine a noi - e rese ancora più vicine dagli immigrati romeni che vivono in Italia, di cui abbiamo la possibilità di conoscere qualcosa in più del loro passato.


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