480.000 profughi, arrivati in poche settimane in Albania. I paesi occidentali misero a disposizione risorse ingenti per assistere Tirana nelle operazioni di soccorso. Ma a fare la differenza fu la mobilitazione popolare

25/03/2009 -  Luisa ChiodiArtan Puto

Tutti ci ricordiamo bene il 24 marzo 1999, la data dell'inizio dei bombardamenti della Nato, ma la situazione umanitaria in Kosovo era grave già nell'estate del 1998. I dati dell'Unhcr nel settembre '98 facevano riferimento ad un totale di 240.000 profughi in fuga verso il Montenegro, in Albania, Macedonia e Bosnia Erzegovina; circa 50.000 persone erano sfollate in altre parti del Kosovo e le abitazioni distrutte erano già 15.000. Si trattava delle conseguenze dell'intervento delle forze di sicurezza serbe nella regione di Drenica per stroncare le attività dell'organizzazione militare albanese UCK sorta alcuni mesi prima nell'allora Provincia autonoma.

Poi ci furono i mesi delle trattative, della missione OSCE, delle mediazioni fallite ed infine l'intervento militare della Nato. A quel punto la pulizia etnica del regime di Milošević raggiungeva l'acme ed altre centinaia di migliaia di kosovari albanesi fuggivano nei paesi vicini. Si trattò di una vera catastrofe che mise in grande allarme in particolare la Macedonia raggiunta da 250.000 albanesi del Kosovo e dove la componente macedone temeva un ribaltamento della composizione etnica del paese. La preoccupazione di dover accogliere migliaia di profughi, per altro, era tanta anche in Italia e negli altri paesi europei.

Ad essere letteralmente travolta dai profughi nel 1999 fu l'Albania. Ma qui alla crisi fu data una risposta positiva. Non va sottovalutato il fatto che un paese di 3 milioni e mezzo di persone, da anni alle prese con una situazione economica e politica disastrosa, si trovò a fronteggiare l'arrivo di 480.000 profughi: un problema enorme da gestire dal punto di vista logistico. Certamente, i paesi occidentali misero a disposizione risorse ingenti per assistere Tirana nelle operazioni di soccorso ma a fare la differenza fu la mobilitazione popolare a cui si assistette in quelle settimane.

La stragrande parte dei kosovari infatti non fu ospitata nei campi profughi bensì nelle abitazioni private. Nelle varie parti del paese verso cui affluivano i profughi, gli abitanti del posto si presentavano fuori dai centri di accoglienza e offrivano ospitalità ad interi nuclei familiari. Mentre in Italia l'Operazione Arcobaleno veniva presentata come la sola salvezza per il Paese delle aquile, l'Albania in buona misura si arrangiava da sé.

A muovere questa ondata di solidarietà furono i media albanesi e la TV in particolare che trasmetteva ore ed ore notizie sulla crisi, interviste, testimonianze e racconti terribili sulla pulizia etnica. Sotto ogni trasmissione televisiva scorrevano in sovrimpressione gli appelli per ritrovare persone che si erano perse nella fuga. La grande emozione sollevata dalla tragedia trovava una risposta pronta nelle campagne come nella capitale. Ovunque la cosiddetta gara di solidarietà spingeva migliaia di persone a mettersi a disposizione, a volte senza nemmeno avere gli spazi e le risorse adeguate all'accoglienza. Tutti invocavano la tradizione dell'ospitalità, virtù nazionale da mettere a frutto ora che la sciagura si abbatteva sul popolo albanese in quanto tale.

Persino le ONG, fino a quel momento marginalizzate nel paese, identificarono la propria missione da compiere e, nei centri urbani, riuscirono a mobilitare volontari, fenomeno raro in precedenza. Al contrario, è interessante notare come non vi fu reclutamento di volontari per andare a combattere per la causa nazionale in Kosovo e l'UCK rimase un fenomeno strettamente kosovaro.

Intanto i profughi che affluivano da nord venivano gradualmente distribuiti nel resto del paese. Molti kosovari vedevano per la prima volta il mare e molti albanesi della costa scoprivano che nel Kosovo jugoslavo la vita era stata meno dura che in Albania. Ma si creavano anche situazioni difficili. L'incontro spingeva al confronto ed i kosovari lamentavano le pessime condizioni in cui versava l'agognata madrepatria, le terribili infrastrutture lasciate in eredità dal regime di Enver Hoxha, le case piccole e meno confortevoli di quelle costruite con i soldi degli emigrati in Svizzera, le abitudini differenti. Di contro gli albanesi di Albania, tanto più se di città, facevano valere la maggiore apertura dei costumi rispetto ai kosovari tradizionalisti, rivendicavano un livello superiore di cultura per bilanciare l'imbarazzo di fronte alla propria povertà. Certamente fu la prima occasione per scoprirsi senza il velo della retorica ufficiale, di intrecciare nuove relazioni e ragionare sulla propria esperienza pregressa tanto differente.

Alcuni studi sull'impatto economico della crisi dei profughi misero in luce che una parte dei kosovari si trovò a pagare una sorta di affitto agli ospiti albanesi. Per altro emerse che questi casi erano avvenuti nelle aree meno svantaggiate del paese: a mostrarsi più generose erano state le campagne, dove massima era la povertà. Di certo, chi aveva offerto la propria casa non immaginava che la permanenza degli ospiti si sarebbe protratta così a lungo. Come la Nato non si aspettava un intero trimestre di bombardamenti, nemmeno gli albanesi si aspettavano una prova di disponibilità tanto prolungata.

Nessuno per altro si attendeva nemmeno una fine così repentina della crisi stessa: il contro-esodo fu una questione di giorni. I kosovari fecero un rientro immediato a casa, non appena furono siglati gli accordi per il cessate il fuoco. Le case private come i campi si svuotarono più velocemente di come si erano riempiti. L'euforia che aveva tenuto in piedi il paese durante la primavera svanì nel giro di qualche giorno. E nella zone poverissime del nord albanese, ci si confrontò ancora una volta con il funzionamento perverso della macchina dell'emergenza: tornati a casa i profughi, si esaurivano gli aiuti e si tornava all'ordinaria miseria senza scampo.

In Albania il senso di appartenenza ad un comune destino nazionale è servito a trasformare il paese dell'anarchia del 1997 in un luogo accogliente dove cercare protezione. L'identità può quindi stimolare la solidarietà, non soltanto l'intolleranza e l'esclusione. Per quanto riguarda il Kosovo, invece, ora che gli albanesi non temono più la repressione di Belgrado e gli scambi tra Kosovo e l'Albania si sono intensificati, si può sperare che si creino le condizioni per articolare il problema dell'identità nazionale in modo plurimo, capace di riconoscere nell'"altro" qualche elemento in comune su cui costruire nuove appartenenze civiche da aggiungere a quelle nazionali. In fine la crisi dei profughi dovrebbe farci riflettere sul bisogno di creare un senso di appartenenza europea a cui attingere nei momenti di crisi.


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