A giugno sarà il quinto amministratore internazionale del Kosovo ad andarsene. Jessen-Petersen, dopo due anni intensi di lavoro, ha annunciato le sue dimissioni. Un commento

13/06/2006 -  Davide Sighele

Sembra di essere in un campeggio. Arrivano nuovi ospiti, partono, ne arrivano altri. Ma con una particolarità sostanziale. Sono proprio questi ospiti a decidere molto della gestione del campeggio stesso: tariffe, modalità d'alloggio, pulizie dei bagni.

Questo campeggio si chiama Kosovo. E l'ultimo ospite che si è deciso a togliere le tende è Soeren Jessen-Petersen. Ha dato l'annuncio il 12 giugno scorso. "Ho dedicato gli ultimi due anni della mia vita al Kosovo, è ora arrivato il momento di ritornare da mia moglie e dai miei figli, a Washington DC" ha dichiarato "non vi è nessun altra motivazione dietro alle mie dimissioni e vorrei che su questo non si speculasse".

Nelle settimane scorse si era aperta una polemica nei suoi confronti soprattutto da parte della comunità serba del Kosovo che lo ha più volte percepito più come garante di una futura indipendenza del Kosovo che come fautore di un riavvicinamento tra le comunità che vi abitano.
Poi sono arrivate le critiche di Carla Del Ponte - che mai ha digerito il permesso dato all'ex premier Ramush Haradjnaj di trascorrere in Kosovo il tempo che lo separa dall'avvio del processo - su una non piena collaborazione dell'UNMIK con il Tribunale.

Durante la conferenza stampa dove ha annunciato le proprie dimissioni a chi gli ha posto domande in particolare sulle dichiarazioni del procuratore generale del Tribunale dell'Aja Petersen ha risposto alzando leggermente il tono della voce e abbandonando il suo stile compassato, dimostrando così un certo fastidio per le parole della Del Ponte: "La procura generale è un braccio del Tribunale, non il tribunale stesso". "Se facessi dipendere il mio stare qui in Kosovo da queste dichiarazioni avrei poca considerazione di me stesso e del lavoro degli altri".

Probabilmente Petersen dice il vero. Il Kosovo lo ha semplicemente fiaccato, e ha scelto di andarsene. La vicenda è metafora efficace di uno dei paradossi più evidenti di questi interventi "umanitari" o di "peace building" della comunità internazionale. Funzionari di organizzazioni internazionali arrivano in una paese straniero, dettano le parole chiave, si occupano di questioni cruciali, e poi, dopo poco, se ne vanno. Qualcun'altro deve prendere il loro posto ripartendo quasi da zero, ricostruendo relazioni, cercando di comprendere una situazione complessa. E' certo vero che ogni organizzazione deve poter fare a meno dei singoli che ne fanno parte ma non può nemmeno cambiare personale ogni 1 o 2 anni.

Questo vale ancor di più per chi è alla guida di una macchina così complessa (e con l'ambizione di gestire un paese) quale è l'UNMIK. Quale governo può cambiare il proprio leader ogni anno e mezzo? Basta scorrere la lista dei predecessori di Petersen per capire la girandola alla quale è stata sottoposta questa regione: all'inizio vi era Bernard Kouchner, carismatico fondatore di Médecins Sans Frontières. Poi è arrivato il danese Hans Haekkerup: il tempo di assistere all'avvio dei lavori del primo Parlamento del Kosovo per poi, dopo 11 mesi di lavoro, dimettersi. E' stata poi la volta, nel gennaio 2002, del tedesco Micheal Steiner sostituito, nel luglio del 2003, dal finlandese Harry Holkeri. Quest'ultimo dopo la tragica vicenda degli scontri di marzo 2004 ed un ricovero nel maggio successivo per stress da iper lavoro ha lasciato il posto a Soeren Jessen-Petersen.

"Ho messo tutta la mia passione in questo lavoro. E' l'unico modo di svolgerlo al meglio. Mi spiace andare proprio in questo momento così cruciale", ha affermato Petersen durante la conferenza stampa per poi aggiungere che nei prossimi mesi oltre ad occuparsi di accompagnare a scuola i figli contribuirà al lavoro di Martti Ahtissari per arrivare entro l'anno alla chiusura dei negoziati sullo status.

Ma questo ottimismo lascia però perlomeno perplessi. Perché mai Petersen avrebbe dovuto dimettersi proprio ora, a pochi mesi da un momento storico per il Kosovo, la definizione dello status? La fine dell'anno non è poi così lontana ed era forse più opportuno pensare solo con il 2007 ai più che legittimi bisogni della propria famiglia.

La verità è che Jessen Petersen, come molti altri, teme che entro l'anno non si verificherà nulla di particolarmente storico per il Kosovo e che i negoziati, purtroppo, porteranno a poco. Sicuramente non ad una soluzione condivisa dalle parti in causa.

Ultima ed ulteriore dimostrazione è stata la recente presentazione da parte di Belgrado di un piano per lo status che molti analisti hanno definito come un documento scritto più per l'opinione pubblica serba che non per raggiungere un consenso con Pristina e la comunità internazionale. Un modo del primo ministro Vojislav Kostunica di mettere le mani avanti: noi abbiamo fatto la nostra proposta, tutto ciò che si allontana da quest'ultima sarà frutto esclusivo, e quindi responsabilità esclusiva, di imposizioni arrivate dall'esterno.

E' in questo contesto che Petersen ha preferito cambiare campeggio. Pioggia, nuvole basse e previsioni meteo che non prevedono alta pressione.


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