Un viaggio a Rodi, da turista curioso che si muove in un multiforme giardino dove ortodossi, musulmani, ebrei e cattolici; greci, crociati, veneziani ed ottomani hanno saputo per lungo tempo vivere fianco a fianco. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

20/09/2010 -  Fabio Romano Rodi

Parto quasi all’improvviso per il Dodecanneso e più precisamente per Rodi, meta eletta per qualche giorno di ferie di questo 2010 dai tratti un poco complicati. Dopo aver speso quasi tutte le mie estati precedenti per i miei studi nei Balcani ed in Medio Oriente, provo una strana sensazione a far vacanze, per la prima volta, nell’Unione europea.

Rodi mi accoglie al tramonto, la mia ora preferita. I raggi scendono lentamente sul mare Egeo, avvolgono le rovine delle acropoli sparse per l’isola, i castelli bizantini prima, e dei cavalieri del Santo Sepolcro poi, che tennero l’isola dal 1309 fino al 1522, quando le armate del Solimano il Magnifico cinsero il loro vittorioso assedio. Gli ultimi raggi si posano con delicatezza sulle belle chiese ortodosse, sulle moschee, sui vari mercati e sui palazzi costruiti dagli italiani nella lunga permanenza sull’isola, dopo l’occupazione giolittiana del Dodecanneso nell’autunno del 1911.

Questo mi affascina di Rodi: il suo essere vera e propria rosa delle nazioni, un multiforme giardino dove ortodossi, musulmani, ebrei e cattolici; greci, crociati, veneziani ed ottomani hanno saputo per lungo tempo vivere fianco a fianco, prima che gli eventi della storia scuotessero le tessere di questo delicato mosaico sociale.

Proprio vicino al mio alloggio trovo la prima testimonianza della dimensione multiculturale e multireligiosa di Rodi. Tra i palazzoni degli alberghi e chiassosi ristoranti si erge infatti, umile e ritirata, la chiesa cattolica di Santa Maria della Vittoria. È qui che incontro Padre John Luke Gregory, frate francescano di origine inglese, nonché unico sacerdote cattolico stabile dell’arcidiocesi rodiota, dove riveste la carica di Vicario generale dell’Arcidiocesi, attualmente sede vacante.

Lo incontriamo prima della messa prefestiva e subito ci fa accomodare nel bel salottino del suo convento, assieme alla sua cagnetta Blacky. Padre John accetta con piacere di rispondere alla mie domande sull’isola e sui cattolici rodioti.

Originario di Sheffield, nell’Inghilterra settentrionale, dopo la laurea in filosofia e teologia al King’s College di Londra, parte per Gerusalemme, dove emette i voti francescani nella Custodia di Terra Santa. Rimarrà in Terra Santa per altri 17 anni, svolgendo diversi incarichi, sia presso il Santo Sepolcro, che presso la curia della Custodia. Sarà proprio quest’ultima ad affidargli 6 anni fa il delicato incarico di diventare il punto di riferimento per il cattolicesimo rodiota. “All’inzio è stato molto difficile” ci confida. “Dovevo imparare il greco moderno e rimettere i piedi la vita pastorale dell’isola. Ma io non sono un secolare, ero stato 17 anni in convento.”

Ciononostante e con l’aiuto della provvidenza, padre John è riuscito sia a rimettere in piedi le 5 chiese cattoliche dell’isola (S. Maria della Vittoria, S.Francesco, S. Anna, Sacro Cuore, e la cappella cattolica del cimitero, lungo la strada costiera tra Rodi e Kalitea), sia a rianimare la comunità dei cattolici dell’isola.

Il cristianesimo a Rodi ha infatti una tradizione antichissima, che risale al viaggio di ritorno di San Paolo da Cipro, databile verso il 58 o 59 d.c. Da allora il cristianesimo non si è mai estinto e neppure la presenza dei frati francescani, che dal 13mo secolo non hanno mai completamente abbandonato l’isola, anche in mezzo alle varie dominazioni che l’hanno controllata e specialmente durante i 390 anni di governo ottomano (1522-1912).

Oggi, la comunità cattolica è composta da alcune migliaia di fedeli, frammentati in numerose nazionalità diverse. Ci sono greci cattolici (spesso madri e mogli di coppie miste), polacchi, latino americani, filippini, francesi, tedeschi ed addirittura vietnamiti, approdati alcuni anni fa sull’isola a seguito del naufragio della nave che li portava in Europa. Forte è anche la presenza degli albanesi, per i quali padre John ha anche organizzato dei corsi gratuiti di lingua per favorirne l’integrazione.

Una vera e propria parrocchia internazionale insomma. E non solo a parole, ma anche nei fatti. Padre John ci parla della sua ultima fatica: la ri-erezione del teatro parrocchiale, chiuso quasi 70 anni fa. Per la sua ristrutturazione ogni comunità nazionale ha contribuito: i fedeli inglesi hanno offerto il palcoscenico, i tedeschi hanno collaborato per una cosa, gli italiani per un'altra...

Già, gli italiani. Ancora vive sono la presenza e la testimonianza dei nostri connazionali, figli e discendenti degli oltre trent’anni in cui l’isola ha fatto parte del Regno d’Italia (1912-1943); un periodo conclusosi con due anni di occupazione nazista, prima della fine della guerra e dell’incorporazione del Dodecanneso nella Grecia nel 1947.

L’occupazione del Dodecanneso, allora ancora parte del moribondo impero ottomano, già profondamente lacerato dalle tensioni nazionaliste dalla rivoluzione dei Giovani turchi del 1908, venne decisa dal governo di Giolitti nell’autunno del 1911, come azione diversiva nella guerra contro gli ottomani per la conquista della Libia, le cui operazioni militari all’interno della Tripolitania non riuscivano ad avanzare. La conquista venne poi sancita dal trattato di Ouchy (Losanna) dell’ottobre 1912, nel quale la potenza perdente riconobbe ai nuovi conquistatori il diritto di occupazione dell’arcipelago del Dodecanneso, clausola poi confermata nel durissimo trattato di pace di Sévres con la Turchia, dall’agosto del 1920. Iniziava così il periodo italiano del Dodecanneso.

“Sin dal loro arrivo gli italiani hanno contribuito alla sviluppo dell’isola, dandole le necessarie infrastrutture”, afferma con ammirazione Padre John. “Hanno posto in essere attività produttive e sviluppo che la dominazione ottomana mai aveva dato all’isola. Hanno ristrutturato la cittadella e i campi archeologici, i palazzi medioevali, le antiche chiese. Hanno costruito le strade sulle quali ancora oggi si cammina rendendo i servizi disponibili per tutti. Più però ancora di questo” aggiunge il francescano, “hanno saputo far coesistere in pace ed armonia ortodossi, musulmani, ebrei e cattolici, tutti assieme. Rodi è stato un capolavoro degli italiani. Io che sono inglese posso dirlo..” conclude, mentre gli ultimi raggi di sole risplendono sulle foto appese sulla parete del salotto del convento. Esse ritraggono il principe Umberto di Savoia e Mons. Ambrogio Acciari arcivescovo di Rodi nei difficili anni della guerra, durante i quali si distinse anche per vari tentativi di opporsi alle deportazioni naziste ed alleviare le sofferenze dei prigionieri in attesa di partire per i lager, passando di nascosto cibo ed acqua.

La stabilità sociale del periodo italiano iniziò però ad incrinarsi con l’avvento del fascismo, che esaltò la posizione strategica dell’isola dal punto di vista militare e sopratutto con l’introduzione delle leggi razziali nel 1938, che costrinsero alla fuga circa metà della antica popolazione ebraica dell’isola. Il pensiero corre alla bella sinagoga Kahal Shalom, posta nel centro del quartiere ebraico di Rodi, la cosiddetta Juderia, nome spagnoleggiante che richiama l’origine sefardita delle comunità ebraiche rodiote. Mentre padre John parla, mi scorrono davanti alle mente la bella Tevah, visitata al mattino nella sinagoga, il commovente piccolo museo ebraico annesso e le varie targhe di benemerenza agli italiani erette dagli ebrei nella Juderia, ovviamente precedenti al periodo delle leggi razziali.

La situazione della comunità israelita rodiota doveva infine sprofondare nell’abisso della Shoah con il luglio del 1944, quando circa 2000 ebrei vennero rastrellati dai nazisti, che dal settembre 1943 avevano preso il controllo dell’isola. Inviati nel campo di sterminio di Auschwitz, solo circa 150 dovevano sopravvivere e una manciata di questi era destinata a fare rientro sull’isola, per potere tenere viva questa presenza storica.

“E con i musulmani?” domando a Padre John. Sull’isola ho infatti notato molte moschee, anche se tutte chiuse e spesso in stati di avanzato abbandono. Mi spiega che ci sono ancora circa 2000 musulmani a Rodi, quasi tutti di origine turca, discendenti delle famiglie che decisero di non abbandonare l’isola nel 1912. Vi è ancora una sola moschea funzionante ed i rapporti con i maomettani sono ottimi. “Pensi che sull’isola di Kos c’è una piccola chiesa cattolica, dove mi reco regolarmente a celebrare. È custodita da una signora, il cui marito è musulmano. Ebbene lui è tra quelli che mi aiutano più di tutti” mi spiega con compiacimento.

Le campane della chiesa suonano il vespro; interrompiamo la nostra chiacchierata per raggiungere i suoi parrocchiani per la preghiera della sera e per la messa prefestiva del Sabato. In chiesa ci sono fedeli di tante nazionalità diverse, oltre ai turisti. Per mantenere l’equilibrio padre Jonh celebra la messa in latino, ed affida le letture alle varie lingue moderne. Finita la celebrazione, fa gli avvisi in diverse lingue, prima di ritirarsi in sacrestia.

Da qui poi, mi fa cenno di seguirlo e mi fa visitare il convento. Nella visita ci accompagna la sua cagnetta Blacky, una trovatella come si addice ad un francescano. Mi mostra la sua bella ed ordinata biblioteca, lo studio, e soprattutto l’archivio. Riorganizzato dai suoi parrocchiani ed in particolare dalla dr.ssa Lucia Conte Jannikis, l’archivio della parrocchia è una vera e propria miniera di informazioni sulla vita cattolica rodiota. Tutto è ordinato, schedato, catalogato con cura ed amore. In particolare quanto afferisce al periodo italiano del Dodecanneso, è raccolto in un armadio di ferro intitolato “Res Italica” .

È qui che ritrovo la memoria storica della vita dei tanti connazionali che abitavano l’isola durante il suo periodo italiano. È qui che ritrovo la memoria di un esodo di cui poco si parla nella storiografia: quello degli italiani dell’Egeo, che hanno abbandonato il Dodecanneso e tutti i loro beni alla fine della guerra ed all’incorporazione dell’arcipelago nel turbolento, rinascente stato Greco.

Fu proprio l’esodo silenzioso e poco noto degli italiani di Rodi ad iniziare un lungo periodo di declino per la Rodi cattolica, testimoniato anche dalla fine delle diverse attività della comunità e dall’incombente rischio dell’oblio.

Un rischio acuito anche dai non semplici rapporti con le maggioranza greco ortodossa sull’isola. “Quando sono arrivato qui, 6 anni fa, la comunità ortodossa e quella cattolica erano molto distanti tra loro” ci conferma Padre John. Grazie tuttavia ad un umile ma incessante impegno ecumenico a 360 gradi ora invece le cose vanno bene e ci sono ottimi rapporti col metropolita ortodosso di Rodi, che non manca di rendere partecipe il rappresentante cattolico in tutte le cerimonie ufficiali.

Si è ormai fatto buio, è tempo di salutare padre John. Ci avviamo verso l’uscita della chiesa non prima però di avere visitato il ri-erigendo teatro, che il 28 agosto sarà riaperto e d ospiterà il primo spettacolo e la sala del presepio. Ci salutiamo al cancello della chiesa e mi rituffo nelle vie trafficate e sovrappopolate dell’isola, facendomi strada tra nugoli di turisti accaldati e flottiglie di svedesi abbrustolite dal sole egeo.

È calata ormai la notte. Le chiese, le moschee, le sinagoghe, le vestigia dei cavalieri giovanniti, i castelli bizantini vengono avvolte dall’oscurità, e dal suono del lento scorrere della risacca, mentre si accendono le luci della vita notturna dell’isola.

Salgo sulla torre dell’orologio, il punto più alto della città e ammiro il cielo di questa piccola Gerusalemme dell’Egeo.


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