Un'anziana di Plavno

Tra gli anziani dei villaggi attorno a Knin, Croazia. Un breve racconto su di una delle tappe di un recente viaggio che Davide Sighele, dell'Osservatorio sui Balcani, e Daniele Dainelli, dell'Agenzia Contrasto, hanno fatto attraverso i Balcani.

26/08/2003 -  Davide Sighele

Nei villaggi vicino a Knin, Croazia, non sono pochi i serbi rientrati a vivere nelle proprie case. Non temono più per la loro incolumità e molta della tensione che vi era negli anni successivi all'Operazione Tempesta, grazie alla quale l'esercito croato nel 1995 riconquistò i territori delle Krajne sino ad allora controllati dai serbi, è stata finalmente sciolta. Sono però rientrati quasi esclusivamente gli anziani. I loro figli e nipoti hanno scelto di rimanere in Serbia o all'estero. Perché nella regione di Knin non vi è ancora alcuna prospettiva di lavoro. Negli ultimi anni ritornano solo per qualche settimana, d'estate. E' l'unico momento in cui le famiglie si riuniscono e la solitudine durata l'intero inverno s'interrompe. In questo breve racconto tre immagini di tre incontri, avvenuti nei villaggi attorno a Knin. Tre incontri con tre donne, tutte e tre con lo stesso nome, Anđelka. Anziane rientrate nel 1997 e nel 1998 dopo aver dovuto abbandonare le proprie case nell'estate del 1995. Tutte e tre straziate dalla voglia di rimanere nei luoghi dove hanno vissuto gran parte della vita e dalla solitudine e distanza dai propri cari che questa scelta ha implicato.

Anđelka. Angelica. Per tre volte.

"Aspetto la terra, che mi accolga". Il passo è attento ma affaticato. Dondolante. Lungo una strada sterrata erta e piena di sassi. Anđelka apre il cancello poi lo richiude dietro a sé. Il battente fissato con un filo di ferro. Poi cammina lungo tutta la lunghezza di una casa a due piani, su di un marciapiede di cemento che la stringe tutt'intorno. "Mi sono rotta un'anca , cadendo, da allora dondolo". Anđelka. Dal giardino di fronte alla sua casa s'allunga un sentierino di terra battuta. S'alza di qualche metro, poi un altro cancello. Per evitare che le bestie entrino nell'orto. Poi due edifici bassi, muri in pietra, quasi a secco. All'interno una cura oramai del passato, pian piano dominata dall'umidità e dalla fatica degli anni. "Mucche è da un po' che non ne ho più, però ho alcune galline ed una capra". Anđelka si piega ed accarezza un cane alla catena. Poi si sofferma, chinata, e con il braccio obeso trattiene la catena. Per farmi passare. Ritorniamo di fronte alla casa. Al fianco dell'orto un letto, con un testiera in metallo. Tra pomodori e cetrioli. A garantire un po' di intimità le piante oramai alte di granoturco. Anđelka s'accoccola lì quando di notte il caldo si fa insopportabile. "Ma per me non resta che la terra. Aspetto e spero sia il prima possibile". Anđelka ha posato la sua fatica su di un muretto. Mi mostra le foto dei figli e dei nipoti. Tutti in Australia. Non li vede da quando sono partiti, alcuni anni fa. Li sente a volte per telefono, sino a quando, come dice lei, "andrò finalmente sottoterra".
"Mi chiamo Anđelka". Un nome che è come un sorso d'acqua, limpida. Il corpo si ritrae leggermente, in modo delicato. Un corpo minuto, coperto di nero. Asciugato come la terra carsica. Solo gli occhi azzurri rimangono fonti che ancora traspirano attimi di seduzione. La cucina di qualche manciata di metri quadrati, dove Anđelka è seduta, è bianca. Le tende alla finestra ed alla porta sono troppo leggere per trattenere fuori il sole. S'apre su di una terrazza in cemento armato. Scale ripide senza ringhiera scendono in un cortile interno che racchiude tra le sue mura l'odore del letame. Sulla terrazza un tavolino in legno laccato d'azzurro, alcuni secchi d'acqua e dei vasi di fiori. Al fianco dei fiori la nipote di Anđelka. Con i suoi stessi occhi e la pelle piena. Abita con la madre a Belgrado. Hanno abbandonato Golubic quando è arrivata la guerra. Anđelka è così rimasta da sola e trascorre l'inverno aspettando i venti giorni pieni di sole, aspettando d'accarezzare quella pelle piena. Accarezzare. Anđelka stringe a sé la nipote. "Lei è i miei occhi". Le smuove dolcemente i capelli.

Una strada diritta. Due corsie che interrompono lo sguardo ed il paesaggio. Da una parte il cielo, vigneti bassi e pietre. Dall'altra finestre vuote che guardano l'azzurro sbiadito dalla calura. Alcuni edifici disposti a ferro di cavallo. Dalla loro rovina è stato risparmiato un albero. Sotto, su di una panchina siedono tre anziani. Anđelka è tra di loro. Fissa la linea che separa vigne e cielo. "Questa non è la mia casa. Abito qualche via più in là. Posso rientrare solo durante l'estate perché nessuno me l'ha mai ricostruita". Anđelka mi parla e con la coda dell'occhio osserva la sua amica e Daniele che la fotografa. Sorride. Fa finta di niente ma è un po' gelosa. Tra le mani ha un paio di occhiali da vista, li indossa e poi apre una busta. Un foglio scritto con caratteri cirillici. Legge per poi riporre in fretta tutto in grembo. "Durante l'inverno ritorno in Serbia dove mia figlia è riparata dopo l'Operazione Tempesta. Ma vorrei poter rimanere qui. Lo farò quanto mi risistemeranno la casa". La coda dell'occhio ancora su Daniele e poi sull'amica che si ricopre con le mani il viso. Un po' per la vergogna, un po' per giocare a nascondino. "Ti fotografano perché sei a casa tua" le dice Anđelka "quando sarò a casa mia fotograferanno pure me". Strappa un lembo di carta dalla busta, indossa nuovamente gli occhiali. E scrive in caratteri maiuscoli. ANĐELKA. E poi il suo indirizzo. Tre vie più in là.
Per tre volte Anđelka.


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