Profughi al confine tra Serbia e Croazia (foto Trocaire)

Profughi al confine tra Serbia e Croazia (foto Trocaire )

Due anni dopo il suo ingresso nell'Unione europea, la Croazia ha visto arrivare le prime ondate di profughi e migranti. Col cambio di governo nel 2016 le prime manifestazioni di accoglienza hanno lasciato il posto a respingimenti e violenza

20/06/2018 -  Francesca Rolandi

Nel 2015, per la prima volta nella sua storia recente, la Croazia si è confrontata con un consistente flusso di profughi provenienti da altri continenti. L’attenzione internazionale era allora puntata sull’apertura della “rotta balcanica”, una direttrice di passaggio lungo la dorsale della penisola che era peraltro sempre esistita, sotto traccia, dal secondo dopoguerra in poi. Nel settembre del 2015 la costruzione del muro alla frontiera tra la Serbia e l’Ungheria ha deviato il flusso di profughi attraverso la Croazia, la Slovenia e l’Austria, fino alla Germania, che aveva da poco accettato di sospendere temporaneamente gli accordi di Dublino. In breve, diverse migliaia di persone al giorno hanno iniziato ad attraversare il confine tra la Croazia e la Serbia. In un contesto europeo in cui la parola d’ordine della solidarietà era prevalente, Zagabria non faceva eccezione, mostrando il suo volto umano ai profughi che entravano nel paese.

Aiuti ai profughi

“Aiutiamo chi è in fuga da guerre e povertà”, aveva dichiarato prontamente il primo ministro socialdemocratico Zoran Milanović. Il ministro dell’Interno Ranko Ostojić si era particolarmente speso per garantire un transito sicuro. “Salam aleykum, my name is Ranko”, si poteva sentirlo pronunciare in un video in cui accoglieva i profughi alla frontiera. Lo stesso governo diffondeva sul suo account Twitter fotografie di poliziotti che prestavano soccorso ai bambini arrivati esausti dal viaggio. Le dichiarazioni di solidarietà erano arrivate anche da dove meno ce le si sarebbe aspettate, come il controverso sindaco di Zagabria Milan Bandić, che aveva invitato i suoi concittadini ad accogliere le famiglie di profughi. A complimentarsi con l’operato della polizia erano stati in molti, sia nel paese che all’estero, mentre aleggiava un confronto più o meno esplicito con l’approccio brutale del governo ungherese.

Si era parlato di un senso di identificazione tra i cittadini croati, che avevano sofferto sulla propria pelle l’esperienza della profuganza, e coloro che fuggivano dalle guerre in Medio Oriente. Il parallelismo era ancora più forte dal momento che il passaggio dei profughi avveniva in gran parte nella regione di Vukovar e dello Srijem, che era stata investita in pieno dalla guerra degli anni ‘90 e reintegrata gradualmente tra il 1996 e il 1998. Il Centro croato per lo sminamento aveva diffuso una mappa dei terreni a rischio mine per evitare che si verificassero incidenti mortali durante il transito.

Cambio di rotta

La situazione è mutata gradualmente già dall’inverno 2015-2016, quando sono iniziati ad aumentare i respingimenti di profughi non siriani dalla Croazia alla vicina Serbia. A chi viaggiava in treno tra Zagabria e Belgrado poteva capitare di accorgersi, arrivato a destinazione, che in una delle carrozze erano stati stipati coloro che erano stati respinti alla frontiera. A marzo 2016 la chiusura della rotta balcanica, decisa a catena dai paesi dell’area, e la firma del trattato tra Unione Europea e Turchia, avevano messo fine al flusso legale di profughi. 658.068 profughi avevano attraversato la Croazia nel corso di pochi mesi, ma il loro flusso era destinato a continuare. I trafficanti hanno prontamente riproposto i loro servizi a chi era rimasto bloccato nella penisola dalla chiusura dei confini e a chi continuava, pur se in numeri minori, ad arrivare.

La Croazia, che da gennaio 2016 era governata dall’alleanza HDZ – Most, ha iniziato così a tutelare le frontiere esterne dell’Unione europea, ricorrendo di frequente a respingimenti illegali e alla violenza. Numerosi report prodotti sia da ong croate, come il Center for Peace Studies, Are you syrious?, No name Kitchen, sia da organizzazioni internazionali, come Medici senza frontiere e Amnesty International , hanno documentato l’uso sistematico della violenza da parte della polizia di frontiera croata. Il portale Border violence monitoring ha raccolto un’impressionante quantità di testimonianze, corredate da fotografie.

Una volta fermati dalla polizia, i profughi venivano picchiati, minacciati di morte, derubati del denaro e dei telefoni cellulari, sottoposti ad umiliazioni e torture, quali essere costretti a piedi nudi nella neve, rimandati a forza in Serbia senza aver la possibilità di presentare richiesta di asilo. 3242 persone sono state espulse nel 2017 dalla Croazia, molte delle quali senza aver potuto appellarsi al diritto d’asilo. Che l’uso della violenza non sia un’eccezione ma una prassi consolidata è provato dal numero di testimonianze raccolte tra coloro che hanno tentato, a volte ripetutamente, di entrare in Croazia. Di recente Human Rights Watch ha invitato il Consiglio per i diritti dei bambini dell’ONU a indagare l’approccio croato verso i minori profughi, denunciando l’uso della violenza e l’utilizzo di strutture non adeguate, in molti casi di tipo detentivo. Alle denunce le autorità croate hanno risposto negando le accuse mentre l'Unione europea non si è espressa.

La piccola Madina e i profughi minori

Paradossalmente, invece, la Corte di giustizia europea ha condannato Zagabria nel 2017 per aver infranto il regolamento di Dublino, permettendo ai profughi sprovvisti di documenti di raggiungere la Slovenia, mentre avrebbe avuto la responsabilità di analizzare le loro domande di asilo.

D’altra parte la Croazia, dove nel settembre 2016 ha vinto le elezioni anticipate e formato un governo Andrej Plenković, rappresentante dell’area moderata del partito di centro-destra HDZ, ha evitato di opporsi frontalmente alle politiche europee in tema di ridistribuzione, al contrario dei paesi del gruppo di Visegrad. Riducendo al minimo i suoi impegni, ha accolto alcune decine di profughi dalla Turchia, offrendo così un gesto di collaborazione e utilizzando allo stesso tempo la violenza ai confini a scopi dissuasivi.

L’ambiguità della politica croata si è manifestata con forza nel novembre 2017, quando le politiche di controllo delle frontiere hanno portato alla morte di una bambina afgana di 6 anni, Madina Hussiny. Madina e la sua famiglia, composta di 11 figli, molti dei quali minori, stavano cercando di attraversare la frontiera tra Serbia e Croazia, quando sono stati respinti illegalmente dalla polizia croata. Nel tragitto all’inverso, in una notte d’inverno, la piccola Madina è stata investita da un treno. Dopo la tragedia le autorità di Croazia e Serbia hanno agito nei confronti dei familiari della piccola vittima senza mostrare un briciolo di umanità. La famiglia, che al momento dell’incidente era stata separata da Madina, ha potuto rivedere il corpo solo dopo alcuni giorni, a Belgrado. Secondo le loro testimonianze il suo volto era ancora coperto di fango. “Si sono comportati con lei come con un cane” avrebbe detto in seguito la sorella, intervistata dal The Guardian , che con un dettagliato reportage ha dato risalto internazionale alla vicenda. Dopo diversi tentativi la famiglia è infine riuscita ad entrare in territorio croato e a presentare domanda di asilo, ma è stata immediatamente rinchiusa nel centro di Tovarnik, dove ha trascorso 75 giorni in uno stato di detenzione. I familiari di Madina, che subito dopo l’incidente avevano sporto una denuncia contro la polizia croata con il supporto del Center for peace studies, si sono appellati durante la detenzione al Consiglio europeo per i diritti umani che per tre volte ha ingiunto alla Croazia di ricollocare la famiglia in un centro consono alla presenza di minori.

Alla fine di maggio del 2018 un altro episodio ha visto due bambini cadere vittime di un’operazione legata al controllo delle frontiere. Sul territorio di Donj Srb, vicino al confine con la Bosnia Erzegovina, la polizia croata ha sparato contro un furgone, guidato da un trafficante, che non si era fermato ai tentativi di bloccarlo da parte della polizia. Dopo la sparatoria, al suo interno sono stati trovati 29 profughi, tra i quali molti minori, due dei quali feriti da armi da fuoco. Uno dei due bambini, di 12 anni, ha subito la ricostruzione della mascella, trapassata da un proiettile. Il trafficante, che si era inizialmente dileguato, è stato successivamente arrestato. Sebbene uno dei poliziotti abbia dichiarato di aver sparato per legittima difesa poiché il conducente si sarebbe diretto a tutta velocità contro di lui, non è chiaro perché non siano stati utilizzati altri mezzi per fermare il furgone. Altri profughi hanno perso la vita negli ultimi mesi sulla rotta balcanica, ufficialmente chiusa. Almeno quattro di loro sono annegati nel tentativo di varcare il fiume Kupa, al confine tra Croazia e Slovenia, dove Lubiana alcuni anni fa aveva eretto la barriera di filo spinato.

Zagabria barriera UE

Rispetto alle polemiche sorte in tutti questi casi, il ministro dell’Interno Davor Božinović ha declinato ogni responsabilità, sottolineando la necessità di controllare le frontiere e adempiere alle condizioni tecniche poste dall’Unione europea per entrare nello spazio Schengen, a cui la Croazia spera di accedere nel 2019. All’insistenza sul rispetto della legalità nel fermare il flusso di quelli che sono ormai definiti “migranti illegali” si oppone il comportamento della polizia, che di prassi con i profughi opera al di fuori di qualsiasi forma di legittimità giuridica attraverso l’uso della violenza e impedendo l’esercizio del diritto di asilo. In questo contesto il ministero dell’Interno ha iniziato a esercitare pressioni contro le ong Centar for Peace Studies e Are you Syrious?, colpevoli di aver sostenuto la famiglia Hussiny nel suo tentativo di ottenere giustizia per la morte di Madina, spingendosi fino ad accusarle di avere legami con i trafficanti.

La Croazia indipendente ha iniziato a dotarsi di una legge sull’asilo nel 2003 , ma ha visto aumentare il numero di richiedenti asilo solo una decina di anni dopo, alla vigilia del suo ingresso nell’Unione Europea. La maggior parte degli sforzi, su pressioni sia interne che esterne, sono stati indirizzati alla creazione di meccanismi per ridurre la permeabilità delle frontiere e restringere l’applicazione del diritto d’asilo. Dal 2015 in poi, le politiche croate hanno riflesso in linea generale gli orientamenti della politica europea, passando dalla volontà di garantire un passaggio sicuro verso la Germania alla criminalizzazione della solidarietà.

Da alcuni mesi sui media croati si alternano previsioni su ingenti flussi in arrivo sulla rotta balcanica durante l’estate ed è stata menzionata la possibilità, poi smentita dal ministero dell’Interno, che l’esercito croato avrebbe presidiato le frontiere su pressione austriaca. Mostrandosi collaborativa nei confronti di Bruxelles, Zagabria si presta a giocare il suo ruolo di protettore, anche attraverso il lavoro sporco, delle frontiere esterne dell’Unione Europea e delle sue politiche. Politiche di chiusura e panico che, come Boris Pavelić ha sottolineato in un editoriale sul quotidiano Novi List , sembrerebbero portare inequivocabilmente verso il razzismo e lo spargimento di sangue.


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