La pratica era diffusa e formalmente legale: scambi di terreni e proprietà tra privati e Stato. Nei fatti si è trasformata in una ''rapina'' del territorio e del bene pubblico. Ora Bruxelles chiede alla Bulgaria spiegazioni e minaccia sanzioni

16/02/2010 -  Francesco Martino Sofia

Lo scorso 3 febbraio il governo di Sofia riceve una missiva dalla Direzione “Concorrenza” della Commissione europea. Nella lettera, resa pubblica dal premier Boyko Borisov il giorno stesso, Bruxelles minaccia multe alla Bulgaria tra i 55 e i 126 milioni di euro per quindici casi di “scambio” di terreni boschivi approvati dal ministero dell'Agricoltura bulgaro all'inizio del 2009.

Se si prendono però in considerazioni tutti gli “scambi” approvati a partire dall'ingresso del paese nell'Unione nel gennaio 2007 (più di 300, secondo le stime), ha aggiunto Borisov, l'entità delle multe potrebbe lambire la vertiginosa cifra di 800 milioni di euro.

Il caso si è fatto presto strada sino ad arrivare alle edizioni serali dei tg e sulle prime pagine dei quotidiani. Borisov ha accusato il precedente esecutivo, guidato dal socialista Sergey Stanishev, di dirette responsabilità penali e si è messo alla ricerca, in modo piuttosto confuso, di una via d'uscita dalla scomoda situazione.

Ma cosa sono gli “scambi”, e perché la Commissione li reputa illegittimi?

Gli “scambi” di terreni (boschivi, ma anche agricoli) - divenuti in questi anni uno dei casi più discussi di spartizione privata del bene pubblico, fino a guadagnarsi il ruolo di simbolo stesso del fenomeno - nascono in origine per rispondere ad un problema nato con la transizione verso l'economia di mercato. Con lo smantellamento della nazionalizzazione forzata di epoca comunista, dopo il 1990, lo stato decide di restituire ai proprietari originali le terre requisite ai privati dal regime.

I nuovi-vecchi proprietari, però, spesso si vedono restituire terreni ormai frammentati, spezzettati, lontani uno dall'altro. Per rendere più facile e sostenibile l'amministrazione dei terreni, si decide quindi di rendere possibile uno “scambio” di terreni tra privati e stato, che favorisca l'accorpamento di proprietà altrimenti troppo disperse sul territorio.

Una buona idea, che si trasforma in fretta in uno strumento di rapina del territorio. Molti businessman sono lesti a fiutare l'affare e iniziano a proporre “scambi” tra terreni marginali e proprietà invece che si trovano in posizioni strategiche, soprattutto sulla costa del Mar Nero e nelle località di montagna, nella prospettiva di futuri investimenti nel campo del turismo.

“Dare una gallina per un cavallo”, sentenzia un antico proverbio bulgaro, e in effetti per chi riesce a vedersi approvato lo scambio i vantaggi sono spesso enormi e immediati. Il regolamento utilizzato per stabilire il valore dei terreni scambiati, infatti, non prende in considerazione, se non in modo molto parziale, le potenzialità di investimento economico, ma solo il valore del bosco in sé. Proprietà periferiche vengono quindi giudicate di valore equivalente ad appetitosi terreni a un passo dalla spiaggia, o in zone dal forte potenziale di sviluppo turistico invernale.

Lo stesso regolamento rende poi possibile, a prezzo di una sovrattassa, il cambiamento di destinazione d'uso dell'appezzamento scambiato, con la possibilità di costruire hotel, villaggi turistici, campi da golf. Operazioni che, se da una parte vanno ad intaccare alcune delle zone naturalistiche più belle del paese, dall'altra fanno lievitare esponenzialmente il valore del terreno.

Il fenomeno degli “scambi”, avvenuto in questi anni nel rispetto formale delle norme, ha causato allo stato bulgaro perdite difficilmente quantificabili, ma sicuramente enormi. Per fare un esempio, documentato dalla coalizione ambientalista “Perché sopravviva la natura in Bulgaria”, il solo “scambio” approvato al magnate dell'industria mineraria Hristo Kovachki, che ha ricevuto terreni nel territorio del massiccio della Rila, dove intende realizzare impianti sciistici, sarebbe costato alla collettività dai 28 ai 270 milioni di euro.

“Questo sistema ha rappresentato anche un forte volano alla corruzione”, ha dichiarato ad OBC Stefan Avramov, della stessa coalizione ambientalista. “Per gli 'scambi', infatti, non è stato previsto alcun tipo di concorso e il grado di discrezione dei funzionari chiamati ad approvare o meno la procedura è rimasto altissimo”.

Per anni la spartizione delle risorse naturali da parte di gran parte dell'élite economica e politica è andato avanti senza troppi imbarazzi. Nel 2008, uno degli anni d'oro per numero di “scambi”, un rappresentante del mondo del business è arrivato ad argomentare pubblicamente sul quotidiano “Monitor” che gli scambi erano solo un mezzo “per evitare le lungaggini burocratiche e i prezzi di mercato artificialmente alti delle proprietà”. Tradotto: perché comprare a prezzi reali dai privati, quando lo stato è disposto a scambiare a prezzi infinitamente più bassi?

Allertata dalle associazioni ambientaliste, Bruxelles ha cominciato a chiedere spiegazioni fin dall'estate 2008, prefigurando l'infrazione di “finanziamento pubblico non regolamentato” alle fortunate società e persone fisiche che hanno avuto accesso alla discussa procedura dello scambio. Pressato dalla Commissione e dagli ambientalisti, nel gennaio 2009 il governo Stanishev ha approvato una legge che, di fatto, ha messo fine alla possibilità di effettuare scambi di terreni.

Il problema è che le conseguenze degli scambi avvenuti nel passato continuano ad avere effetto ancora oggi. Chi ha acquisito un terreno scambiandolo a prezzo “calmierato” infatti, continua ad avere un vantaggio strategico su chiunque, bulgaro o straniero, sia oggi costretto ad acquistare ai prezzi (artificialmente alti!) di mercato, senza poter utilizzare la gallina d'oro degli “scambi”.

Il governo Borisov ha tempo fino al 2 marzo per presentare la propria posizione a Bruxelles. La prima linea di difesa elaborata dall'esecutivo, dimostrare cioè che gli “scambi” non rappresentano finanziamenti illegali, ma un reato di cui devono rispondere i diretti responsabili, è stata presto scartata. Tutto, infatti, è avvenuto secondo le (discutibili) norme di legge. Bisognerebbe quindi dimostrare che ampie articolazioni all'interno dello stato stesso hanno agito per anni in modo criminale...

La strada più facilmente percorribile, secondo Dimo Gyaurov, presidente della Commissione parlamentare anti-corruzione, citato dal settimanale Kapital, sarebbe ammettere la responsabilità e di insistere perché chi ha goduto della manna degli “scambi” restituisca il maltolto, in forma monetaria o con l'annullamento della transazione.

Un approccio del genere nasconde però due sfide a dir poco impegnative. La prima è di carattere giuridico: chi ha usufruito degli scambi probabilmente farà ricorso al tribunale, dando vita a processi che solitamente durano anni, mentre la Commissione richiede in questi casi reazioni “immediate ed effettive”.

La seconda sfida è tutta politica. Come detto, larga parte dell'élite sorta negli anni della transizione ha attinto a piene mani dalle risorse della collettività, proprio attraverso meccanismi simili a quelli degli “scambi”. Il governo Borisov dovrebbe oggi battersi perché molti dei nomi che controllano economia, media, politica in Bulgaria restituiscano decine, se non centinaia di milioni. Una mossa forse inevitabile nel nuovo contesto europeo, ma che l'esecutivo potrebbe pagare a caro prezzo in casa propria.


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