Prima apparizione di Vinko Martinović di ritorno a Mostar su FTV (Foto Michele Biava)

Prima apparizione di Vinko Martinović di ritorno a Mostar su FTV (Foto Michele Biava)

Condannato dal Tribunale dell'Aja a 18 anni di carcere per crimini commessi a Mostar durante la guerra, Vinko Martinović è ritornato in città dopo aver usufruito di un rilevante sconto di pena. Il peso del passato sulle sponde della Neretva

09/02/2012 -  Maja Husejić Mostar

Il 9 gennaio 2012 la notizia che al criminale di guerra Vinko Martinović - Štela - era stato accordato lo sconto di pena pari ad un terzo rispetto ai 18 anni di condanna previsti, è arrivata in Bosnia Erzegovina attraverso i media nazionali e quelli della vicina Croazia. Fu proprio la Croazia a consegnarlo all’Aja nel ’99 dopo l’arresto per l’omicidio di un’infermiera di Mostar e per l’appropriazione indebita del suo immobile.

Vinko Martinović non si è consegnato volontariamente e non ha mai collaborato con il Tribunale Penale Internazionale (TPI) durante il processo. Dichiararsi “non colpevole” è tutto ciò che avesse da dire alla Corte, come all’umanità che lo stava guardando.

All'Aja, per smontare la sua presunta innocenza, si sono presentate 84 persone. 84 testimoni hanno parlato degli orrori a cui hanno assistito e di cui sono stati vittime, dando voce a tutti gli altri che non potevano più testimoniare e consentendo di ricostruire un’altra pagina del conflitto che ha devastato la BiH negli anni '90.

Campi di concentramento e scudi umani

Le accuse a carico di Štela e del suo superiore Mladen Naletilić – Tuta - si riferiscono al periodo che va da aprile ‘93 a marzo ‘94, e ai fatti accaduti nelle località di Jablanica, Mostar, Široki Brijeg, Ljubuški, Čapljina, Stolac; il primo guidava l’unità speciale “Vinko Škrobo”, il secondo era al comando del temuto battaglione “Kažnjenička bojna” (battaglione dei condannati) di cui l’unità speciale era una ramificazione. Entrambe le formazioni erano inquadrate nell'HVO (Consiglio croato di difesa).

Heliodrom, Gabela, Dretelj, Duhanska stanica di Lištica (l’odierna Široki Brijeg), sono solo alcuni dei centri di detenzione per migliaia di civili e prigionieri di guerra prelevati per strada, dalle loro case o durante i combattimenti in quell’infelice e tetro periodo che ha visto a Mostar il suo scenario peggiore.

Bulevar, l’arteria principale della città, era diventata la linea del fronte nonché zona di controllo e di operazione dell’unità speciale di Štela; Heliodrom invece un centro di rifornimento di manodopera a nessun costo. Quotidianamente i camion caricavano gli internati e li distribuivano lungo la linea dei combattimenti, nelle officine e, se si era “fortunati”, a lavorare nelle proprietà di “quelli che contavano”, per costruirvi piscine e scavare canali, oppure a saccheggiare, sempre sotto supervisione di Štela e dei suoi uomini o di altri capi banda, le case vuote dei musulmani in quella grossa fetta occidentale della città ormai “ripulita” della loro presenza.

L’arteria trafficata di una città pulsante, quale era Mostar soltanto tredici mesi prima, si era trasformata così in un campo di battaglia e una delle zone con la più alta probabilità di morte violenta. Sulla linea del fronte, sotto il fuoco incrociato, i prigionieri mostarini sono stati usati come scudi umani, costretti a trasportare sacchi, feriti e morti, sono stati obbligati a vestire divise dell’esercito croato e andare all’attacco delle posizioni dell’Armija BiH con fucili di legno. Raccontano alcuni ex internati che nel campo, all’ora della partenza, litigassero tra di loro perché nessuno voleva salire su quei camion che conducevano proprio lì, incontro alla morte.

La buona condotta dell’assassino

Per le loro posizioni gerarchiche all’interno dell’esercito, per i fatti sopra descritti e per altri ancora, come l’omicidio del poliziotto Nenad Harmandić, anch’egli internato, massacrato di botte per giorni interi e finito con un colpo di pistola per conti in sospeso dai tempi di pace, Martinović e  Naletilić sono stati condannati dal TPI nel marzo 2003 e riconosciuti colpevoli di crimini contro l’umanità (omicidio, persecuzione, atti inumani), violazione della Convenzione di Ginevra del 1949 e mancato rispetto delle leggi e degli usi nei conflitti armati. Al primo è stata inflitta una pena di 18 anni, 20 per il secondo.

Lo stesso Tribunale Internazionale, seguendo le indicazioni secondo cui il detenuto risultava “in buona misura riabilitato” fornite dal direttore del carcere di Ancona in cui Štela era recluso dal 2008, gli ha poi riconosciuto uno sconto sulla pena di 6 anni. Con volo regolare da Budapest, Vinko Martinović – Štela è atterrato a Sarajevo mercoledì 1 febbraio. Da qui ha proseguito verso Mostar dove, pare, abbia intenzione di ristabilirsi.

Ritorno sul luogo del delitto

Difficile spiegare il concetto di “riabilitazione” di un criminale di guerra alle vittime della sua barbarie e a coloro che, loro malgrado, sono tornati ad essere suoi concittadini. Nel saperlo di nuovo nel quartiere accanto o “da quella parte” della città, non pochi tra quelli che hanno testimoniato, e i rari che furono suoi oppositori, di certo non faranno sonni tranquilli. Il criminale di guerra, Štela, l’ex tassista con la licenza media, diventato padrone assoluto della città al tempo del male, assassino anche a guerra finita e mai pentitosi, è tornato in città, sul luogo del delitto.

La Mostar di oggi, spaccata nel suo tessuto urbano e lacerata in quello sociale, stenta a ridestarsi, resta ancora ostaggio di quella violenza, perché sotto molti aspetti, non ne è che il prodotto.

I  crimini di Vinko Martinović sono stati soppesati dalla bilancia della giustizia internazionale, ed egli è stato condannato tenendo conto dei tempi che correvano. La condanna per i crimini contro l’umanità è stata possibile in quanto è stato riconosciuto un contesto di conflitto internazionale. Ma quale peso i suoi atti e quelli dei suoi uomini hanno avuto del determinare non soltanto i destini di alcune persone ma le sorti della città stessa?

La linea del Bulevar

Personaggi come Štela con i loro atti violenti hanno influito profondamente nel creare quella distanza che ancora oggi intercorre tra le due comunità nazionali, la divisione invisibile che viene alla luce tutte le volte  che, per semplice abitudine, o con consapevole rancore, si dice “da quella parte”, riferendosi ad alcuni quartieri di Mostar prendendo come demarcazione il Bulevar, la (ex) linea del fronte.

Le vittime della sua barbarie e coloro che se lo ritrovano in una città che molti si sforzano a pensare di nuovo o nonostante tutto unita, non si aspettano di vedere i segnali di riabilitazione di un urbicida. Sanno che non ce ne saranno e ricordano troppo bene, parafrasando Hannah Arendt, che in fondo lui e la società per conto della quale ha combattuto erano in perfetta armonia.

Il giorno in cui Štela è tornato, a Mostar è stata disinnescata una bomba della Seconda guerra mondiale. Col suo rientro in città è stato piazzato un nuovo ordigno, residuato bellico parzialmente inesploso degli anni ’90.


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