Ragazzi bosniaci affidati ad un orfanotrofio negli anni della guerra e poi trasferiti in Italia. Ora è qui che vivono e si sentono italiani, pur mantenendo una salda radice culturale bosniaca. Alcuni desiderano tornare, ma non per sempre

24/05/2005 -  Anonymous User

Di Selma Lemo, Nezavisne Nedeljne Novine, maggio 2005 (tit. orig. Nasa domovina je Italija, a ne Bosna)
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Ivana Telebak

Degli ex ospiti dell'orfanotrofio sarajevese "Bjelave", che tredici anni fa furono portati dalla Bosnia in Italia, 46 di loro sono oggi persone adulte, soddisfatte della loro vita e di quanto sono riusciti a raggiungere in questi anni.

Quasi tutti i ragazzi, nonostante vogliano bene alla Bosnia, non desiderano tornare a casa. Dicono che l'Italia è la loro patria e che vi hanno trascorso gli anni più belli, ma anche più difficili, della loro vita.

"La mia vita è in Italia"

La venticinquenne S.T.M. ha avuto la fortuna o la sfortuna di lasciare Sarajevo insieme ai suoi amici dell'orfanotrofio di "Bjelave" all'inizio della guerra e di andare in Italia. Dice che all'epoca aveva soltanto 12 anni e che ricorda in modo "annebbiato" il giorno in cui lasciò l'orfanotrofio, allora chiamato "Ljubica Ivezic".

"Non so neanch'io come si sia svolto il nostro trasferimento. Mi ricordo che siamo stati portati con l'autobus fino a Spalato. Da Spalato ci hanno spostato a Milano, dove ci siamo fermati tre giorni. Poi siamo stati trasferiti a Rimini alla comunità delle suore. Là ho trascorso sette anni. Ho terminato la scuola. Quando ho compiuto 18 anni, mi sono staccata dalle suore. Ho iniziato a vivere da sola sotto la sorveglianza degli assistenti sociali", racconta S.T.M.

Da quando è in Italia, non ha nessun contatto con la famiglia in BiH.

"So che mia madre vive a Vitez. Mio padre è morto nel 1991. La nonna e il nonno, da parte di padre e di madre, durante la guerra sono fuggiti dalla Bosnia in Danimarca. Ci siamo parlati qualche volta al telefono, ma oggi non ho nessun contatto con loro", ha detto S.T.M.

Dice che dopo 13 anni di soggiorno in Italia non si è mai incontrata con la madre, né con nessun membro della sua famiglia.

"Mia madre mi lasciò nel 1988. Da allora non l'ho più vista. Otto o nove anni dopo che mi aveva lasciato ci siamo parlate alcune volte al telefono. Decisi di non avere più contatti con lei perché non provavo nessun sentimento nei suoi confronti. Durante i nostri discorsi sentivo che anche lei era fredda verso di me. Non c'era più motivo per parlarci e raccontarci stupidaggini al telefono. Sono nata a Bosanska Gradiska. Mia madre mi lasciò dai nonni. Dopo due anni passati da loro, insieme alla madre decisero di lasciarmi all'orfanotrofio. Così quando avevo otto anni mi lasciarono a Bjelave. Mi sentivo in modo terribile. Probabilmente perché ero cresciuta nell'ambito della mia famiglia. So cosa sono la mamma, la nonna, il nonno, le zie... Forse altri bambini che subito dopo la nascita sono andati all'orfanotrofio la pensano diversamente. Dicono che la loro casa è l'orfanotrofio. Io non lo posso dire. Vi ho passato quattro anni e non provo amore per questa istituzione", ha ricordato S.T.M., aggiungendo che all'inizio il soggiorno in Italia è sttao molto difficile.

"Nessuno ci capiva, non sapevamo che cosa volessero da noi. Il fatto che vivevamo con le suore rendeva le cose particolarmente difficili. Come bambini eravamo pieni di energia, desiderosi di uscire, di fare amicizie, di giocare. Le suore erano severe e dovevamo vivere secondo le loro regole. Col passare degli anni ci siamo abituati a quel tipo di vita severa. Ora, che sono adulta, non posso lamentarmi di nulla. Gli educatori dedicavano una particolare attenzione alla nostra istruzione, così a 18 anni ho terminato la scuola. Quando siamo arrivati in Italia, volevamo tornare in BiH. Abbiamo imparato la lingua italiana, abbiamo iniziato a pensare come gli italiani. Così la nostra vita ha iniziato ad essere questa qui, in Italia ed abbiamo continuato a vivere in Italia", spiega S.T.M. E poi dice di non avere desiderio di tornare per sempre in BiH.

"Vorrei andare in Bosnia per una decina di giorni. Trovare gli amici, vedere Sarajevo... Così può essere, ma andarci per sempre, assolutamente no. Adesso la mia vita è in Italia. Mi sono sposata nel 2001 con un italiano. Dopo un anno abbiamo avuto una bambina. Ho lavorato fino alla gravidanza. Ho dovuto smettere di lavorare, perché non abbiamo nessuno a Rimini. Mio marito è del sud dell'Italia e i suoi genitori sono rimasti là. Oggi sono madre, moglie, donna e sono molto felice. Da settembre la bambina andrà all'asilo. Cercherò di trovare un lavoro, perché il nostro obiettivo è di comprare una casa. Veramente non desidero niente di speciale. Sono felice, perché ho la mia famiglia, mio marito e mia figlia", ha detto S.T.M.

"Non ho niente a Sarajevo"

D.J. è una ventitreenne di Sarajevo, lasciata all'orfanotrofio "Bjelave" dai genitori quando era neonata. A causa della guerra e di tutte le disgrazie che nel 1992 sono capitate a Sarajevo, è stata trasferita in Italia.

"Sono arrivata in Italia quando avevo dieci anni. I primi cinque o sei anni li ho passati a Rimini nella comunità delle suore. Dopo aver compiuto 18 anni ho iniziato a vivere da sola in un appartamento. Poi per due anni ho vissuto a Milano. Ho lasciato Rimini perché volevo iniziare a studiare. Siccome era impossibile, ho dovuto lavorare e studiare insieme, sono di nuovo tornata a Rimini, dove vivo tuttora", racconta D.J.

Dice di non ricordarsi del suo arrivo all'orfanotrofio "Bjelave", perché era troppo piccola.

"Sebbene avessi tutto all'orfanotrofio, ero libera, e potevo fare quello che volevo, non mi piaceva per niente. Ero giovane per capire tali cose. Quando sono arrivata in Italia ci hanno sistemato presso una comunità. Le suore ci trattenevano su tutto. Era tragico. Quando me ne sono andata via da loro, ho iniziato a vivere una vita normale. Anche oggi sono soddisfatta", dice D.J., sottolineando che non desidera tornare nella sua città natale, Sarajevo.

"Qua mi trovo bene. Ho degli amici e la vita che ho costruito negli ultimi 13 anni. Che cosa ho a Sarajevo? Se tornassi, dovrei iniziare tutto da capo. Il mio diploma è italiano. Dovrei andare di nuovo a scuola, cercare un lavoro e una nuova compagnia. La mia vita è qua. E' dura ma mi piace", dice D.J.

Come per S.T.M., nemmeno D.J. ha alcun contatto con la sua famiglia.

"Mia madre è morta quando avevo nove anni. Mentre ero a Bjelave, mi faceva visita regolarmente. Non ho mai visto mio padre, né ho mai parlato con lui, e con mio fratello mi incontravo una volta all'anno. Non voglio avere nessun contatto con loro, nonostante siano loro che adesso cercano me. Ho sentito che la nostra nonna di Sarajevo è morta recentemente. Ha lasciato la casa a me e a mio fratello. Adesso lui e mio padre mi stanno cercando per rinunciare alla mia parte, per regalarla a mio fratello. Cercano il contatto con me soltanto per fare i loro interessi. Mi colpisce molto e non voglio avere tale rapporto con loro", è categorica J.D., aggiungendo che da quando è arrivata in Italia ha visitato Sarajevo una sola volta.

"Credo che quest'inverno, se avrò del tempo, andrò di nuovo a Sarajevo per una quindicina di giorni. In Italia mi trovo bene. Ho tanti amici. Ho amici italiani, ma anche con gente della BiH che ha avuto il mio stesso destino. Vivo una vita normale e sono contenta. Presto dovrei iniziare un lavoro stagionale. Non dico che a Sarajevo non mi troverei meglio. Ma i miei amici che hanno deciso di iniziare una vita nuova a Sarajevo hanno vissuto là per un certo periodo, e poi sono tornati di nuovo in Italia", ha detto D.J.

"Ci hanno rapito i bambini"

Nonostante le affermazioni di ragazzi che si trovano bene e che non desiderano tornare alle loro case, Uzeir Kahvic e Silvana Osmanovic- Seferovic, genitori di due dei bambini trasferiti in Italia durante la guerra, hanno fatto causa al governo della BiH per "avergli rapito e venduto i figli". Per questo motivo una squadra di esperti del Consiglio dei ministri dal 18 al 22 aprile ha fatto visita ai ragazzi che nel 1992, durante la guerra, vennero trasferiti in Italia.

Nedzad Mirica, alla guida di questa squadra, ha detto che tutti i ragazzi sono contenti della vita che fanno in Italia, e quindi non desiderano tornare in BiH.

"Grazie alla gente della BiH che li ha ricevuti al loro arrivo in Italia, i ragazzi hanno mantenuto la loro identità e non hanno dimenticato la lingua materna. Alcuni ragazzi sono stati adottati, altri sono in corso di adozione, mentre gli altri vivono autonomi, lavorano, e hanno le loro famiglie. Abbiamo visitato anche l'Istituto vicino a Milano, dove fino al 2001 erano sistemati 34 dei nostri ragazzi. Si tratta di uno degli istituti più belli e migliori per i bambini privi di cura dei genitori, che ci sia in Italia. Abbiamo parlato con i responsabili del Centro milanese per la tutela e con quelli del Tribunale minorile. Dicono che tutti i ragazzi sono protetti e che non si può parlare in alcun modo di una loro "vendita", cosa della quale ci siamo accertati di persona. In questo modo vengono a cadere tutte le affermazioni dei genitori che hanno fatto causa alla BiH", ha dichiarato Mirica, aggiungendo che è stato fatto un accordo con la Commissione per i diritti umani di rendere possibile un incontro dei ragazzi con Uzeir Kahvic e con Solvana Osmanovic-Seferovic, i loro genitori, nel caso in cui ci sia il desiderio da entrambe le parti.

"Nel parlare con le persone del Consolato generale della BiH a Milano, ci siamo messi d'accordo che i maggiorenni, che sonno sotto la loro tutela, e che prima visitavano la BiH, continuino tramite l'orfanotrofio di "Bjelave", ad avere contatti con la famiglia in caso lo desiderino. A Uzeir Kahvic e a Silvana Osmanovic-Seferovic saranno pagati 3.000 marchi convertibili ciascuno per risarcire il danno delle sofferenze psichiche. Sono affascinato dalla maturità di questi ragazzi, della loro comprensione per l'intera situazione, del rapporto verso la BiH che visitano regolarmente. Alcuni di loro che hanno contatti con la famiglia, sono insoddisfatti del rapporto della famiglia nei loro confronti. Dicono che 13 anni fa li hanno trascurati, e che oggi vengono visti come qualcuno di cui approfittare", ha detto Mirica.

Come veniamo a sapere, 16 ragazzi che 13 anni fa sono stati trasferiti in Italia, sono stati adottati, mentre tre ex ospiti dell'orfanotrofio "Bjelave" hanno in corso una procedura di adozione. La figlia di Uzeir Kahvic è stata adottata, mentre è in corso la procedura di adozione del figli di Silvana Osmanovic Seferovic. Un gruppo di 12 ragazzi si sono emancipati. Alcuni hanno la loro famiglia. Altri ragazzi si preparano a diventare indipendenti. In modo non ufficiale siamo venuti a sapere che il Centro per i servizi sociali del cantone di Sarajevo ha fatto un anamnesi sociale per Silvana Osmanovic-Seferovic con la quale è stato determinato che Silvana offriva prestazioni sessuali e si dedicava all'accattonaggio. Per questi motivi il Centro per i servizi sociali ha rifiutato, nel 1988, la sua richiesta affinché il figlio ritornasse a vivere con lei.

"Secondo la Legge italiana coloro i quali erano sotto tutela e sono stati poi adottati fino a 25 anni di vita non devono avere contatti con i genitori o i tutori precedenti. A 25 anni compiuti gli adottati possono, in caso lo desiderino, avere dei contatti con i genitori o i tutori", afferma Mirica.

Aleksandar Micic, che si occupava dei bambini che nel 1992 arrivarono in Italia, dice che l'intera campagna sul presunto traffico di bambini dalla BiH è condotta da Dusko Tomic, segretario generale dell'Ambasciata "Medjasi" (ndt. Una ONG che si occupa di bambini e che aveva fatto da tramite per il trasferimento dei piccoli bosniaci in Italia).

"Durante la visita ai ragazzi Tomic ha visto in che condizioni vivevano. Otto anni fa gli aveva promesso il ritorno in BiH. Loro per 20 giorni, con le valige pronte, hanno atteso l'autobus che li avrebbe portati in BiH, e che non è mai arrivato. Strumentalizza i genitori per favorire la propria carriera. A ogni genitore è data la possibilità di visitare il proprio figlio quando può. Tutti i ragazzi hanno finito la scuola. Non hanno mai avuto nessun problema con la legge e sono cresciuti come persone modello. Sono rimasti dei bosniaci con una dignità. Non saprei dire perché i ragazzi dovrebbero tornare in BiH. Lo stato non gli offre niente di particolare, e i maggiorenni sono troppo grandi per poter tornare all'orfanotrofio", dice Micic.

Dusko Tomic, il segretario generale dell'Ambasciata infantile "Medjasi", non ha voluto contestare o sostenere l'affermazione di Aleksandar Micic.

"La Commissione per i diritti umani presso il Tribunale costituzionale della BiH ha emesso una sentenza a favore dei genitori Uzeir Kahvic e Silvana Osmanovic-Seferovic, stigmatizzado in questo modo l'operato delle autorità bosniache", è stato il suo breve ed unico commento.


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