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L'impegno dei volontari italiani in ex Jugoslavia, dagli anni '90 ad oggi, nella storia di due ragazzi padovani. Racconti di amicizia, di amore, di volontariato di pace

07/04/2010 -  Azra Nuhefendić

 

Un attimo di distrazione e sono persa nella monotona pianura padana. Non so se devo andare avanti o se sarei dovuta scendere ad una delle fermate precedenti. Decido di procedere, poi mi accorgo di aver sbagliato. Scendo alla prima fermata dell’autobus che da Padova va verso Cittadella. Non c’è un’anima viva a cui poter chiedere dove esattamente mi trovo. Dopo un po’ arriva una limousine bianca, si ferma. Chiedo all’autista le indicazioni per Campo San Martino. Quello mi risponde chiedendomi chi sto cercando. “Lucia Z.”, rispondo. ”Ah, quella pazza”, conclude il signore della limousine. ”E' cosi che la percepite”, ribatto con rimprovero. “Ma nooo, no signora, non ci siamo capiti, intendo pazza in senso positivo, moooolto positivo”, precisa quello, e alla fine mi offre il passaggio. In limousine mi porta dritto davanti alla casa di Lucia. L’uomo della macchina e la mia amica si salutano cordialmente, scambiano due o tre parole e poi quello se ne va.

“Niente male”, dice Lucia commentando una sua foto da giovane. Che fosse una ragazza carina se ne è accorta solo alcuni decenni dopo. Da giovane, invece di ascoltare quelli che la corteggiavano, girava per i villaggi fino all'esaurimento cercando di convincere i paesani sull’importanza di continuare a coltivare la terra, di organizzarsi e stare uniti. In un certo senso aveva ragione l’uomo della limousine. Lucia è una particolare, una che non si fa i fatti suoi. Anzi, si occupa degli altri molto più che di se stessa.

Uno può condividere le sue idee oppure no, ma il fatto è che la Lucia Z. non ci lascia indifferenti. Possiamo amarla o no, ma sia gli amici che gli avversari la stimano perché è una alla quale importa quello che sta succedendo nel mondo. Trova sempre qualcosa da salvare, cambiare, convincere, organizzare. Se non c'è altro - come è successo alcuni anni fa – si mette a dipingere in tutti i colori dell'arcobaleno un ponticello arrugginito, dimenticato nel mezzo dei campi.

A chi, se non a Lucia, avrebbe potuto rivolgersi Alexander Langer quando nel 1992 aveva urgenza di sistemare i profughi che dalla Bosnia venivano in Italia? Con quell'appello di Langer cominciò l’impegno di Lucia e di centinaia di altri padovani in Bosnia Erzegovina, impegno che continua ancora oggi. Dalla pianura padana, che pareva addormentata nel proprio benessere, partì un’azione umanitaria imponente per aiutare chi, in Bosnia, ne aveva bisogno.

Si sono mobilitati in tanti, a prescindere dal credo politico, dallo status sociale, credenti e atei, giovani, vecchi, bambini portati per mano dai genitori, grandi industriali, pensionati e piccoli agricoltori. Nei primi mesi della guerra, da là riuscivano a mandare aiuti che superavano tutto quello che proveniva dal resto d’Italia. In più, riuscivano ad arrivare nei posti in crisi molto prima delle grandi organizzazioni umanitarie.

Nelle emergenze le varie organizzazioni internazionali, per diversi motivi, si muovono come elefanti, piano e con cautela. E quando infine arrivano sul posto, là ci sono già i volontari. Come una squadra mobile, i volontari reagiscono prontamente, non aspettano né carte firmate né autorizzazioni. La gente li accoglie come parenti, che lasciano tutto per prestare soccorso.

Passata la fase acuta in Bosnia Erzegovina, i volontari padovani si sono messi a pianificare aiuti a lungo termine, con uno scopo molto ambizioso: la riconciliazione delle parti in conflitto. Taciturni ma determinati, si sono organizzati in comitati; ogni comitato padovano si prendeva cura di un villaggio in BiH, a nord, vicino alla città di Gračanica. Costruivano case di cultura, aiutavano gli ammalati, portavano gruppi di agricoltori, insegnanti, operai, per aggiornarli e perfezionarli nel proprio mestiere. Scambiavano visite di scolaresche, sminavano i campi, aiutavano le vedove, facevano parlare e negoziare quelli che durante la guerra si guardavano tramite dei fucili.

Da quattro anni stanno organizzando una maratona miracolo, perché ci partecipano centinaia di ragazzi e ragazze, serbi, croati e bosniaci. Per l’occasione, in autunno, dall'Italia parte una carovana di varie decine di macchine, con centinaia di volontari, compresi sindaci, assessori e imprenditori che in questo lavoro umanitario, sociale e di cooperazione internazionale, assecondano i propri cittadini.

Ultimamente, Lucia ha rallentato un po’. Non partecipa con tutta la sua forza. Ma se lo può permettere, senza rischiare che tutto crolli. Perché, a differenza di tanti che costruivano cose importanti che, dopo il ritiro dell’iniziatore, crollavano, il volontariato che aveva cominciato Lucia è sicuro: i suoi allievi sono diventati più bravi della maestra.

Due di loro, Francesco Zanin e Ivano Manzato, dopo anni del volontariato in Bosnia hanno scritto un libro: “L’Albero del Pane”. E’ un vero manuale per il volontariato, pieno di informazioni, dati, nomi, toponimi, ma anche di pagine di bella scrittura, semplice ma non banale. Alcune parti del libro sono molto emozionanti e poetiche, l’esperienza personale degli autori è preziosa. Il lettore prova anche una sorta di eccitazione perché il seguito non è sempre scontato o prevedibile, e questo in particolare vale per l’amore che capita a uno dei volontari. La storia d’amore è fiabesca, “di una volta”, bella per la propria ingenuità, semplicità e forza. Nel libro ci sono anche gli elementi di un thriller, e la fine è inaspettata. Per autori – principianti non è poco.

Francesco Zanin e Ivano Manzato raccontano la trasformazione di due tipici disinteressati in volontari appassionati. Descrivono come una volta passavano il tempo libero indisturbati dai problemi che tormentano il mondo. Il volontariato non li interessava per niente, concentrati come erano su se stessi, contenti, talvolta un po’ annoiati, ma non disturbati dal proprio egoismo. Poi, un sabato sera, decidono senza grande riflessioni di fare qualcosa di diverso. Invece di finire nel solito bar, con la solita birretta, vanno ad ascoltare quelli già presi dal volontariato. La descrizione della trasformazione di un menefreghista in un volontario appassionato è bellissima, autentica, interessante, divertente.

Le prime impressioni di Zanin e Manzato “da quell’incredibile viaggio in territori geografici ed emotivi che non immaginavamo tali”, cioè in ex Jugoslavia, sono molto convincenti e preziose perché gli autori visitano quel mondo per la prima volta e, come capita spesso, possono cogliere o testimoniare quello che uno, già abituato e con esperienza, non riesce più a riconoscere. E' bello quando scoprono “quanto ci fa bene, facendo del bene per gli altri”. L’onestà o ingenuità degli autori fa parte della bellezza di questo libro.

Le persone che incontrano, Francesco Zanin e Ivano Manzato le descrivono con tanta delicatezza. Non giudicano ad esempio i profughi per come si presentano adesso, ma considerano le circostanze, e con tanta comprensione si chiedono “se noi, al loro posto, saremmo stati cosi civili”. Qui non posso non paragonare i volontari, che per aiutare gli altri impiegano il proprio tempo, volontà e spesso i soldi, con i caschi blu olandesi. Questi ultimi erano strapagati per aiutare e proteggere i civili di Srebrenica, invece li hanno abbandonati e lasciati agli assassini. Dopo che gli olandesi sono scappati dalla loro base, a Potočari sono rimaste le scritte sui muri che ancora oggi testimoniano la loro arroganza e ignoranza. I graffiti nella base delle Nazioni Unite recitano: ”Senza denti, con i baffi, puzzolente? E' una ragazza bosniaca!”.

Ma cosa avevano capito, gli olandesi, dei quarantacinquemila civili di Srebrenica, ammassati per quattro anni come in un campo di concentramento all’aperto, senza acqua, cibo, casa, senza bagni, né ospedali? Niente!

Gli autori del libro, caduti dal cielo tra i profughi, davanti alla miseria, alla disperazione, all’abbandono non si schifano, non fanno gli arroganti, non scappano via, ma si mettono a fare e aiutare. Come persone intelligenti, questa esperienza li cambia, modifica la loro percezione del mondo e di se stessi, riordina le loro priorità e i loro valori.

E' divertente quando uno di loro scrolla le spalle, indifferente, vedendo che la sua amatissima macchina è stata danneggiata. Una cosa così prima lo avrebbe gettato nella disperazione. Invece l’esperienza con gente alla quale la guerra aveva strappato tutto, tranne la vita, l’ha cambiato. Comprende questa mutazione e ride, contento con se stesso.

A pagina 47 gli autori affermano che “non esistono storie normali. Ogni persona è interprete o spettatore di una storia unica e irripetibile”. Questo libro è la prova di ciò e anche un invito, una sfida agli altri a provare a costruire la propria storia impegnandosi nel far bene.

 

Autori: Francesco Zanin e Ivano Manzato

Titolo: “L’albero del Pane”

Per informazioni e acquisito:

zanin65@alice.it

manzato.bellan@alice.it


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