Sarajevo (michele27)

Sarajevo (michele27 )

La voglia di superare le barriere etno-nazionali, di andare oltre il nazionalismo, e l'amore per la propria città, per gli amici, la raja, ma anche lo sconforto e la delusione del sistema, dei politici di tutto quanto fatica a cambiare. Un testo scritto con grande sensibilità ed emozione, un inno a Sarajevo

23/02/2012 -  Aleksandra Kuljanin Sarajevo

Testo originariamente pubblicato sul sito Novinar.me col titolo “Sarajevo grade, šta ti papci rade???

12 marzo 1996, al telegiornale annunciano che è stata completata l’integrazione di Sarajevo. La mattina del 14 marzo, una stazione radio trasmette la seguente notizia: “Stanotte a Sarajevo, verso le 21, nel centro clinico di Koševo è nato il primo bambino serbo della Sarajevo federale”. Il “bambino serbo” nato il 13 marzo di quell’anno è mio fratello e mio omonimo. Dopo quella notizia, i nostri genitori hanno spesso scherzato dicendo di avere tre figli “nati in tre diversi Stati”.

Nel settembre 1997 ero l’unico “bambino serbo” di quella generazione iscritto in una scuola elementare di Sarajevo. Già il primo giorno di scuola sono tornata a casa tutta contenta e ho detto alla mamma: “Mamma io mi sono innamorata. Di Samir.”

Il maggio 2005 per me è stato molto importante. Un “bambino serbo” è stato scelto come Studente dell’anno, ma non perché “serbo” ma perché uno studente modello. Ero felicissima.

La scuola superiore è stata la parte più bella della mia vita scolastica, per la bella compagnia, ma anche per il fatto che, desiderosa di perfezionamento, mi sono diplomata al Collegio del Mondo Unito di Mostar. La vita a Mostar mi ha permesso di capire quanto amo Sarajevo, così, invece di andarmene all’estero come la maggior parte della mia generazione del Collegio, sono rimasta a studiare nella mia amata città.

Oggi però vorrei andarmene. 

La compagnia di Sarajevo

Nell’amata città ho amici, conoscenti, compagni di scuola e tanto altro. Nessuno mi ha mai rivolto parole offensive. Invocavano il nome di Allah, per scusarsi subito dopo, e io sapevo (e lo sapevo veramente) che quel “Allaha ti” veniva detto per caso, come un intercalare, e non mi sono mai arrabbiata. E perché avrei dovuto? Allah e Dio sono la stessa cosa, hanno solo nomi differenti.  Sin da piccola andavo al Ramadan, e persino alla scuola elementare, quando mi annoiavo, rimanevo a frequentare le ore di religione islamica per non sentirmi diversa. Non ho mai fatto differenze per il nome, non abbiamo mai parlato di nazionalità, anche se abbiamo parlato di usanze religiose, e nessuno mi ha mai chiesto in che esercito ha combattuto mio padre. Gli amici venivano per Natale, Pasqua e il Santo della famiglia, e a quelli che non erano riusciti a venire portavo io a scuola i dolci e le uova di Pasqua. E così è tutt’ora.

Due o tre anni fa eravamo in una decina seduti al “Cheers” e con tutto il cuore tifavamo per la Bosnia Erzegovina. E quando il portiere Nemanja ha parato un goal sicuro, tutti al pub hanno iniziato a scandire il suo nome. Questa è Sarajevo, non fa differenze per i nomi, solo per le azioni.

L’anno scorso, per Pasqua, nel bar vicino all’università eravamo in cinque studenti: 3 “bosgnacchi”, 1 “croato” ed io, “serba”, che ho portato le uova. Di chi siamo e cosa siamo nemmeno una parola. E fino al 2011 non ho mai dubitato un secondo della multietnicità della mia Sarajevo. Né ho mai dubitato della giustizia di questa città. Perché alla fine Sarajevo sa meglio di tutti cos’è l’ingiustizia e sa come evitarla e correggerla.

I “cafoni” di Sarajevo

In questa città, però, la vera compagnia [raja] è ormai da tempo marginalizzata. È  il “club di quelli che si sono scelti”, quelli per i quali l'amore e il rispetto superano la fede e la nazione.

Nella primavera del 2011, il reis-u-lema della comunità islamica, Mustafa efendi Cerić invitava all’”Estate sarajevese”. Non mi ha fatto per niente piacere sentire le parole del reis, né tanto meno leggere “la lista deglii islamofobi” fra i quali c’erano professori che rispetto molto, artisti importanti per la cultura bosniaco-erzegovese, scrittori e giornalisti che leggo regolarmente. Allora mi sono chiesta: son forse anche io islamofoba dato che rispetto quelle persone e il più delle volte sono d’accordo con la loro opinione? Nonostante i roboanti annunci primaverili, l’estate è comunque andata via liscia.

Nell’autunno del 2011 bevevo un caffè al “Dialogo” quando qualcuno su Twitter twitta: “Un matto ha sparato contro l’ambasciata americana”. Il successivo tweet ci informa che si tratta di “wahabiti”. Noi tre ci guardiamo incredule, i telefonini iniziano a squillare, panico, tutto ciò mi ricorda la guerra. E in tutta questa storia Samra, Edina ed io siamo sedute e beviamo il caffè. Il giorno successivo leggo sul nydailynews.com che “un terrorista serbo ha attaccato l’ambasciata americana di Sarajevo”.

L’inverno del  2011 ha mosso due questioni, del tutto scollegate l’una dall’altra. Una è la caccia a Babbo Natale, e l’altra la difesa degli accusati di crimini di guerra contro la popolazione non musulmana di Hadžići.

È troppo.

La religione, pardon, la nazione ci ha abbagliato? Viviamo ancora sotto assedio e non lo sappiamo? Abbiamo dimenticato il passato? Stiamo edulcorando il nostro passato?

I “cafoni” [papci] al potere da anni ci tengono sotto assedio nutrendoci di odio. Istigano tramite i media, invitano a difendere il proprio e a pretendere l’altrui, litigano in pubblico e si abbracciano nelle kafane. Gli intellettuali sono islamofobi, le istituzioni culturali muoiono. I governi cantonali prendono ai cittadini e pagano la difesa degli accusati di crimini di guerra. Quando è stata sollevata l’accusa, ero fiera di questa città perché finalmente si tenevano in considerazione tutte le parti. Perché tutti morivano, proprio come tutti vi partecipavano. E poi vengo a sapere che dal budget cantonale viene pagata la loro difesa. Dunque, possiamo supporre che anche le famiglie delle vittime stiano pagando la difesa degli accusati. Ma non è uno scandalo? Se Belgrado dovesse pagare la difesa di Šešelj sarebbe inaccettabile. Da noi solo gli intellettuali e alcuni individui si lamentano della decisione del governo cantonale. Probabilmente a breve metteranno anche loro sulla lista degli islamofobi.  

Di Mevlid Jašarević si parla poco e si sa poco. “Ha brillato” per un attimo, ha confuso i nostri politici che hanno reagito come meglio sanno: con le parole e non con gli atti. Tutti hanno condannato quell’atto, nessuno ha fatto qualcosa per impedire attacchi simili in futuro. Hanno messo Mevlid sulla lista degli islamofobi e l’hanno dimenticato.

Babbo Natale da anni ormai combatte per non essere cancellato dalla nostra città. L’hanno definito un “problema” negli anni Novanta, anche se per decenni è sempre stato là. Generazioni di cattolici, ortodossi e musulmani sono cresciuti accanto a quel signore, perché all’improvviso è diventato un “problema”? Forse il signore in abito rosso è comunista oppure islamofobo, e per questo non gli vogliamo più bene.

Ovunque  io vada…

…tutte le strade mi portano indietro. Voglio andarmene, ma so che tornerei. Me ne sono andata anche  prima, ma poi sono tornata. È inutile, non riesco senza quest’acqua e quest’aria.

Non guardo più i telegiornali. I quotidiani non li leggo. Accendo la radio per ascoltare la musica. I portali web almeno li posso scegliere. E scelgo quelli oggettivi, per fortuna ci sono ancora. E così continuo a vivere a Sarajevo, quella che conosco e che spero di continuare a conoscere.

Voglio sperare che un giorno andrà meglio. Che di nuovo al “Cheers” oppure in un altro bar scandiranno il nome di qualcuno a prescindere dalla  nazionalità di appartenenza, non per il nome ma per quello che ha fatto. Che invece della difesa degli accusati, il governo cantonale pagherà la tutela delle istituzioni culturali. Che la nostra polizia impedirà gli attacchi e catturerà i colpevoli. Che Babbo Natale e Capodanno rimarranno laici. Che la religione non si mescolerà con la nazione. Che ci sarà una nazione, quella bosniaco-erzegovese. Che i media diventeranno oggettivi. Che gli amici sarajevesi saranno la maggioranza. Che ci saranno cambiamenti. Perché Sarajevo sa più di tutti cos’è l’ingiustizia e sa come evitarla e correggerla. Questa è la mia città.


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