All'interno dell'ICTY (klaasjan/flickr)

A venti anni dall'istituzione del Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex Jugoslavia (ICTY) e alla luce delle recenti e dibattute sentenze, il professor Eric Gordy traccia un bilancio del lavoro di quest'organo giudiziario delle Nazioni Unite, senza risparmiare critiche e sottolinearne le mancanze

04/06/2013 -  Dženana Karup-Druško Sarajevo

(La versione originale ed estesa di questa intervista è stata pubblicata il 31 maggio 2013 dal settimanale sarajevese DANI col titolo Tribunal je osnovan s idejom da neće raditi )

Come commenta i 20 anni di lavoro del Tribunale dell’Aja?

Senza il Tribunale, probabilmente nessuno sarebbe stato processato per i crimini compiuti durante la guerra e l’enorme archivio che si è sviluppato non esisterebbe. Ma le cause di insoddisfazione sono varie e mentre alcune di esse erano inevitabili, altre sono conseguenza di come questa istituzione è stata pensata. Il problema principale non è il non aver processato tutti i crimini compiuti - questo infatti neppure le procure locali lo avrebbero fatto - ma il fatto che il Tribunale non ha mai coinvolto l’opinione pubblica nel suo lavoro, né ha comunicato con essa in modo adeguato.

Bisogna tener presente che questo è il primo tribunale istituito dalle Nazioni Unite. Fatta eccezione per il Tribunale per il Ruanda, tutte le corti create dopo l’ICTY hanno stabilito la propria sede nei territori su cui hanno giurisdizione. Tutte hanno distinto l’attività di documentazione e narrazione del passato dall’attività giuridica. Inoltre, in esse operano professionisti che provengono dai paesi in cui si trovano, non solo come accusati o testimoni, ma anche come giudici e come accusa. A mio parere, questo dimostra che le stesse Nazioni Unite hanno dedotto alcuni insegnamenti dal funzionamento problematico del Tribunale dell’Aja.

Ampliamo il discorso: se ci chiedessimo perché il diritto penale debba essere applicato in questi contesti, la risposta sarebbe nella maggior parte dei casi che questo può aiutare la comprensione reciproca, che accertare i fatti ostacola fortemente il negazionismo, che le vittime possono così ricevere una qualche forma di soddisfazione. Direi che nel breve periodo si è visto poco di tutto ciò. In alcuni casi il Tribunale ha emesso sentenze controverse che non hanno risolto i contrasti ma li hanno acuiti.

Ciononostante, ci saranno comunque degli effetti sul lungo periodo, grazie al fatto che le procure hanno messo assieme la più ingente mole di documenti mai raccolta nella storia di un conflitto armato. Al momento moltissime persone sono ancora chiuse nelle loro ideologie e non vogliono sentire nulla su questi temi. Ma in futuro, forse, coloro che vorranno sapere avranno la possibilità di conoscere i fatti.

Durante un forum sulla giustizia transizionale tenutosi recentemente a Jahorina, lei ha fatto riferimento a una dichiarazione di Milorad Dodik riguardante la cultura che spiega il comportamento dei serbi...

Durante un incontro dedicato alle relazioni tra Serbia e Republika Srpska tenutosi a Belgrado, Dodik ha detto qualcosa a proposito di una certa cultura che presenta i serbi come aggressori. In questo modo, ha fatto capire qual è per lui il ruolo della cultura nella società: una visione strumentale della cultura, la cultura come propaganda, come un insieme di messaggi con fini propagandistici. E ciò in una situazione normale. Come possiamo allora utilizzare e comprendere il ruolo della cultura in situazioni straordinarie, quali le violenze di massa?

Che ruolo ha la cultura in questo?

Credo che abbia un ruolo importante. Supponiamo che tutti siano delusi dai processi per crimini di guerra. Ci sono state sentenze di assoluzione e sentenze di condanna, ma ciò che non si è avuto dai processi è la possibilità che le persone si riconoscano e che le vittime raccontino le proprie storie e ottengano la comprensione dell’opinione pubblica.

In Bosnia hanno anche chiuso al pubblico le sessioni, quindi non c’è pubblico in aula. Non resta che accettare le strategie tecniche da avvocati. Gli imputati in aula non spiegano i procedimenti che li riguardano ma mettono in atto diverse strategie processuali per negare la propria colpevolezza, come è normale che sia e come ci si aspetta da loro. Quello che manca è il confronto tra vittime e carnefici.

Si riferisce alle circostanze che hanno portato a quelle situazioni?

Sì. Il Tribunale dell’Aja ha prodotto i processi migliori che poteva, ma non ha promosso un dialogo aperto sull’esperienza degli anni del conflitto, perché non è stato pensato per questo. La cultura invece può farlo.

Quello che ci rende umani è il fatto che siamo in grado di riconoscere ciò che c’è di umano in un'altra persona. Per questo, a livello primario, abbiamo la capacità di entrare in relazione con gli altri. A livello politico ciò significa che possiamo riconoscere il proprio interesse e quello altrui, in modo da poter fare dei compromessi e costruire una vita comune. Ed è proprio questo che la cultura può fare quando funziona bene.

Quando parla di problemi del passato che sono presenti ancora oggi e che rallentano o addirittura bloccano i processi di elaborazione e di riconciliazione nell’area dei Balcani, a cosa fa riferimento di preciso?

Penso principalmente alla Seconda guerra mondiale. L’AVNOJ [il Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia] aveva affermato che avrebbe punito i colpevoli. Per sua decisione fu istituita una commissione [Commissione di Stato jugoslava per l’accertamento dei crimini compiuti dagli occupatori e dai loro collaboratori] che nel 1948 ha prodotto una relazione [sui crimini compiuti in quegli anni] ma tale relazione non è stata accolta dal governo dell’epoca.

Il governo ha allora trasformato la commissione in altro e la relazione non è mai stata pubblicata e così si è chiusa la questione. Invece, la versione ufficiale passata alla storia sottolinea come il popolo si è ribellato agli invasori e ai collaborazionisti, cosa che non descrive affatto la situazione nella Jugoslavia dell’epoca. I meno coinvolti nei conflitti di quel periodo erano proprio i tedeschi.

Avevamo gli ustaša, i cetnici...

Avevate molti ustaša e molti cetnici, e molte persone sia dalla loro parte che nel mezzo.

Ed ora li abbiamo ripescati dal passato...

La legittimazione del Partito comunista è stata completamente costruita sulla convinzione che la lotta contro l’invasore era allo stesso tempo la rivoluzione.

Oggi l’arco temporale di 20 anni è sufficiente perché ci si domandi cosa è successo durante le guerre nei territori della ex Jugoslavia?

Io credo di sì. Il caso meglio riuscito di confronto con il passato è per tutti la Germania dopo il 1945. Quel processo non è iniziato con il tribunale militare del 1946, ma 20 anni dopo. E’ iniziato quando chi era legato al nazismo non era più in corsa per il potere perché era ormai morto o lontano dalla scena pubblica. Era arrivata una nuova generazione, che non aveva nulla da perdere a mettere in discussione la questione.

Le sentenze su Gotovina, Haradinaj e Perišić acuiranno la diatriba già in corso sul lavoro del Tribunale dell’Aja? Lei ha affermato che esse si fondano sull’argomentazione che la ragion di stato viene prima degli interessi delle vittime...

Perché è stato creato l’ICTY? Io credo si possa affermare che le Nazioni Unite non sono state in grado di intervenire seriamente, ad esempio con un intervento militare, quindi si sono dette: bene, per salvare le apparenze investigheremo tutti i crimini e, allo stesso modo, processeremo i colpevoli, perché tutto ciò all’epoca sembrava un’impresa impossibile. C’è poi stato un cambio ai vertici di Serbia e Croazia nel 2000 e da allora il Tribunale ha iniziato a lavorare seriamente.

Però, qualcuno ha notato che la corte stava iniziando a creare dei precedenti che avrebbero limitato la libertà di altre forze armate ed hanno quindi iniziato ad elaborare strategie su come venire a soccorso degli eserciti in altre situazioni, cosa potenzialmente molto pericolosa.

Con l’operazione Oluja e con Perišić hanno quindi eliminato dei precedenti che avrebbero potuto influire su future sentenze riguardanti la responsabilità di comando.

Gotovina è stato condannato in prima istanza non per aver ordinato di commettere crimini, ma perché responsabile di non aver aver impedito [che venissero compiuti dai suoi subordinati]. Perišić è stato condannato, non per aver ordinato i crimini ma per aver contribuito a compierli. Tutto ciò può influire seriamente sulla politica estera americana che fornisce supporto a vari eserciti nel mondo che fanno di tutto. Gli americani si sono accorti che il diritto internazionale penale può in realtà danneggiarli.

Ciò è confermato dal Memorandum presentata da dodici avvocati militari in qualità di amicus curiae [l’intervento di una terza parte non coinvolta nel caso che offre volontariamente informazioni alla corte su un aspetto della legge o su parti del caso], per sostenere l’assenza di responsabilità di comando nel caso Gotovina. Gli avvocati affermano che la sentenza potrebbe in futuro avere conseguenze per la libertà strategica di altri eserciti nel mondo. La corte ha respinto tale memorandum perché ha dovuto farlo, dal momento che i firmatari non erano del tutto indipendenti dalla difesa in quel procedimento. Ma si vede dalla sentenza che la corte ha sì respinto il memorandum, ma ha fatto propria l’argomentazione in esso contenuta.

Quindi, nelle sentenze di assoluzione di Gotovina e Perišić non si è tenuto particolarmente conto di quello che sarebbe successo nell’area della ex Jugoslavia?

Si potrebbe dire che il Tribunale è stato creato con l’idea che non avrebbe funzionato. Nella sua prima fase di lavoro ha portato avanti processi piccoli contro imputati minori. Dopo la caduta dei regimi è entrato nella seconda fase e ha processato figure significative per reati gravi, comprendenti anche l’aver posto come obiettivo militare la modifica della composizione etnica della popolazione. Questa seconda fase della giurisprudenza dell’Aja ha portato con sé la possibilità di costituire il diritto internazionale e stabilire norme di diritto internazionale nel mondo.

Quello a cui stiamo assistendo con l’annullamento delle sentenze nei casi Oluja e Perišić potremmo chiamarlo terza fase: si nota cioè che non c’è in effetti una reale volontà di stabilire delle norme giuridiche. Infatti, se Gotovina fosse stato giudicato responsabile per gli atti commessi dai suoi subordinati, ciò avrebbe avuto delle ricadute sulle le azioni future di forze armate maggiori.

Allo stesso modo, se Perišić fosse stato dichiarato colpevole per le azioni compiute dai militari che riforniva e finanziava, avrebbero potuto esserci delle conseguenze per la politica di alcuni paesi più grandi. Ciò che accadrà è che il Tribunale confermerà, con le sue sentenze, che è stato commesso un numero ridotto di crimini e che non esisteva una politica di pulizia etnica, ma solo un insieme di avvenimenti non connessi tra loro.

Quali sono secondo lei le critiche più fondate che vengono fatte al tribunale?

Nel lavoro dell’ICTY manca soprattutto la comunicazione con l’opinione pubblica. I docenti di diritto che lavoravano per la Corte e comunicavano con membri dell’accusa o della difesa - altri professori - credevano di agire in modo professionale, scrivendo poi, come se non bastasse, articoli tecnici per riviste giuridiche altrettanto tecniche, senza pensare che ci fosse bisogno che il pubblico capisse cosa stavano facendo, perché, e quali fossero le implicazioni del loro lavoro.

Da anni vengono presentati atti di accusa che contengono accuse di genocidio, che puntualmente non vengono confermate dai giudici con la spiegazione che non ci sono prove sufficienti. Quali sono le prove necessarie per  dimostrare il genocidio?

La convenzione sul genocidio è stata scritta molto tempo fa in un modo che rende difficile ogni tentativo di provare che il genocidio è effettivamente avvenuto e che è stato intenzionale.

Ma abbiamo il diritto penale internazionale e il Tribunale penale internazionale che dovrebbe applicarlo...

Il diritto è una disciplina abbastanza conservatrice. La prima sentenza della storia per genocidio è stata emessa nel 1998. Il Tribunale ha confermato che a Srebrenica è stato compiuto genocidio, ma ha sempre rigettato che il genocidio sia stato compiuto in altre parti della Bosnia. Il Tribunale, in quanto corte internazionale, vuole evitare di creare un precedente. Esiste già un precedente per Srebrenica, ma non ne creeranno un altro finché possono evitarlo.

E lo possono evitare perché, affinché si possa dimostrare che si tratta di genocidio, non solo a Srebrenica ma anche in altri 8 luoghi, si deve dimostrare che è c’era l’intenzionalità, cosa impossibile da provare. Servirebbero documenti, ma documenti di questo tipo non esistono nemmeno per il Ruanda o per il genocidio compiuto dai tedeschi negli anni ‘40.

Nessun individuo sano di mente scriverebbe mai un documento in cui dichiara: adesso compiamo un genocidio! La Bosnia ha fatto ricorso alla Corte penale internazionale puntando sull’argomentazione che se non esiste un documento, allora si può affermare che è avvenuto un genocidio: la Corte cioè potrebbe concludere che il genocidio c’è stato se rileva che si è verificato un numero sufficiente di azioni concrete che si possono supporre collegate tra loro. Ma la Corte internazionale di giustizia ha rigettato esplicitamente tale argomentazione.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa


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