Memoriale di Potočari

Srebrenica, tra solitudine e speranza. Il ritorno a casa di Ajkuna, il viaggio lungo la Drina, nella regione dove i fantasmi scelgono il colore delle case. Nostro reportage

19/03/2009 -  Azra Nuhefendić

Su entrambi i lati della statale che da Tuzla va verso Zvornik, i villaggi si susseguono uno attaccato all'altro. Assomigliano, sono quasi identici, le case anonime, uno o due piani, magari un balcone, alcune dipinte altre ancora senza intonaco. Solo talvolta la chiesa ortodossa, talora la moschea, costruite in punti diversi, preannunciano che stiamo per entrare in un posto serbo o musulmano.

Strada pulita, poco traffico. Dopo una curva, senza preavviso, ci troviamo in mezzo alla folla. E' il giorno di mercato locale, la pijaca o pazarni dan, come si dice in bosniaco. Da una parte della strada le bancarelle, dall'altra le macchine parcheggiate. Tanta gente, non si distinguono né musulmani né serbi, né per come sono vestiti, né per cosa cercano, né per cosa vendono, né per come parlano. Sono là mescolati, accanto, insieme.

Si cammina lentamente, anche attraversando la strada, ci si ferma, si esamina la roba, si vende, si compra: le uova, frutta, polli, miele, carne affumicata, mestoli, piccole attrezzature, pentole, roba di plastica e tantissimi prodotti cinesi. "Basta avere i soldi, dai cinesi c'è tutto", ci spiega Ajkuna, vedova di Srebrenica. Ha preso l'occasione per andare a Srebrenica, dopo un anno, a trovare la sorella.

Ajkuna compra lana grezza, le serve per il kilim, tipico tappeto bosniaco. Bisogna colorare la lana. Lo fanno bene, e non costa tanto, a Ljubovia, la città sull'altra sponda della Drina, in Serbia, a 15 minuti da dove ci troviamo. Ma Ajkuna non ci va, non ha ancora superato la barriera psicologica. Invece di fare un viaggio di 15 minuti andrà a Prijedor, città nella Bosnia settentrionale, a più di duecento chilometri da casa sua.

Prijedor ha una reputazione infame. Durante l'ultima guerra è stata teatro di una vasta pulizia etnica. Nella sua periferia e nei suoi dintorni c'erano i campi di concentramento di Omarska, Keraterm e Trnopolje, dove i bosgnacchi venivano rinchiusi, torturati e uccisi.

Ancora oggi, per le vie di Prijedor, passeggiano liberamente gli ex carcerieri, i criminali, gli esecutori.

Ajkuna non ha problemi a trattare con una serba di Prijedor, una certa Mira, che gestisce una piccola impresa famigliare. "E' più facile fare affari con i serbi di Prijedor che con questi locali, vicini".

Lasciamo il mercato e subito a destra, sulla strada, un grande segnale stradale in cirillico ci avverte: "Benvenuti in Republika Srspka". Niente è cambiato rispetto a 20 metri prima o dopo, non c'è la dogana, nessun confine, anzi nessuna differenza.

Passiamo per Zvornik. Nel centro, circondata dalle case private, si intravede la torre della chiesa serbo ortodossa, nuova. E' stata costruita sulle rovine della moschea che c'era prima della guerra, e che è stata fatta saltare in aria. Dopo, il sindaco di Zvornik, alla domanda dei giornalisti stranieri, aveva detto: "Quale moschea? Qui non ce n'è mai stata una".

Recentemente, la comunità islamica della Bosnia Erzegovina ha fatto causa alla Republika Srpska, chiedendo un risarcimento di 32 milioni di euro per le moschee distrutte, alcune delle quali classificate dall'UNESCO come patrimonio dell'umanità. Adesso alcune chiese ortodosse nuove, costruite su terreni di proprietà della comunità islamica, devono essere spostate, demolite, compresa quella di Zvornik. La nuova la stanno costruendo un po' fuori dalla città, scavando la roccia, sopra il fiume.

Si fa lungo il viaggio attraverso un paesaggio monotono, poco bello, stretto tra il fiume Drina e la montagna. L'altra sponda del fiume, la Serbia, illuminata dal sole di mezzogiorno, ci pare più bella, i campi più vasti. Si vedono le case, gli alberghi e una moschea, vecchia, intatta.

Poi si passa per posti che sarebbero rimasti anonimi, se non fossero diventati luoghi di crimini, atrocità, fosse comuni: Konjević Polje, Kravica, Bratunac, Nova Kasaba. A Kravica, dietro le case private, si intravedono baracche di legno, tutte con le finestre e le porte dipinte di un verde elettrico.

Durante la guerra le baracche erano a Srebrenica, portate dagli olandesi per sistemare migliaia di profughi bosniaci che dormivano per la strada. Dopo, le baracche sono state smontate e portate a Kravica. Presumo per accomodare altri sfollati, sfortunati, spostati. E' là che hanno dipinto le finestre e le porte. Si dice che quelli che ci abitano adesso, cioè i serbi, hanno cominciato a vedere i fantasmi. Una veggente locale gli ha consigliato di dipingere le porte e le finestre in colore musulmano, cioè in verde. La verità, o una invenzione? Non si sa. L'unica certezza è che le finestre e le porte sono di colore verde.

Come una bocca troppo stretta per accomodare tutti i denti, che crescono a zig-zag, così le case di Srebrenica sono sparpagliate. La città finisce in fretta, in un angolo da dove non si va più avanti, bisogna tornare indietro o salire sulle montagne.

Mi appare ancora più piccola, più stretta che circa venti anni fa, quando l'ho visitata per la prima volta. Avevo viaggiato 7 ore da Belgrado, per potermi fermare a Srebrenica mezz'ora. Ho dovuto ripartire con lo stesso pullman perché non c'era nessun altro collegamento con il resto del mondo.

Sulle cime delle colline i resti della fortezza antica. Da su si sorvegliava e difendeva la zona, una volta considerata ricca per le miniere d'argento, zinco, rame. Al tempo dei romani, Srebrenica (Argentaria) era un'importante colonia dei mercanti dalla Repubblica di Ragusa, oggi Dubrovnik. Anche per i turchi ottomani le miniere furono preziose. Ma è tutto acqua passata.

La Srebrenica d'oggi, in un giorno qualsiasi di fine febbraio 2009, è oppressa dalla propria solitudine, l'abbandono visibile, le promesse non compiute, la verità rifiutata, il passato non accettato.

Non sta succedendo niente. La gente ci vive la solita, lenta e monotona quotidianità. Poco lavoro, i movimenti sono quelli necessari. Per la strada, la čaršija (in turco la via principale) rari passanti, maschi che stanno fermi sui marciapiedi, con le mani nelle tasche, guardano e aspettano. Ci danno un sguardo breve, senza curiosità. Tante case ancora distrutte. Il fumo non esce da tutti i camini, segnale che le abitazioni sono vuote.

"Tornano solo per commemorare l'11 luglio, o per l'estate", spiega Ajkuna. Ci porta a casa della sorella, Fatima. La sua è l'ultima nella fila disordinata delle case. La montagna, ripida, sembra cominciare già dal pianerottolo.

"Mangia, mangia, liberamente. Questa è la Bosnia". Insiste che io mangi la pita, tipico piatto bosniaco.

Fatima parla senza sosta, spara una raffica di parole, si ripete, urla come se stesse parlando con qualcuno che sta oltre la montagna, oltre il fiume. Già alla porta chiede, insiste, se la sorella le ha portato le calze che lei, Fatima, aveva promesso di regalare alla sua vicina Mara. "No", risponde Ajkuna. Allora Fatima la costringe a togliersi le calze, slape, che aveva addosso.

Fatima è pukla, come si direbbe in gergo bosniaco. Vuol dire che si è spaccata, è suonata, è fuori, da quando ha visto per l'ultima volta suo figlio portato via dai serbi, nel luglio del 1992. Ci fa vedere la foto del ragazzo, pare grande e robusto. Fatima dice che recentemente hanno trovato i suoi resti. Scandisce le parole come se stesse parlando con una straniera, che non sa la lingua locale. "So-lo tre pic-co-le os-sa, nien-te di più... Va be-ne, sarà sepolto in luglio", sorride.

La sua vicina Mara è serba, un'anziana spostatasi alla fine della guerra da un sobborgo di Sarajevo, Ilijaš, e piantata a Srebrenica, in casa d'altri, con gli odori degli altri, i mobili che non sono suoi. Tutto per ricordarti, in continuazione, che non sei a casa tua.

Due donne, ognuna sola, alla fine di questa città, alla fine del mondo. Una serba, una musulmana. Ogni giorno bevono il caffè insieme, traggono sospiri dopo lunghi silenzi, si lamentano per la vita che è cara, per la solitudine, l'abbandono, per l'assenza dei cari. L'una all'altra uniche amiche.

Memoriale di Potočari

Lo spazio si allarga a Potočari. Prima della guerra era un posto qualsiasi che ospitava la fabbrica di accumulatori. Nell'edificio riconosco il programma dello sviluppo economico che promuovevano le autorità della ex Jugoslavia. Lo sviluppo, per loro, era esclusivamente legato all'industria, perciò costruivano nuovi stabilimenti dovunque, anche in posti dove non c'era proprio nessuna convenienza. Si erigevano le fabbriche che, in anticipo, erano condannate ad abortire.

Ai tempi di Tito girava la barzelletta che durante la sua visita a Smederevo, città serba in una zona conosciuta per le vigne e gli ottimi vini, Tito avesse chiesto ai suoi ospiti cosa ci fosse nella zona. Gli avevano risposto "groždje", cioè uva. In serbo-croato tra la parola groždje (uva) e gvoždje (ferro) la differenza la fa solo una lettera. Tito aveva capito male, ferro invece di uva, e aveva suggerito di costruire una ferriera. Detto fatto. A Smederevo fu eretta una ferriera che produceva debiti.

Anche a Potočari la fabbrica di accumulatori mi sembra un progetto simile. So che già prima della guerra non portava soldi alla gente che aveva bisogno di lavoro. Oggi è vuota e fa parte del Centro Memoriale di Potočari. Le mura nude, i vetri spaccati, le porte socchiuse, tutto è molto suggestivo, il posto lascia un impatto forte sui visitatori, impressiona più di una scultura. La fabbrica è diventata il monumento a quello che un giornalista sloveno descrisse come "altro che un crimine contro l'umanità, è un crimine che l'umanità ha compiuto nei confronti dei musulmani bosniaci".

L'ultima volta le sale della fabbrica furono riempite con i musulmani bosniaci, che ci cercavano la salvezza, ma erano già condannati alla morte.

Dall'altra parte della strada c'è il cimitero. Su un semicerchio di marmo ogni anno si incidono i nomi degli uccisi, i cui resti sono trovati nelle fosse comuni. La notte precedente nevicava. Il vento spostava la neve da una parte, lasciando scoperta una striscia con i nomi: 54 persone con lo stesso cognome. Uno, Esad, aveva solo 13 anni.

Siamo gli unici visitatori. Ci si avvicina un poliziotto, robusto, con la faccia da bambino. "Nenad" si presenta gentilissimo, con una stretta di mano. Fa parte della squadra che si occupa della sicurezza del Centro. Pronuncio il mio nome, e subito sorride. Ci siamo riconosciuti come due di Sarajevo. E' un serbo che proviene da un sobborgo di Sarajevo, Ilijaš. Spostato qui alla fine della guerra quando tutti i serbi da Ilijaš furono sottoposti a trasferimento umano della popolazione, come lo scrittore e politico serbo Dobrica Čosić chiamava la pulizia etnica. Chiedo a Nenad se conosce un signore, un personaggio importantissimo a Ilijaš durante la guerra. E' uno ricercato dal governo di Sarajevo per crimini di guerra. Si irrigidisce subito. "No, non ne so niente", taglia corto Nenad. E' improbabile perché Ilijaš è un posto così piccolo che tutti si conoscevano, e poi sarebbe impossibile non conoscere uno che era la massima autorità durante la guerra. Gli dico che quel signore era un mio amico, che aveva salvato mia sorella e due nipoti. Adesso Nenad si ricorda bene del personaggio, e mi chiede se so qualcosa di lui, dove è finito, cosa fa. Lo so, è a Belgrado, fa l'insegnante, gli studenti lo hanno scelto come migliore maestro.

Si presenta un altro dipendente del Centro Memoriale di Potočari, è uno di Srebrenica. Sì, era stato costretto a scappare per i boschi, si è salvato, purtroppo il fratello piccolo, non è uscito (come usano dire per quelli che non ce l'hanno fatta), è un eufemismo per la morte, oppure l'eternità, qualcosa che non è finito e magari non finirà ancora per lungo tempo. Sì, lui è tornato nonostante tutto, sì, ci sono amici che erano con i cattivi, quando si può ci si evita, quando non si può ci si saluta, ma comunque bisogna andare avanti, bisogna vivere.

Fa freddo e lui è vestito poco, ha la testa incastrata sulle spalle, trema leggermente, ma trema anche dentro, in questi giorni ancora di più perché la moglie è incinta, stanno aspettando il terzo figlio. "Sarà una femmina, meno male, qua è meglio", sorride ambiguo.

Ci salutiamo e, quando siamo ormai distanti una ventina di metri, urla: "E dica a tutti che qui c'è la speranza. I figli nascono, ancora".


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