Bosnia, Daniele Dainelli

Un viaggio, ancora una volta nei Balcani, dopo 15 anni di attivismo, progetti e riflessioni sulle risorse dei territori. Un viaggio tutto politico nell'Europa di mezzo

17/10/2014 -  Michele Nardelli

Pubblicato originariamente a puntate sul blog di Michele Nardelli www.michelenardelli.it

Dal mio ultimo viaggio balcanico è passato grosso modo un anno. Non più di tanto dunque, ma nell'agosto scorso fu una puntata veloce nel corso della prima navigazione danubiana di "Viaggiare i Balcani" in occasione della conferenza sul significato del “buono, pulito e giusto” nel valorizzare l'unicità di questo pezzo d'Europa. Non ho dubbi, questo pezzo d'Europa mi manca.

Non è questione di nostalgia, la cosa che mi è mancata è stato soprattutto lo sguardo strabico che la precedente frequentazione mi aveva aiutato ad avere, quella lettura dell'Europa che mi aiutava a comprendere con maggiore nitidezza i processi della modernità che l'hanno attraversata negli anni cruciali seguiti alla caduta del muro di Berlino. Era questa, del resto, la mia risposta a quanti in passato mi chiedevano ragione di questa particolare attenzione verso i Balcani. Come spesso vado dicendo attorno al centenario dell'inizio della Prima guerra mondiale, non è affatto un caso che il Novecento, il “secolo degli assassini” che ancora non abbiamo sufficientemente elaborato, sia iniziato e si sia concluso in quel di Sarajevo.

Passa da qui la costruzione dell'Europa politica. Passano da qui le forme più acute della post modernità seguita al fallimento della sperimentazione politica e sociale che è stato il comunismo reale. Passano da qui le forme più aggressive della deregolazione che poi si riverberano nel resto d'Europa nei modi più svariati, dallo sfruttamento della persona alla criminalità organizzata. Passa da qui quel processo culturale di imbarbarimento che permette di vivere tutto questo come naturale, spesso suffragato dalla più o meno consapevole adesione ideologica al turbocapitalismo.

Ecco, in questo racconto di viaggio, attraverso le immagini e le parole raccolte, vi parlerò di tutto questo.

Il piacere del viaggio e la banalità del turismo di plastica

E' mattino presto nel vecchio motel da poco ristrutturato nei pressi di Počitelj e che solo qualche ora prima ha dato asilo alla stanchezza di un viaggio lungo più di mille chilometri. Nella notte ci siamo lasciati alle spalle il mondo plastificato di un modello turistico che sta divorando la costa croata, mentre dall'altra parte dell'Adriatico quello nostrano boccheggia nella sua insostenibilità di cui il cambiamento climatico è solo uno degli aspetti. Eppure, qui e lì c'è un'umanità che questo desidera per le proprie vacanze, intese come spazio vuoto nella legge tutt'altro che spontanea del divertimentificio, l'industria che ha ormai omologato pressoché l'intero Adriatico. Non tutto, certo, ma dobbiamo pure riconoscere che le esperienze diverse improntate allo slow sono piuttosto rare. Che comunque ci sono e vanno valorizzate.

Nella luce limpida del mattino il mio orizzonte è l'antico borgo di Počitelj, “la città di pietra” come la chiamava Ivo Andrić, con i suoi splendidi edifici in pietra e legno che pure la furia del nazionalismo croato aveva cercato negli anni '90 di cancellare bombardando l'antica moschea, il bagno turco, la scuola coranica, l'antica mensa pubblica, la torre dell'orologio e le raffinate case signorili che compongono questo gioiello della storia. Bombardare la storia: è quel che accade sempre più frequentemente nelle guerre moderne.

Počitelj (flickr/Gregor Grešak )

Ora l'accurata ricostruzione ha riconsegnato Počitelj all'antico splendore. Mi chiedo quante delle molte persone che dal primo mattino affollano l'antico borgo ottomano si sono interrogate su quel che qui accadde nell'agosto del 1993 quando i nazionalisti erzegovesi dell'HVO, spalleggiati dai frati di Međugorje, pensarono che quel tratto di terra dovesse venir ripulito da tutto ciò che raccontava una storia diversa...

Luoghi ricchi di storia e cultura, che ti avvolgono in un'atmosfera speciale. Come a Blagaj, il villaggio che ospita l'omonima tekjia, luogo di meditazione dei sufi, dove nel 1463 venne redatto il famoso editto del sultano Mehemet II, fra i primi esempi di tolleranza religiosa in un tempo di profonda ostilità. Perché nello stesso passaggio di tempo altri editti cacciavano i sefarditi e i musulmani dall'Andalusia che abitavano da secoli o fomentavano pogrom contro le popolazioni ebraiche nelle città europee, mentre questo semplicemente proteggeva i francescani bosniaci da ogni forma di vessazione.

Colgo da subito lo stupore di Antonio e Diego, compagni di viaggio che da tempo mi avevano chiesto di dare concretezza alle immagini di questa Europa tanto presenti nel mio argomentare. Quello stesso stupore che li prende nel vedere la bellezza della città vecchia di Mostar, fascino appena scalfito dalle cianfrusaglie che anche qui un certo modo di intendere il turismo porta con sé. Non è obbligatorio propinare cazzate made in Cina per lasciare il segno e accendere il desiderio di ritornare. Butto un occhio nel negozietto dei prodotti dell'Erzegovina che il programma Seenet ha contribuito a realizzare ma appare desolatamente snobbato dal fiume in piena del turismo arraffone.

E' lo stesso stupore che a sera passa per il loro sguardo nelle vie di Sarajevo, quasi che la raffinatezza dei caffè e dell'umanità che vi si incontra rappresentasse un'ingiustificabile assenza nel proprio bagaglio di cittadinanza europea. Penso fra me che il sentirsi cittadini europei annoveri fra i suoi ingredienti anche la conoscenza, in questo caso la frequentazione specie di un'Europa che nemmeno ti immagini come quella che puoi respirare nelle città che hanno fatto la storia.

Bosnia Erzegovina, un paese stremato

Amo prendere il caffè al Morića Han, nella Baščaršija, il cuore ottomano di Sarajevo. Venne realizzato nel 1531 da Gazi Husrev-beg come parte integrante del progetto che, insieme alla moschea, alla madrasa (la scuola coranica) e alla mensa per la gente povera, costituì una sorta di atto fondativo della città di Sarajevo. In origine era un caravanserraglio, luogo di accoglienza per i viaggiatori ai quali non si negava mai il pane, l'acqua ed un giaciglio. Antiche civiltà, quando l'ospite era sacro e lo straniero il benvenuto.

Ora nessuno sembra accorgersi delle persone che chiedono l'elemosina nelle strade, men che meno di quelle che per dignità o vergogna si arrabattano con quel poco che hanno. Nemmeno negli anni immediatamente successivi alla guerra era così. Mi colpisce la diffusione della povertà delle persone anziane che spesso si trovano a dover fare i conti con una pensione di centocinquanta marchi convertibili (pressapoco settantacinque euro) o anche meno, sempre che lo Stato di cui sono cittadini riconosca loro qualcosa (visto che quello nel quale hanno versato i contributi non esiste più...).

Con un po' di pudore osservo una persona anziana guardare la frutta in una bancarella ed il suo commentare sconsolato di prezzi che se immaginati in un mercato di casa nostra sarebbero stracciati e che invece, rapportati al reddito di qui, possono risultare inaccessibili. L'abito mi racconta di un passato diverso e dignitoso, che la duplice tragedia della guerra e della dissoluzione del paese di cui era parte (e sul quale aveva investito certamente una parte della sua esistenza) ha cancellato.

Sarajevo (flickr/Ilda)

Sarajevo (flickr/Ilda)

Mi viene in mente quando, era il 1996 e l'assedio della città finito da pochi mesi, con Emilio Molinari venimmo ospitati in uno dei condomini non lontano dallo stadio olimpico di Sarajevo. In quell'abitazione viveva un anziano inquilino che colpì la nostra attenzione per la sua signorilità. Con vestito e camicia bianca, se ne stava per tutto il tempo seduto in poltrona, davanti a lui qualche sigaretta contata e delle confezioni di medicinali, a guardare ossessivamente l'orologio che teneva al polso. Ci sembrò una sorta di rituale, come se la sua storia volgesse al termine, anzi fosse già conclusa dopo gli anni di assedio che avevano messo fine a ciò in cui aveva creduto, come ben si poteva comprendere dalla raccolta di riconoscimenti di quell'altra vita ormai infranta appesi alle pareti. E' un immagine che ricorre spesso nella mia memoria, come se avesse a che fare con l'interrogarsi sull'agire umano e in qualche modo mi riguardasse.

Così in pochi anni si è passati dall'economia dell'autogestione (quando il lavoro significava anche abitazione, spaccio aziendale, servizi e spazio ricreativo...) al turbocapitalismo, lacerando il paese fra chi si è trovato con un pugno di vaucher (1), qualche medaglia nel cassetto e null'altro in mano e chi invece si è subito adattato, forse perché già pratico nel farsi gli affari propri, alla logica del business, al malaffare o al “si salvi chi può”.

Basta fermarsi un attimo ad osservare le automobili che sfrecciano lungo la Maršala Tita, la via principale all'ingresso della Sarajevo austroungarica, per rendersi conto delle profonde diversità sociali che segnano il presente bosniaco. Diseguaglianze che sono state all'origine un anno fa delle più importanti proteste sociali che questo paese abbia conosciuto dopo la fine della guerra. E che, nelle maggiori città, hanno portato alla nascita dei Forum civici, spazi inediti di partecipazione con il coinvolgimento di migliaia di cittadini, per la prima volta dopo gli anni '90 a prescindere dalla loro appartenenza nazionale o religiosa. Una fiammata, come spesso accade in questo tempo orfano di ideologie ma ancora privo di nuovi pensieri.

E' come se in Bosnia Erzegovina (ma non si tratta di un fenomeno locale) avessimo a che fare con due economie parallele, quella dei nuovi ricchi che hanno saputo approfittare della deregolazione (e della guerra) per arricchirsi grazie alle privatizzazioni delle proprietà statali, con i denari della ricostruzione, attraverso il controllo dell'import–export, con la corruzione politica o le forme diffuse di criminalità organizzata, e quella di chi a questo nuovo contesto non ha saputo o potuto adeguarsi, non avendo né gli strumenti, né l'energia per reagire. Una divisione sociale ma anche culturale e, vorrei aggiungere, generazionale.

Poteva andare diversamente, certo. Proprio qui a Sarajevo, nel marzo di dieci anni fa, organizzammo come Osservatorio Balcani una conferenza sullo sviluppo locale nella regione. Era il tentativo di dar vita ad un manifesto che divenisse un punto di riferimento alternativo rispetto alle dinamiche dell'economia locale nel dopoguerra. Già allora, infatti, si aveva la percezione che l'economia post comunista (e post bellica) andava assumendo caratteristiche in larga misura estranee ai territori e alla valorizzazione sostenibile delle risorse locali, invece fortemente centralistiche ed eterodirette. Illustrai alla platea dei presenti i punti salienti del manifesto e trovai un'attenzione trasversale, come se a parlare di territorio si potessero ridisegnare i tradizionali schieramenti della politica. Era esattamente così, tanto che vennero da me diversi interlocutori (fra i quali il sindaco Muhidin Hamamdzić e il rappresentante degli artigiani Nasir Jabučar, uno dei maestri del rame della Ulica Kazendžiluk) per complimentarsi e confrontarsi su come dare continuità ad un approccio per loro del tutto nuovo.

Proponemmo questo sguardo anche a Belgrado, Kraljevo, Kragujevac, Novi Sad, Peć–Peja, Prijedor, Scutari, Spalato, Zavidovići... ma non se ne fece granché, essendo la politica (così come la comunità internazionale) incapace di scrollarsi di dosso le categorie del pensiero novecentesco. L'approccio che proponevamo (2) era (e continua ad essere) l'unica strada per abitare la globalizzazione senza subirne gli effetti più disastrosi in termini di omologazione e di impoverimento. Occorrevano idee nuove e una nuova classe dirigente, come da noi del resto. Ma l'offerta politica ha continuato ad oscillare fra nazionalismo e neoliberismo. Eppure, fra questi luoghi carichi di storia e cultura, non mancava e manca certo il “genius loci".

Finito il tempo della ricostruzione e in attesa che i cittadini d'Europa si scoprano europei, manca un'idea di sviluppo economico che non sia quello del rincorrere quel che capita, all'insegna – come si può immaginare – della precarietà e dell'incertezza. Così nell'immaginario dei ragazzi c'è l'idea di andarsene. “Dammi una buona ragione per restare qui” ti dicono e hai voglia nel cercare di dare una risposta razionale, in assenza del fervore e della condivisione di un progetto di comunità.

Precarietà ed incertezza non sono però prerogativa solo dei più giovani. Kanita Fočak mi racconta dei salti mortali cui è costretta nel lavoro di interprete per sopravvivere nei suoi ventiquattro metri quadrati e riuscire ad aiutare i suoi familiari. Anche nel suo caso, laurea in architettura in tasca e più lingue parlate, si vive più o meno alla giornata.

Il paese appare stremato come non l'ho mai visto. Oltretutto piove sul bagnato.

Quei cinquecento metri

«Il secolo appena finito è iniziato a Sarajevo e nello stesso luogo si conclude, ma le diverse prospettive (politica, sociale, ideologica, antropologica, storica) in cui ci si è posti per osservare e analizzare gli eventi balcanici si sono spesso rivelate parziali e insufficienti, e pochi si sono accorti del fatto che nelle opere di Ivo Andrić, premio Nobel per la letteratura 1961, si possono trovare chiavi di lettura estremamente acute e puntuali. Nessun altro autore, infatti, ha percepito, e mostrato, con tanta forza il “brulichio” delle genti balcaniche, le loro interferenze etniche e religiose, i meticciati che forse solo in questa parte d'Europa hanno raggiunto una tale intensità. Nessun altro ha percepito, e mostrato, con tanta precisione le sofferenze di questi popoli, nessuno ha saputo osservare con tanta attenzione e raffinatezza questi luoghi, i Balcani, che – per usare le parole di Churchill – “producono più storia di quanta ne possono consumare”, e appaiono a un tempo come “la polveriera d'Europa” e come “la culla della cultura europea”» (3).

Le parole dell'amico Predrag Matvejević, scritte per la nota introduttiva all'edizione dei “Romanzi e racconti” di Ivo Andrić, ci aiutano a comprendere non solo il valore di un autore dimenticato ma anche la superficialità con cui l'Europa ha guardato a quanto accadeva nel suo cuore balcanico lungo lo scorrere del Novecento fino alla tragedia degli anni '90.

A Sarajevo, il Ponte latino e la Viječnica (l'edificio austroungarico che nel 1992 ospitava la biblioteca nazionale) distano fra loro non più di cinquecento metri. Percorrendoli a piedi dovremmo avere consapevolezza di quanto essi siano stati cruciali nel XX secolo, ma non sempre è così.

A due passi dal Ponte latino, il 28 giugno 1914, un giovane di nome Gavrilo Prinzip assassinava a colpi di pistola l'arciduca ed erede al trono Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, quasi ad anticipare di qualche anno la fine dell'impero (in realtà, degli imperi). Eroe o terrorista? Negli anni a seguire la storiografia abbraccerà l'una e l'altra tesi, tanto è vero che la via dove avvenne l'eccidio fino agli anni '90 era dedicata a Gavrilo Prinzip ed ora ai “Berretti verdi”, unità dell'Armija bosniaca. “Ci hanno fatti dividere anche su questo” ha dichiarato Zlatko Dizdarević in una recente intervista ad Osservatorio Balcani e Caucaso, come se prima vi fosse una narrazione condivisa. Purtroppo non era così, come non lo è del resto su quel che è accaduto sul finire del secolo.

Di certo c'è che, almeno sul piano simbolico, quell'assassinio diede il là alla Prima guerra mondiale con un effetto a cascata che sconvolse l'intera Europa per quattro anni e tre mesi con conseguenze che spesso, nella retorica nazionalista e militarista, vengono dimenticate: fra i soldati si contarono 9.722.000 morti e oltre 21 milioni di feriti, molti dei quali rimasero gravemente segnati o menomati a vita. Fra le popolazioni civili quasi 1 milione di persone morirono direttamente a causa delle operazioni militari e circa sei milioni furono le vittime per effetto di carestie e carenze di generi alimentari, malattie ed epidemie, nonché per le persecuzioni razziali scatenatesi durante la guerra.

Era giunto “il tempo degli assassini”, così come aveva previsto in una delle sue folgoranti Illuminazioni Arthur Rimbaud (4) immaginando quel che avrebbe potuto accadere nell'applicazione della rivoluzione industriale alla tecnica della guerra. Qualche anticipazione – per la verità – c'era stata nella pulizia etnica del continente nordamericano, con l'avvento della mitragliatrice nello sterminio delle popolazioni native di quel continente, ma fu solo con la prima guerra mondiale che si aprì un capitolo del tutto nuovo nell'uso delle armi automatiche, dei bombardamenti e delle armi chimiche. Sarebbe bene che se ne parlasse, nelle celebrazioni del centenario, di questo secolo in cui sono morti in guerra un numero di persone tre volte superiore a quelli periti nei diciannove secoli precedenti (5). Oggi abbiamo oltrepassato il Novecento, ma non possiamo certo dire di averlo elaborato se da quella lezione – come sembra – non abbiamo imparato granché. Così come del resto ben poco si è elaborato di quanto è accaduto nei Balcani negli anni '90.

Percorro quei cinquecento metri lungo la Miljacka nei quali possiamo racchiudere simbolicamente tutto un secolo e arrivo alla Viječnica, di nuovo riportata al suo antico splendore dopo una ricostruzione durata diciotto anni.

Venne bombardata il 26 agosto 1992 e non fu un effetto collaterale della guerra. Era al contrario la volontà di distruggere uno dei simboli di quella città, la sua storia contenuta negli oltre due milioni di volumi che bruciarono per tre giorni e due notti, la sua identità cosmopolita. Non serve aggiungere nulla a quello che ha magistralmente scritto su quel tragico avvenimento Azra Nuhefendić. Se non che in quei giorni non bruciava solo la Viječnica, andava in fumo anche un'idea di Europa come incontro fra Oriente e Occidente. E mentre bruciava l'Europa noi volgevamo lo sguardo altrove...

E' la seconda volta che entro in questo luogo. La prima fu negli anni del dopoguerra: fra le macerie, nelle quali era stato ricavato uno spazio espositivo, non si poteva che piangere nel rendersi conto di dove poteva arrivare l'umana malvagità. Oggi provo una forte emozione, per la grande raffinatezza della ricostruzione e per il valore di rinascita di questo luogo, a prescindere dalle polemiche che ne hanno accompagnato la sua inaugurazione, il 9 maggio scorso. Perché la Viječnica non sarà più biblioteca nazionale, bensì ufficio di rappresentanza della Municipalità di Sarajevo, com'era del resto in origine. L'amico Luca Rastello ne ha scritto sul quotidiano “la Repubblica”, riprendendo le polemiche che sono sorte per una decisione che suona così: “la Viječnica non riaprirà mai”.

Ha riaperto invece il 15 gennaio scorso l'antica biblioteca islamica Gazi-Husrev-Bey, in un moderno ed elegante edificio a due passi dalla scuola coranica. Mi ostino a non leggervi alcuna contrapposizione, ma non posso far finta di non vedere l'onda lunga della guerra in un processo di radicalizzazione dell'identità nazionale dei luoghi, a Sarajevo con un numero sempre maggiore di donne interamente ricoperte di nero (cosa anche solo cinque anni fa piuttosto rara e che vent'anni fa non esisteva proprio), a Višegrad (la città del ponte sulla Drina) con l'ostentazione dei simboli ortodossi e dei caratteri cirillici, come a segnare un'identità contrapposta, celebrata quest'anno con la nascita di “Andrićgrad”, come la definisce Luca nel suo pezzo “la nuova Disneyland neo-tradizional-nazionalista di Emir Kusturica”. Aveva proprio ragione James Hillman quando scriveva che, in assenza di elaborazione del conflitto, “le guerre non finiscono mai” (6).

Del resto, chi la guerra l'ha vinta è al potere e si guarda bene, complice una prospettiva europea ancora lontana, di uscire dall'imbroglio etnico che è all'origine del pubblico massacro e delle private fortune. Imbroglio che ancora continua anche perché offre una risposta semplice ad una situazione complessa, un nemico con cui prendersela per le cose che non vanno, un rancore da covare per tenere alto il tasso di adrenalina. E che andrebbe svelato.

In Bosnia Erzegovina non mancano gli intellettuali. Oltre che sorridere (a ragione) delle schiere di fotoreporter inviati a Sarajevo per il 28 giugno e perennemente a caccia di immagini forti, dovrebbero anche rammentare lo snobismo che ostentavano all'inizio degli anni '90 di fronte a personaggi come Radovan Karadzić che inneggiavano allo scontro di civiltà. Li consideravano fenomeni da baraccone e si disinteressavano ampiamente del rancore che covava nella “krčma” (la locanda) e del “balkansko blato” (il fango balcanico della “palanka”, il villaggio) per poi trovarsi con gli uni, capi politici e militari, e con il fango nelle città. A pensarci bene abbiamo fatto la stessa cosa con Umberto Bossi e Mario Borghezio in Italia, non capendo nulla di un fenomeno che avrebbe contagiato di lì a qualche anno l'Europa intera.

Ora più che mai questi intellettuali dovrebbero far sentire la loro voce, sempre che abbiano qualcosa da dire. E noi, da questa parte del mare, avremmo dovuto dar loro voce piuttosto che perdere tempo a reiterare il buonismo degli aiuti umanitari. Perché il problema è quello della qualità delle classi dirigenti e della capacità della politica di produrre visioni che sappiano far tesoro dell'esperienza e del secolo che ci siamo messi alle spalle.

Lo scontro di civiltà, tanto evocato prima in occidente e poi anche in oriente, non era (e non è) una bischerata folkloristica, ma qualcosa di maledettamente serio che sottendeva (e sottende) la logica dell'esclusione, in altre parole la fine dell'umanesimo per giustificare la “non negoziabilità” del proprio stile di vita. Ovvero la guerra. Il prologo lo abbiamo avuto, sul finire del Novecento, qui e nel vicino oriente.

Penso fra me che quei cinquecento metri andrebbero percorsi senza fretta, magari riflettendo sul vano scorrere dell'acqua sotto i ponti della Miljacka. E non solo.

Acqua, acqua, acqua... e piove sul bagnato

Anche quando non piove, l'acqua è un elemento che accompagna costantemente il viaggiatore balcanico, in particolare in Bosnia Erzegovina. Non c'è strada che non proceda lungo un corso d'acqua, un fiume o un lago che sia.

Ad accompagnarci lungo la prima parte del nostro itinerario era il mare Adriatico, affaticato dalle orde dell'uomo senza qualità, ma pur sempre ricco di fascino. Lasciato alle spalle il mare con i suoi inespugnabili arcipelaghi un tempo incubo dei veneziani, ripercorriamo a ritroso il corso della Neretva (uno dei tre fiumi della vecchia Jugoslavia che sfociano nell'Adriatico), il fiume che rappresenta l'anima di Mostar.

(flickr/tamasvarga67)

(flickr/tamasvarga67)

Prima ancora però di raggiungere la splendida capitale dell'Erzegovina, assistiamo a quella sorta di miracolo della natura che è la sorgente della Buna (7), la cui portata alla fonte è considerata la più imponente d'Europa. Siamo alle porte di Mostar. Quando d'estate il sole picchia sulle brulle montagne riverberandosi sulla città, l'acqua fredda della Neretva ha l'effetto di creare un particolare microclima lungo le terrazze che l'acqua ha scavato in prossimità del ponte, rendendo il soggiorno particolarmente gradevole.

Proseguiamo lungo la valle della Neretva fino a giungere Jablanica dove il fiume forma un grande lago artificiale e, ancora, a Konijc dove salutiamo la Neretva. Ora è la Trešanica ad accompagnarci per un tratto del nostro percorso, poi la Sirovica che s'incrocia con la Jehovac. Di seguito incrociamo il fiume Zujevina che ci porta fino a Sarajevo dove versa le sue acque nella Bosna, il fiume che nasce a Iližda, l'area termale della capitale bosniaca con i suoi edifici austroungarici usciti malconci dall'assedio degli anni '90. Sarajevo è attraversata per tutta la sua lunghezza dalla Miljacka con i suoi ponti che hanno segnato la storia del Novecento.

Quando lasciamo la “Gerusalemme dei Balcani”, la strada sale per alcuni chilometri verso la montagna seguendo proprio il corso di questo fiume. Scolliniamo e ci imbattiamo in un altro corso d'acqua imponente, la Drina. Un tempo fiume impetuoso, oggi irregimentato da un sistema di dighe, mantiene comunque il suo carattere altero e misterioso. Giunti a Višegrad la strada sale verso il confine con la Serbia seguendo il corso della Rzav. Poi altri torrenti e fiumi, tutti in un'unica direzione: il grande ecosistema danubiano. Il Danubio con i suoi 2888 chilometri è il grande fiume europeo che scorre entro (meglio dire oltre) i confini di dieci paesi (Germania, Austria, Slovacchia, Ungheria, Croazia, Serbia, Bulgaria, Romania, Moldavia e Ucraina) mentre il suo bacino idrografico ne comprende altri nove (Italia, Polonia, Svizzera, Repubblica Ceca, Slovenia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Macedonia e Albania). Il fiume che più di altri rappresenta l'Europa, “il fiume sopra le nazioni” (8). Ma qui entriamo in un'altra parte del nostro viaggio, di cui parlerò nel seguito di questo racconto.

Se l'acqua rappresenta il petrolio del futuro, allora la Bosnia Erzegovina – con una quantità d'acqua pro capite sette volte la media europea – è uno dei paesi più ricchi del vecchio continente. L'acqua è fonte di vita, ma anche di straordinari paesaggi naturali, di pratiche termali e sportive, di opportunità legate alla produzione di energia e a molto altro ancora. Ma, come spesso accade, la ricchezza di risorse può diventare motivo di impoverimento. Un po' perché c'è qualcuno che ci mette le mani sopra (ed è ciò che è accaduto con le privatizzazioni e con il tentativo delle multinazionali dell'energia di imbrigliare oltremodo i corsi d'acqua), un po' perché in un contesto fortemente deregolato (e la guerra è il massimo contesto di deregolazione) l'ambiente è una delle prime vittime.

Ricordo come nell'immediato dopoguerra bosniaco i corsi d'acqua fossero diventati delle vere e proprie cloache, dalle carcasse di automobili alle macerie delle case. Un'emergenza rifiuti tutt'altro che risolta se si pensa che oggi la forma di smaltimento più diffusa in questa parte d'Europa consiste nel bruciarli a cielo aperto, spesso in prossimità di corsi d'acqua. Per secoli, del resto – e sotto ogni latitudine – l'acqua ha rappresentato un modo normale di smaltimento dei rifiuti, ne sappiamo qualcosa anche in Italia e in Trentino. La differenza è che un tempo i rifiuti erano pochi e prevalentemente organici: con la rivoluzione industriale e l'invenzione della plastica le condizioni dello smaltimento sono radicalmente mutate.

Ne vediamo le conseguenze proprio lungo il corso della Drina, gonfio d'acqua ma anche di bottiglie di plastica che in lontananza, almeno a prima vista, sembrano un nuovo tipo di creature lacustri raccolte a migliaia dalle barriere poste in prossimità degli impianti idroelettrici. Le alluvioni che hanno sconvolto la regione nella scorsa primavera hanno reso la situazione ancora più difficile e proprio mentre attraversiamo le zone colpite qualche mese fa, di nuovo la situazione si fa critica. Una vera e propria cascata d'acqua ci ferma lungo la “partizanski put”, la strada dei partigiani che costeggia la Drina. Acqua sopra, acqua di lato, acqua dappertutto lungo mille rivoli che si formano “lungo strette gole fra montagne scoscese o profondi canyon dalle pareti a picco” (10) che improvvisamente si aprono nella piana di Višegrad. Comprendo più che in ogni altra occasione la descrizione che ne fa Ivo Andrić a proposito della grande massa d'acqua che nei mesi delle piogge rendeva problematica la costruzione di un ponte là dove da sempre esisteva, per passare da una sponda all'altra del grande fiume, “il traghetto di Višegrad”.

Quel ponte composto da undici arcate imponenti, nato dalla fantasia di un bambino di Sokolovići rapito secondo il rituale dell'“adžami-oglan” e ritornato da Istanbul come gran visir Mehmed-pascià, rappresentava nel tempo in cui venne realizzato (i lavori finirono nel 1571) una straordinaria opera di ingegneria civile. Dopo anni di abbandono, oggi il ponte è cantierato per una ristrutturazione i cui lavori non sembrano dare segni di grande fervore. Come già quando venne realizzato a rallentare i lavori non è “la ninfa del fiume” (10) ma qualcosa che sembra aver a che fare con la vita della “kasaba”, tanto che il viaggiatore si porta via l'impressione che il ponte sia diventato un oggetto ingombrante per una comunità che non riesce ad uscire dall'incubo nazionalista (che da queste parti spesso coincide con quello religioso) in cui s'è cacciata a partire dagli anni '90.

I cui segni sono evidenti non solo nelle croci innalzate come pezzi di artiglieria a difesa di immaginarie trincee di una guerra niente affatto elaborata e per ciò stesso infinita, ma anche nelle tragicamente concrete aree ancora minate, ordigni di morte che hanno continuato silenziosamente ad uccidere e che l'acqua delle alluvioni ha rimesso in circolo.

Quando arriviamo a Belgrado è finalmente una bella giornata di sole. Qui lo spettacolo d'acqua prosegue nell'incontro sotto la fortezza turca di Kalemegdan dei due grandi fiumi, la Sava e il Danubio. All'orizzonte l'area industriale di Pančevo bombardata dalla guerra umanitaria del 1999 la cui eredità in termini di inquinamento dell'acqua e del suolo non è ancora smaltita. Come non lo è l'arsenico delle miniere di Aurul nel Maramures rumeno, finito l'anno successivo nel Tibisco e poi nel Danubio grazie all'irresponsabilità di multinazionali senza scrupoli e di governi conniventi. Ma “il fiume della melodia”, come lo definiva il grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin, quand'anche provato, non ha mai smesso di rappresentare una straordinaria metafora europea.

Nel 2003 navigammo sul grande fiume da Vienna fino a Belgrado, in un battello che raccoglieva persone provenienti da tutti i paesi della regione, sfidando visti e confini. S'intitolava “Danubio, l'Europa s'incontra” e fu un'esperienza straordinaria tanto per la bellezza dei luoghi quanto per quello che ci lasciò sul piano culturale e politico. Fra qualche giorno, in un viaggio del turismo responsabile riprenderemo proprio qui a Belgrado quel testimone.

Uomini grossi come alberi...

«Quelle bambine bionde»

Paolo Conte, Diavolo Rosso

 

Mentre il gruppo klezmer (11) suona magicamente le composizioni tradizionali degli ebrei ashkenaziti nella grande sinagoga di Novi Sad le immagini nei miei occhi si sovrappongono. Troppo distante la raffinatezza di queste note e le grevi canzoni di amore e di guerra che mi accompagnano a Guča (12), dove ritorno dopo anni per cercare di capire se è cambiato qualcosa oppure no.

Si dice che il Dragačevski Sabor (il festival di Guča) abbia smesso le bandiere del nazionalismo serbo ed in effetti le immagini di Karadzić e di Mladić sono d'un tratto scomparse (rimangono invece quelle cetniche, fra qualche ritratto di Tito e del Che), ma in realtà il grido di battaglia di una nazione che fatica ad uscire dal proprio incubo (che diventa autismo) non lo vedi solo a Guča ma anche nelle feste famigliari. Identità che, in assenza di nuove, guardano al passato. L'Europa, che potrebbe esserlo, è lontana (e ostile). A chi dunque assomiglia di più il paese reale? Ad Exit (13) o a Guča?

L'impoverimento che segna l'esistenza delle persone in quella che era la Jugoslavia di un tempo non è solo materiale. Eppure non abbiamo a che fare con paesi poveri, se mai un territorio possa essere definito così. L'impoverimento è immateriale, investe ad esempio la formazione delle classi dirigenti, che qui si avverte più ancora che altrove per gli effetti anche demografici che la guerra degli anni '90 ha prodotto. Un numero considerevole di intellettuali se ne sono andati via da tempo, lasciando il campo ad una classe dirigente fatta di affaristi e profittatori o comunque scadente. Il resto lo fa la crisi della politica, in astinenza di pensiero qui come altrove. Il che non significa assenza di vita culturale, che però nelle sue espressioni migliori risulta sempre più circoscritta alle aree urbane, approfondendo quel solco di incomunicabilità fra città e campagna che ha rappresentato una delle chiavi interpretative di quanto accaduto in queste terre alla fine del Novecento.

Sarebbe tuttavia superficiale attribuire ai soli avvenimenti degli anni '90 il processo di impoverimento culturale di cui stiamo parlando. Già nel 1981 Radamir Kostantinović nel suo “Filozofjĭie palanke” (14) mise l'accento sul crescere nelle tante periferie del “Balkansko blato”, il fango balcanico, e dei luoghi del rancore, quella “balkanska krčma” ovvero la “locanda” ostile all'urbanità e all'ambiente intellettuale e cosmopolita che esprime.

Anche in questo caso, nulla di nuovo se pensiamo alle dinamiche dello spaesamento che hanno attraversato il profondo nord italiano o all'analfabetismo di ritorno che riscontriamo nei dati Istat sulle pratiche di lettura (15) in Italia, ma i fenomeni sociali e culturali qui – come ho già avuto modo di dire molte volte – hanno un effetto dilatato, quell'acceleratore balcanico che fa di questa regione europea una sorta di palla di vetro dove leggere la postmodernità.

Con questi pensieri sono seduto di buon mattino in un motel lungo la strada che collega Užice a Čačak. La sera precedente, stanco com'ero di guidare, mi sarei fermato in qualsiasi luogo, compreso uno di quegli alberghi che tanto ricordano la decadenza della vecchia Jugoslavia. In effetti la stanza che mi ospita in una notte di pioggia intensa non si scosta per nulla dallo squallore di tanti altri luoghi analoghi che ho conosciuto in questi anni, moquettes sporca e polverosa, rubinetterie in sfacelo, “voci e bisbigli d'albergo” (16). E che libero non appena mi sveglio così da aver il meno possibile a che fare con quel degrado.

Eppure, anche il Motel Merak si rileva interessante per comprendere almeno uno spaccato della realtà che nelle nostre frequentazioni tendiamo ad ignorare. Qui, a pochi passi dal piazzale dove ad ogni ora del giorno e della notte si fermano camion e torpedoni, osservo un'umanità che mi appare perduta nel mito consumistico e allora comprendi che i nostri discorsi, in primo luogo quello di riconsiderare i nostri stili di vita, non hanno alcuna chance. In fondo non è poi molto diverso in altre latitudini, solo che qui l'“uomo nuovo” lo hanno già sperimentato, non doveva pensare a nulla perché – come scrive Rada Iveković – ci avevano pensato i loro padri a costruire la società perfetta (17), e l'esito lo abbiamo drammaticamente visto nell'ultimo decennio del secolo scorso.

Altre immagini mi passano davanti, arrivano dal confine fra Ukraijna e Russia: ancora teste rasate, muscoli e armi automatiche. Non diverse dai moderni tagliagole che spadroneggiano nei luoghi che l'Occidente ha ridotto in macerie in nome dello scontro di civiltà e che con quella stessa moneta ora ripagano (oltre alla loro gente) anche i civilissimi aggressori. Sotto le più diverse latitudini, i soldati moderni si assomigliano tutti.

Massimo Moratti, amico e sensibile compagno di strada di anni balcanici che incontro a Belgrado, coglie il mio stato d'animo, la preoccupazione verso l'imbarbarirsi delle relazioni fra gli esseri umani, il rammarico del tempo perduto in progetti umanitari che non andavano oltre l'emergenza (e le umane miserie), la politica ridotta a sondaggio permanente e dunque a quel che la gente vuol sentirsi dire.

Potremmo dimenticare la strada e, come il “Diavolo Rosso” di Paolo Conte (18), metterci lì sul ciglio a bere un'aranciata, aspettando tempi migliori. Ad esserne capaci.

La città del (non) ritorno

Il racconto del mio viaggio potrebbe finire qui. Ma non sarei onesto con me stesso se non parlassi anche di quel tratto di strada che nemmeno in questa circostanza ho voluto percorrere.

Conosco le strade della Bosnia Erzegovina come quelle della mia terra. Per averle percorse centinaia di volte, fra aiuti umanitari e una cooperazione che voleva essere diversa. E poi, soprattutto, per capire. Per cercare di comprendere quel che stava accadendo in Europa, come era potuto accadere che dopo mezzo secolo di “fratellanza e unità” tutto fosse andato in frantumi in forme così cruente. Per entrare nelle sfumature, nella psicologia sociale, nel genio dei luoghi.

Non è stato affatto tempo buttato alle ortiche, perché tutto questo mi ha permesso di avere uno sguardo nuovo sul mio tempo. Quello strabismo di cui ho parlato all'inizio di questo racconto e che mi ha insegnato ad osservare la realtà da prospettive diverse, per avere una diversa profondità nel leggere gli avvenimenti, ricevendo ben più di quanto abbia potuto dare sul piano della solidarietà o della progettualità messa in campo in questi anni. Devo riconoscere di aver costruito così la mia cittadinanza europea, con quel qualcosa di più che viene dal trovarti all'incrocio fra oriente e occidente, fra continente e mediterraneo, che solo i Balcani ti possono dare.

In questo infinito viaggiare, la città di Prijedor ha avuto un ruolo decisivo. Tanto per cominciare ha rappresentato il mio primo contatto con la guerra, quella reale che la mia generazione poteva toccare con mano perché sull'uscio di casa. Avrò per sempre negli occhi le case di Kozarac (19) di cui rimanevano le spettrali scatole annerite, il villaggio di Hambarine dove tutto era divelto per scongiurare il ritorno (20), la cittadina di Ljubija dove sorgeva la grande miniera di ferro a cielo aperto usata durante la guerra come fossa comune e ridotta ad un immenso campo profughi... l'incontro con i signori della guerra, personaggi inquietanti che loro malgrado mi hanno aperto gli occhi sulla postmodernità.

Nel 1996 prendemmo (21) per mano quella città, nell'improbabile tentativo di farla uscire dal gorgo maledetto in cui si era cacciata quattro anni prima diventando “la capitale inaccessibile” (22) di un nazionalismo che in realtà nascondeva un'operazione di gangsterismo ordita da un gruppo di potere il cui interesse stava nella rapida accumulazione di denaro e beni.

Non voglio qui ripetere ciò che questa città ha rappresentato durante la guerra di Bosnia. Né tanto meno ripercorrere lo straordinario lavoro di diplomazia popolare e di cooperazione di comunità proseguito per più di un decennio e che ha coinvolto un segmento significativo dell'impegno per la pace attraverso la generosità e l'intelligenza di tante persone nella mia terra (se volete approfondire, con Mauro Cereghini ne abbiamo parlato diffusamente in “Darsi il tempo” (23).

Intendo invece dire due cose sul perché, pur ripercorrendo le affezionate rotte balcaniche, a Prijedor non ho messo piede da più di cinque anni. Eppure se questa città in una certa misura si è scrollata di dosso l'immagine della pulizia etnica, diventando nel dopoguerra “la città del ritorno”, lo si deve proprio al lavoro di tante persone che, insieme a me, hanno creduto in una diversa cooperazione che andasse oltre la dimensione umanitaria.

Quando, dopo dieci anni di frequentazioni assidue e di attività che non trascuravano nulla della condizione umana in quella città, posi all'assemblea del Progetto Prijedor la necessità di impegnarci a fondo per far emergere dalle macerie una nuova classe dirigente, mettendo da parte la logica degli aiuti (senza per questo rinunciarvi) e proponendoci di investire più di quanto non avessimo fatto fino a quel punto in attività culturali e nell'elaborazione del conflitto, prevalse un altro approccio.

Dovevo capirlo da subito, la logica degli aiuti non chiede a nessuno di mettersi in gioco, non sfiora la (falsa) coscienza di alcuno, né ti porta in conflitto con i nuovi potenti che sulla divisione etnica hanno fatto i loro interessi e costruito il loro potere. Se il sindaco di Prijedor era il vecchio direttore delle Poste che aveva svolto un ruolo cruciale nell'operazione di esproprio organizzato come venne evidenziato dal rapporto Mazowiecki (24), pazienza. L'ingerenza che ci portò in rotta di collisione con i “signori della guerra” e che contribuì in maniera decisiva a rendere possibile l'avvio del ritorno delle popolazioni che avevano subito la pulizia etnica, il duro confronto attorno alla narrazione di quanto era accaduto negli anni '90 che avviammo con la costruzione del “Forum Civico” e con il “Progetto memoria”, non erano più nelle corde del progetto al quale avevo dato anni di lavoro. Peccato. Forse richiedeva un coinvolgimento troppo forte, forse qualcosa che sembrava più grande di noi. Difficile anche qui...

Nella sala mi guardavo attorno, troppe persone che a quella sfida avevano creduto non c'erano più, qualcuno mi considerava un matto che insisteva nel voler cambiare il mondo, altri proprio non capivano. Personalmente non avevo voglia di perdere tempo con la “banalità del bene”, né tanto meno con la cattiveria dell'ignoranza. Lo dissi senza ritrosia, né rancore... e me ne andai.

Così la strada per Prijedor non l'ho più voluta imboccare. Con la nostalgia per le tante persone care, con il dispiacere di non dare spiegazioni per evitare di mettere le persone nell'imbarazzo di doversi schierare magari mettendo in discussione la fedeltà al capo, con il rammarico del sentirti dire a mezza voce (anche perché “i buoni” sanno essere vendicativi) che non era più come prima.

Spero solo rimangano le tracce di questo lavoro, se non nelle cose almeno nelle persone. Anche perché quel che sembrava impossibile ad un certo punto è iniziato ad accadere. Non dimenticherò mai le parole dell'amico Sead Jakupović, oggi presidente del Consiglio Comunale di Prijedor, quando mi disse che nemmeno potevamo immaginare quanto fosse stata decisiva la nostra presenza nel favorire il ritorno della sua gente a Prijedor.

So che la città, rispetto a quella che ho conosciuto nell'immediato dopoguerra, è oggi quasi irriconoscibile, che i segni della tragedia sono – agli occhi del visitatore – praticamente scomparsi, che l'arredo urbano è molto curato, che a dispetto della situazione in Bosnia Erzegovina a Prijedor sembra esserci un fervore economico altrove inesistente. Eppure a Omarska (25), laddove nella primavera del 1992 fra i capannoni della grande miniera riapparve lo spettro dei campi di concentramento, non c'è nulla che ricordi la tragedia del 1992, nemmeno un segno a testimoniare che in quella casa bianca dove si svolgevano interrogatori e torture passarono migliaia di persone. Come avveniva negli anni del dopoguerra bosniaco, la proprietà anglo-indiana della miniera, il colosso mondiale dell'acciaio Mittal che ha realizzato la grande torre per le Olimpiadi 2012 di Londra (l'ArcelorMittal Orbit), allontana gli estranei che intendono mettere un fiore in quel luogo dove persero la vita centinaia di persone.

No, nemmeno in questo viaggio in libertà, dove pure l'idea di ritornare sui miei passi l'avevo messa in conto, alla fine ho voluto far ritorno a Prijedor.

 

Note:

( 1) La compensazione che veniva data ai lavoratori per la privatizzazione delle strutture produttive nelle quali lavoravano.

( 2) Faccio qui riferimento ad una comunità di pensiero che prese corpo attorno al “Manifesto per lo sviluppo locale” di Aldo Bonomi e Giuseppe De Rita (Bollati Boringhieri editore)

( 3) Ivo Andrić, Romanzi e racconti. Mondadori, 2001

( 4) Arthur Rimbaud, Mattinata d'ebbrezza. In “Opere”, 1971

( 5) Marco Revelli, Oltre il Novecento. Einaudi, 2001

( 6) James Hillman, Un terribile amore per la guerra. Adelphi, 2004

( 7) Il fiume Buna nasce in prossimità della tekjia di Blagaj, di cui ho già parlato in questo racconto di viaggio.

( 8) Claudio Magris, Danubio. Garzanti

( 10) Ivo Andrić, Il ponte sulla Drina. In “Romanzi e racconti”, Mondadori, 2001

( 11) Si tratta del J'Haz Klezmori di Novi Sad

( 12) Piccolo centro rurale non lontano da Čačak, nel cuore della profonda Serbia, dove ogni anno si svolge il festival degli ottoni.

( 13) Manifestazione di musica elettronica che si svolge ogni anno nella capitale della Vojvodina

( 14) Radamir Kostantinović, Filozofjĭa palanke. Nolit Beograd, 1981

( 15) A questo proposito voglio qui ricordare l'importanza della LP 10/2013 sull'Apprendimento Permanente di cui sono stato il primo firmatario e il cui testo, insieme al materiale preparatorio, potete trovare nella sezione Disegni di Legge del sito www.michelenardelli.it

( 16) Paolo Conte, Diavolo Rosso, 1982

( 17) Rada Iveković, Autopsia dei Balcani. Cortina Editore, 1999

( 18) Testo bellissimo dedicato al ciclista astigiano Giovanni Gerbi

( 19) Centro abitato a pochi chilometri da Prijedor in cui vivevano migliaia di famiglie bosniache

( 20) «Con le loro moschee non bisogna limitarsi a distruggere i minareti, bisogna ribaltarne le fondamenta, cosicché non possano più ricostruirle. Se fai questo se ne vanno, se ne vanno per conto loro» Dichiarazione rilasciata dal capo della polizia di Prijedor Simo Drljača, “il più potente signore della guerra a Prijedor”. In “La guerra in casa” di Luca Rastello, Einaudi, pag.219

( 21) Mi riferisco ai volontari della Casa per la Pace di Trento

( 22) Luca Rastello, “La guerra in casa”. Einaudi, 1998

( 23) Mauro Cereghini e Michele Nardelli, Darsi il tempo. Emi, 2008

( 24) «... servì per favorire le transazioni finanziarie necessarie. Era evidente che sotto il comando di Pavić l'ufficio postale era usato, fra l'altro per drenare e ripulire denaro durante la presa della città». Citato in “La guerra in casa”, ibidem.

( 25) Il campo di Omarska era il principale centro di concentramento delle vittime della pulizia etnica nella municipalità di Prijedor


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