Dayton, 21 novembre 1995

Al termine di una lugubre campagna elettorale, domenica i bosniaci si recano alle urne. Il dibattito politico sembra procedere a ritroso, in un paese incatenato dalla pesante eredità dei trattati di pace. Nostro commento

28/09/2006 -  Andrea Rossini

Questo articolo viene pubblicato contemporaneamente su Osservatorio Balcani e Left Avvenimenti

La Bosnia Erzegovina vota, undici anni dopo. Ne sono passati tanti da quando, in una base aerea dell'Ohio, Slobodan Milosevic, Franjo Tudjman e Alija Izetbegovic firmavano gli accordi che ponevano fine a tre anni e mezzo di guerra nel cuore dell'Europa. Rivedere oggi le foto di quei leader sorridenti, seduti ad una scrivania con la penna in mano, provoca una strana sensazione. Forse sarebbero state meglio delle foto segnaletiche. Tutti e tre, negli anni successivi, sono stati indagati dal Tribunale dell'Aja per crimini di guerra. I giudici non sono riusciti a processarne nemmeno uno, sono tutti morti. Ma per comprendere la Bosnia di oggi, bisogna ripartire da quelle facce sorridenti. Erano contenti, avevano vinto. Nei rispettivi schieramenti, le voci dissidenti erano state ridotte al silenzio. La comunità internazionale, per non dover assistere più alla carneficina, approvava la costituzione di uno Stato ingovernabile, fondato sul razzismo e sulla divisione etnica ad ogni livello, sociale ed istituzionale: la Bosnia di Dayton.

Dayton

In quanto trattato di pace, Dayton ha avuto successo. Dal '96 ad oggi, in Bosnia Erzegovina, non ci sono praticamente più stati incidenti di rilievo, nulla di paragonabile agli anni della guerra. Nessun attacco contro le forze internazionali, che controllano il paese, nessuno scontro. Il fallimento è avvenuto al livello della costruzione dello Stato e delle istituzioni, ma era un esito che faceva parte dello stesso dna di quegli accordi. Il successo dei signori della guerra e la creazione di uno Stato funzionale erano obiettivi inconciliabili. La struttura della Bosnia Erzegovina, oggi, è ancora in larga parte la fotografia del punto in cui erano arrivati gli eserciti 10 anni fa. Lo Stato è diviso in due entità (Republika Srpska, con capitale Banja Luka, e Federacija BH, con capitale Sarajevo) e un distretto (Brcko). Le due entità hanno ognuna il proprio parlamento, presidente e primo ministro. La Federazione "croato-bosgnacca" è a sua volta divisa in dieci Cantoni, ognuno con un proprio parlamento e premier. Nella Federazione naturalmente ci sono poi città, come Mostar, dove tutto è etnicamente diviso, compresa la raccolta dei rifiuti. Al vertice dello Stato c'è una presidenza tripartita a rotazione. Ogni pochi mesi il rappresentante serbo cede il posto a quello croato, poi al bosgnacco e via così. Gli "altri" popoli bosniaci (i rom ad esempio, o tutte le altre minoranze) non sono nemmeno presi in considerazione nella articolazione delle istituzioni. Loro a Dayton non c'erano.

L'unico punto in cui i signori della guerra hanno ceduto è stato il cruciale Annesso 7, quello relativo ai ritorni. Durante la guerra, più della metà dei Bosniaci (le stime parlano di 2 milioni e 200.000 persone, un vero e proprio tsunami per una popolazione di poco più di 4 milioni) sono stati costretti dalla pulizia etnica a lasciare le proprie case per rifugiarsi all'estero o in altre parti del Paese. L'Annesso 7, in sintesi, decretava la possibilità per tutti i rifugiati e sfollati di fare ritorno. La misura era politicamente dirompente. Gli accordi di Dayton, che confermavano la divisione etnica, prevedevano dunque un meccanismo interno che avrebbbe potuto disinnescare l'intero sistema. Il progressivo ritorno dei rifugiati avrebbe dimostrato la sconfitta dei nazionalisti ristabilendo il quadro normale della società bosniaca, multinazionale e multietnica. Tutti a casa, dunque. Era il novembre del 1995.

Tutti a casa?

Alcune settimane fa (1), l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha reso note le statistiche sui ritorni in Bosnia Erzegovina. Dopo undici anni, sono un milione (circa la metà di quanti erano scappati) quelli che hanno fatto ritorno. Bicchiere mezzo pieno.

L'autorevole testata giornalistica regionale BIRN (Balkan Investigative Reporting Network), tuttavia, contesta questi dati. Secondo la recente inchiesta di Nidzara Ahmetasevic (2), molte persone sono tornate solo per poter vendere la propria proprietà a famiglie del gruppo etnico maggioritario, e ripartire. In Bosnia non si tiene un censimento dal 1991, ma alcuni dati raccolti a livello locale chiariscono il quadro. Scrive la Ahmetasevic:

"A Sarajevo, dove il processo dei ritorni si è ormai completato, la composizione della popolazione è mutata drammaticamente. I dati disponibili per il Cantone di Sarajevo suggeriscono che circa l'80% della popolazione è costituita da bosgnacchi, l'11% da serbi, mentre il 6% sono croati.

Il cambiamento è radicale rispetto al censimento del 1991, in cui i bosgnacchi rappresentavano solo il 49% della popolazione di Sarajevo, rispetto ad un 29% di serbi e ad un 7% di croati. Circa il 19% dei cittadini si definiva jugoslavo.

Nella Republika Srpska si stima che il 90% della popolazione attuale sia composto da persone di etnìa serba. Prima della guerra le stime mostrano che la maggioranza della popolazione era bosgnacca".

Tamburi di guerra

Il primo ottobre prossimo si terranno le elezioni politiche. I bosniaci eleggeranno i tre presidenti, il presidente e i due vicepresidenti della Republika Srpska, la camera dei deputati a livello statale, i parlamenti delle due entità e i dieci parlamenti cantonali della Federazione. I candidati sono 7.425, in rappresentanza di 36 partiti e otto coalizioni, e 12 candidati indipendenti. Gli elettori registrati sono 2.736.886.

La campagna elettorale è stata la più violenta di questi ultimi anni. Molti slogan e parole d'ordine sono gli stessi del periodo della guerra, riaggiornati. Dopo la vittoria del referendum per l'indipendenza del Montenegro, un leader (ex) moderato, Milorad Dodik, del Partito Socialdemocratico Indipendente, ha invocato per i serbi di Bosnia il diritto a svolgere un referendum per decidere se restare nella Bosnia Erzegovina o dare vita ad un nuovo Stato. I negoziati in corso a Vienna sullo status del Kosovo, e il senso di isolamento dei serbi, rafforzano questo tipo di posizioni.

Risponde a Dodik, nell'altra entità, Haris Silajdzic, leader del partito "Per la BiH" (il cui slogan elettorale è "BiH al 100%"), affermando che la Bosnia Erzegovina non può essere divisa in modo pacifico, e che ogni tentativo in tal senso condurrà alla guerra (3).

Mentre i toni si accendono, l'Alto Rappresentante, il "proconsole" internazionale che ha retto il paese in questi anni, ha comunicato che il 30 giugno prossimo lascerà il paese (4). Secondo Zlatko Dizdarevic, ex giornalista del sarajevese Oslobodjenje e caporedattore del settimanale Svijet, uno dei motivi dell'asprezza della campagna elettorale è proprio questo: "La lotta per il potere durante le precedenti elezioni era relativamente più tranquilla, semplicemente perché la dimensione del potere che veniva offerto era di gran lunga inferiore (5)".

Con la fine del protettorato, i politici bosniaci intravedono la possibilità di tornare a decidere. Ristabilire il legame di responsabilità tra elettori ed eletti è un fatto di democrazia. Finora in Bosnia ha governato un rappresentante internazionale non eletto, mentre gli eletti locali in pratica non avevano il potere. Ma il problema è come questo potere verrà gestito.

Le gabbie etniche imposte dalla Bosnia di Dayton rendono improbabili grossi cambiamenti rispetto alle posizioni di 10 anni fa. I leader "nazionali" continueranno a governare all'interno dei propri recinti e sui propri popoli, aiutandosi a vicenda nell'alimentare e giustificare retoriche speculari. E' normale che sia così. In fondo, la guerra l'hanno vinta loro. Mentre dall'altra parte dell'Adriatico avveniva quello che il Tribunale dell'Aja ha definito "un genocidio", il mondo stava a guardare.

La speranza di un futuro diverso è affidata al cambiamento di quei fattori esterni, in primo luogo all'Europa. Per la Bosnia Erzegovina, il percorso di integrazione europeo è appena abbozzato (insieme a Serbia e Montenegro, è l'unico Paese della regione a non avere ancora firmato neppure un Accordo di Associazione e Stabilizzazione). Il processo di unificazione, e il progressivo svanire dei confini, restano tuttavia l'unica ipotesi possibile per disinnescare le tensioni sia a livello regionale che interno. Molto naturalmente dipenderà dal tipo di Europa in costruzione. Se sarà un'Europa intesa come unione di piccole patrie, unite solamente dal progetto di una gigantesca zona di libero scambio, i nazionalisti dei Balcani possono dormire sogni tranquilli.

(1) UNHCR Bosnia Erzegovina, 31 luglio 2006
(2) Nidzara Ahmetasevic, Balkan Insight, 31 agosto 2006, Bosnian Returnees Quietly Quit Regained Homes e nostra traduzione I ritornanti bosniaci lasciano in silenzio le proprie case
(3) Dodik e Silajdzic, nemici amici, di Massimo Moratti, Osservatorio Balcani, 20.09.2006
(4) L'Ufficio dell'Alto Rappresentante chiudera' il 30 giugno 2007, i suoi poteri saranno progressivamente trasferiti ad un Rappresentante Speciale dell'Unione Europea (EUSR)
(5) Elezioni bosniache: il potere ad ogni costo, di Zlatko Dizdarevic, Osservatorio Balcani, 15.09.2006


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