L'introduzione di Pino Rea al nuovo Rapporto dell'Osservatorio internazionale sulla libertà di informazione dal titolo "Giornalisti e media tra orrori e speranze. L'informazione nelle repubbliche della ex-Jugoslavia 1990-2001".

17/04/2002 -  Anonymous User

Pubblichiamo l'introduzione di Pino Rea al nuovo Rapportodell'Osservatorio internazionale sulla libertà di informazione dal titolo
"Giornalisti e media tra orrori e speranze. L'informazione nelle repubbliche della ex-Jugoslavia 1990-2001". Il volume è stato presentato oggi stesso a Roma presso la sala per la stampa estera. Vi hanno partecipato tra gli altri, i giornalisti Tommaso di Francesco ed Ennio Remondino, i presidenti della Fnsi, Franco Siddi, dell' Arci, Tom Benetollo, e delle Acli, Luigi Bobba, e l' ambasciatore della Federazione jugoslava in Italia, Miograd Lekic.
Il Rapporto raccoglie una serie di riflessioni e articoli in cui giornalisti e studiosi di giornalismo di Serbia, Kosovo, Bosnia Herzegovina, Croazia, Slovenia e Macedonia analizzano la situazione e il ruolo dei media e l'evoluzione del sistema dell'informazione nei rispettivi paesi nel tragico decennio che ha visto la dissoluzione della Jugoslavia, le guerre e le stragi e infine il faticoso tentativo di costruire la democrazia nella regione.
L'Osservatorio sui Balcani ha contribuito alla realizzazione di questo Rapporto con alcuni articoli redatti dai suoi collaboratori .
Se non ci fosse ogni tanto qualche udienza del processo contro Milosevic in corso davanti al Tribunale penale internazionale dell' Aja, lex Jugoslavia e i Balcani in genere sarebbero completamente spariti dalle pagine dei quotidiani e dalle ''scalette'' dei telegiornali italiani. Sono passati soltanto 18 mesi da quel giorno - il 5 ottobre 2000 - che vide il regime di Slobo crollare e nascere, fra l' entusiasmo della folla di Belgrado, la speranza di un nuovo corso, ma, almeno mediaticamente, sembra un secolo fa.
''Enduring freedom'' è ancora in pieno dispiegamento, ma in sordina.
Osama bin Laden è sfuggito alla macchina da guerra e alle superpotenti intelligence degli Usa e dei suoi tantissimi alleati, dei talebani di Guantanamo non si sa più niente e l'Afghanistan torna fra le aperture dei giornali solo perché un tremendo terremoto ha aggiunto altri 5.000 poveri morti innocenti ad almeno altrettante vittime delle bombe americane.
La grande macchina dell'informazione internazionale si stava preparando a un nuovo supercapitolo di questo strano modo di condurre le relazioni internazionali che caratterizza l' avvio del ventunesimo secolo - la guerra all' Irak -, ma la sanguinosa crisi in Medio Oriente è improvvisamente e rapidamente precipitata sconvolgendo l'agenda di Bush junior e dei suoi alleati e costringendolo a rimandare l'attacco. La macchina si concentra ora su Gerusalemme e Ramallah, salvo poi cambiare inquadratura all'improvviso e abbandonare il campo che va dal Giordano al Mediterraneo per precipitarsi, forse, su Baghdad.

Ivica Bizetic nella sua riflessione sulla storia dei media dell'ex Jugoslavia nel decennio passato pubblicata in questo Rapporto parla di quella storia come di una ''bambola abbandonata''. Era stata al centro dell' attenzione di noi giornalisti occidentali per un paio di anni e poi, finita la guerra, era stata abbandonata in soffitta. Ennio Remondino, nel suo articolo su guerra e informazione, Dieci anni dopo, parla di cultura della "non memoria". "La guerra non lascia strascichi, conseguenze che valga la pena di raccontare successivamente così che ogni guerra, anche se scaturisce sempre da una precedente, appare nuova di zecca, bella e pronta per essere proposta come una novità attorno a cui raccogliere le nostre attenzioni e stupirci". Qualcuno in qualche redazione, dice Remondino, ha cercato di definire questi processi delineando una sorta di "teoremi giornalistici" e la prima "legge" che è stata codificata è quella "della dissolvenza". "Tanto più un fatto è stato clamoroso, imposto a lungo in copertina, - spiega Remondino - tanto più velocemente scivolerà via, si diluirà nelle pagine interne e nelle edizioni minori, sino a dissolversi".
Ecco, è anche contro la cultura della non memoria, contro questa "legge della dissolvenza" che quest'anno abbiamo deciso di dedicare il tradizionale Rapporto annuale curato dall'Osservatorio internazionale sulla libertà d'informazione ai media nell'ex Jugoslavia. Sapendo comunque, anche, che un'analisi più approfondita del ruolo dei mezzi d'informazione nella sanguinosa crisi dell'ex Jugoslavia avrebbe fornito molti spunti di riflessione nel campo dei rapporti fra guerra e informazione: un campo che, se lo scenario internazionale resterà quello in cui siamo immersi ora, diventerà sempre più di attualità.

L'11 settembre - e tutto quello che è accaduto dopo - ha rivelato in maniera assolutamente pubblica quello che prima si intuiva o che veniva analizzato solo in maniera accademica dagli addetti ai lavori: giornali e televisioni - ora è chiaro a tutti - sono uno dei "fronti" principali di guerra, censura e autocensura sono l'orizzonte con cui devono fare i conti i giornalisti che "coprono" i conflitti e tutto quello che ruota intorno ad essi, e cioè il 90% della cosiddetta politica internazionale.
Al di là del piano strettamente strategico - dove la guerra è indicibile, nel senso che quel livello è off limits -, comunque, non è vero che la guerra tolga la parola. Anzi. Manipola l'informazione con diluvi di emozioni, cerca di imporre la propaganda e la malafede, spinge ad abbandonare il "politicamente corretto" in cambio della scorrettezza professionale, genera il fastidio per le regole - come abbiamo visto subito dopo l'11 settembre anche in autorevoli voci liberal -, cerca di imporre la prevalenza del punto di vista della "appartenenza", insinua su tutto il sospetto e lascia affiorare senza alcun ostacolo quello che le organizzazioni internazionali americane di difesa della libertà di stampa chiamavano negli anni scorsi "hate speech", riferendosi al Ruanda o ai Balcani.

Questo Rapporto fa capire innanzitutto come questi meccanismi - in particolare quello dell'hate speech - fossero già pienamente operanti alla fine degli anni '80 tanto da essere, secondo Bizetic, una delle concause della dissoluzione dell' ex Jugoslavia e delle guerre degli anni '90. "Non è vero - dice il giornalista serbo - che quel giornalismo immorale, sporco e, soprattutto non professionale sia stato frutto della situazione politica del paese. E' il contrario: i media locali si sono mossi in maniera parallela agli aspetti negativi (leggi agli "orrori") delle vita di tutti i giorni, e questo sin dall'inizio della crisi. Sono stati media - osserva ancora Bizetic - che, vicini alla cerchia di intellettuali (o pseudointellettuali) sciovinisti e ad alti rappresentanti della Chiesa - hanno dato la loro benedizione e fatto propaganda a tutti i "cattivi ragazzi" dei Balcani. E poco importava chi fossero questi "ragazzacci", se politici delle più alte sfere, ex gangster o psicopatici''. Essi erano presentati dai media come 'eroi', 'veri patrioti' o addirittura 'grandi comandanti'. Sono sempre stati i media - prosegue Bizetic - a infarcire di odio gli animi della popolazione contro i vicini, contro l'opposizione al regime, contro i colleghi dei media 'traditori''', con qualsiasi mezzo, compresi i feuilleton in cui ''venivano riesumati brani di libri pieni di 'spiegazioni' sul perché fosse giusto perseguitare ed uccidere persone provenienti da un' altra nazione, o perché fosse necessario occupare (naturalmente per 'liberare') un territorio appartenente ad un' altra popolazione''.
Partendo dal testo della registrazione di una conversazione fra Milosevic e un caporedattore di Politika, il giornale chiave del regime, accusato da Slobo di essere ''un maledetto idiota'' per un articolo pieno di insulti a Clinton in occasione di una sua visita a Belgrado, Rade Stanic, direttore di Blitz News, osserva - nella sua analisi dei media in Serbia - come quella conversazione, ''e la lunga lista di critiche e richieste, che dovevano essere soddisfatte senza esitazione'', che il più alto rappresentante delle istituzioni statali sottopone a un semplice caporedattore'', erano ''un segnale non solo del fatto che i media non fossero indipendenti dal regime, ma anche che il regime dipendeva in larga misura dai mezzi di informazione''.

Nel suo articolo Stanic fa un altro esempio illuminante del ruolo dei media nella costruzione e nell' orientamento - in questo caso spaventosamente automatico - dell' opinione pubblica in quei paesi. In appena 18 giorni, e in seguito a una forte virata della politica del regime nei confronti del piano di pace Vence-Owen per la Bosnia-Erzegovina, nell' aprile 1993, i contrari al piano passarono nei sondaggi dal 70 al 20%.
Controllare i media, soprattutto in un momento di dissoluzione del vecchio stato e di nascita di nuove entità statali, significava controllare la formazione dell' opinione pubblica. Un altro esempio viene dall' articolo di Luka Zanoni, dell' Osservatorio sui Balcani. Zanoni cita la rubrica di Politica intitolata ''Eco e reazioni'' come uno dei principali strumenti di manipolazione dell'opinione pubblica belgradese. La rubrica ''ha indottrinato la gente facendole credere che il popolo stesso poteva dialogare in modo del tutto spontaneo con i vertici del potere politico'', mentre ''dietro l' anonimato'' vi erano ''gruppi di intellettuali ed istituzioni come la Chiesa ortodossa che demagogicamente orientavano il pensiero collettivo''.

Ma come mai, ad esempio in Serbia, si chiede Stanic - interpretando la curiosità e l' imbarazzo di tutti - la gente, nonostante gli improvvisi, frequenti e vistosi cambiamenti di linea politica del regime, ha continuato a credere ai mezzi d' informazione ufficiali? E perché lo fa ancora oggi? ''Forse - suggerisce il giornalista - il pubblico non voleva informazione, ma una interpretazione dell' informazione che confermasse un comune sospetto (creato, ovviamente, dagli stessi media ufficiali), secondo cui il mondo intero si stava preparando a cospirare contro la Serbia, per conquistarla e umiliarla''.
Probabilmente è così, ed è chiaro allora come molti degli scontri tra il regime e i partiti di opposizione - rileva Stanic - ''si consumassero sul campo dei media, particolarmente sull' emittente televisiva di stato RTS, in grado di coprire l' intero territorio nazionale''.

Le analisi raccolte in questo Rapporto ricostruiscono da vicino, nei vari paesi, l' andamento di questo scontro. Scontro per molti versi impari e in cui l' accanimento dei regimi e del potere contro i media e i giornalisti indipendenti tocca tutti i tasti possibili: dall' assassinio (pensiamo a Slavko Curuvuja) all' aggressione fisica, dalle minacce alle blandizie, dai processi penali (la collega croata Marija Martinic ne ha contati 1.000 in un decennio solo in Croazia) ai licenziamenti di giornalisti e tecnici non fidati (alla RTS di Belgrado nel 1993 persero il posto 1300 persone, fra cui 200 redattori e collaboratori), dall' imposizione di tasse stratosferiche alla revoca delle concessioni per le emittenti, dal blocco della carta fino a piccoli ma efficacissimi sotterfugi nella distribuzione: migliaia di copie di un giornale scomodo nei punti vendita delle campagne, tre o quattro copie nelle edicole dei centri urbani. Alle 5 del mattino, racconta Martinic, in città era già ovviamente esaurito.
Il Rapporto mette in rilievo con una grande quantità di particolari alcuni dei ''vizi'' comuni che caratterizzano l' informazione nell' ex Jugoslavia ora che si è avviato un processo di stabilizzazione politica e di sviluppo democratico nei vari paesi dell' ex Jugoslavia: ad esempio, una prevalenza del proporzionalismo - soprattutto nelle tv pubbliche - rispetto al pluralismo; lo spazio eccessivo che viene dato alla sfera della politica e al ceto politico soprattutto, col rischio che la politica, o, meglio, la dialettica fra i partiti, diventi l' orizzonte principale per l' opinione pubblica; un pessimismo diffuso fra giornalisti ed editori indipendenti sulla possibilità di una effettiva democratizzazione del sistema dei media in quella regione.

Ma dal Rapporto emerge anche quanto spiccata sia stata la vitalità della stampa indipendente, con quanta caparbia e coraggio una minoranza di giornalisti e di operatori del settore abbia sfidato i regimi, a viso aperto come il giornale satirico croato Feral Tribune, che ha sempre sfidato a viso aperto il regime di Franjo Tudjman o cercando fra le pieghe del paese delle nicchie in cui scavare. Un lavoro che ha poi portato la stampa indipendente ad avere un ruolo chiave anche nei passaggi importanti del decennio, come il crollo di Milosevic o la sconfitta di Tudjman.
Certo c' è ancora del pessimismo. Ivica Bizetic è molto amaro: ''Per i principali media serbi - scrive - quelli che un tempo erano stati definiti 'traditori', 'venduti', 'adulatori degli stranieri', addirittura 'pederasti e tossicomani', ora che sono al potere sono diventati 'stimati presidenti', 'saggi primi ministri' e persino ''salvatori della Serbia, un paese devastato dalla dittatura'''. Bizetic ritene anche che senza aiuti dal resto d' Europa sarà difficile per la stampa indipendente non farsi sommergere dal nuovo conformismo.

Ma c' è anche chi ha del presente e del futuro un senso diverso e pensa che, con la fine del processo di transizione, possa svilupparsi una reale libertà di espressione e di informazione. Marja Martinic, ad esempio, vede un embrione di questo processo in Croazia nel sistema dei media locali. Settimanali locali, concentrati sui problemi locali e sull' ampliamento dell' autonomia locale, e stazioni radio diffuse nel territorio, dice Martinic, possono essere la formula vincente del giornalismo croato. Sempre che riescano a respingere i tentativi dei potenti locali di sottometterli alla loro influenza. Può essere anche una strada per affrontare il problema della nascita di posizioni monopolistiche nel settore, che si affacciano nella regione anche dall' esterno.
Una compagnia tedesca ha comprato Dnevnik, quotidiano della Vojvodina, e una parte del gruppo Politica e ha intenzione di rilevare il Delo, giornale sloveno, e Slobodna Dalmacja, quotidiano croato. In più i tedeschi hanno acquisito anche la vecchia Tisak e con essa il monopolio della distribuzione della stampa in Croazia.

Per l' informazione nell' ex Jugoslavia, con i nuovi monopoli, si apre forse la fase della ''maturità''?
di Pino Rea

Vai al dossier dell'Osservatorio: I media nei Balcani


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