Libellula (flickr/notoriousxl)

Libellula (flickr/notoriousxl)

Ne "La memoria delle libellule" la scrittrice Marica Bodrožić esplora con grande intensità la fine di un amore, l'abbandono e lo smarrimento per la perdita di un plurale, un “Noi” identitario cancellato dal passaporto, ma anche dall'anima

15/01/2014 -  Diego Zandel

Marica Bodrožić, al pari di Nataša Dragnić e Zoran Drvenkar, fa parte di quegli scrittori croati che, emigrati in Germania al seguito dei loro genitori in cerca di lavoro negli anni Settanta, vi si sono stabiliti assumendo il tedesco come propria lingua letteraria. La storia di Marica Bodrožić è, da questo punto di vista, più complessa perché arrivò in Germania all’età di dieci anni, quando i suoi genitori già da tempo ci vivevano e ci lavoravano, dopo essere stata accudita nel suo paese natale in Dalmazia dall’amato nonno e da una zia. Pertanto, il tedesco lo ha imparato tardi, ma, come racconta nel bellissimo libro autobiografico “Il mio approdo alle parole. Stelle, colori”, edito da Aracne per la traduzione di Barbara Ivancić, è stato poi il tedesco, una volta assimilato, a darle quella possibilità di esprimersi sciogliendo i nodi interiori che la lingua croata, così intima, le impediva. Il tedesco le è servito per prendere la giusta distanza da quel mondo, mettendo in gioco tutta se stessa, fino ai rapporti con la sua famiglia e il suo paese stesso, il quale proprio negli anni della sua maturità sarà tragicamente attraversato da una guerra che sconvolgerà i riferimenti identitari jugoslavi nei quali era cresciuta e dai quali in pratica non è più riuscita a staccarsi.

Lo dimostra anche il suo nuovo libro “La memoria delle libellule”, edito da Zandonai per la traduzione di Isabella Amico di Meane, che è altrettanto straordinario de “Il mio approdo alle parole”, pur nella differenza del genere. In questo caso, infatti, ci troviamo al cospetto di un romanzo, non di un libro propriamente autobiografico, anche se forti elementi di tale carattere lo attraversano, seppur con alcuni spostamenti e spaesamenti, facendo propria la massima di André Malraux citata nel libro “Né vero, né falso, ma vissuto”.

Perdere il plurale, perdere la pelle

“La memoria delle libellule” è, nella sua spina dorsale, un romanzo d’amore. Una donna croata, che si è data il nom de plume di Nadežda, in onore della Mandel’štam e che apprendiamo essere scrittrice che vive a Berlino, vuole raggiungere l’uomo,Ilja, a sua volta uno scrittore, del quale è stata amante e le ha dato un figlio. Ilja, croato a sua volta, emigrato negli Stati Uniti, è sposato e non le ha mai nascosto, nonostante la grande intimità e felicità che c’è stata tra loro, di amare la moglie e non volere lasciarla.

Alla relazione, poi, è seguito l’abbandono, ma in Nadežda vive forte il ricordo di lui. “Era finita così in fretta e in maniera così definitiva che a volte credevo di essermi immaginata tutto, di essermi inventata Ilja per non dovermi ritrovare da sola, faccia a faccia con il mondo, con il puro e semplice ricordo di tempi remotissimi”. Però i ricordi la dilaniano e le pagine del libro a riguardo trasmettono sentimenti ed emozioni di grande intensità, tale da confermare la duttilità linguistica dell’autrice capace di scavare nei più profondi recessi dell’animo umano, di quella cosa chiamata amore che si nutre di tante cose. Perché Ilja non è solo l’uomo che le ha regalato momenti di felicità, è un portato di cose che ha a che fare, anche, con la terra che entrambi hanno lasciato. Non a caso il ricordo più amaro, quello che porterà Nadežda a disprezzare Ilja è la mancata promessa dei cinque giorni che, insieme, avrebbero trascorso a Spalato. “Passammo settimane e settimane a immaginare come sarebbe stato nella nostra camera, con quel po’ di vento che offre a luglio l’Adriatico, e io non vedevo l’ora di quel po’ di vento e del viso di Ilja…”.

Invano, l’amica Arjeta, una bosniaca che ha vissuto l’assedio di Sarajevo nell’ultima guerra balcanica, la spinge a dimenticarlo. “Quando ami devi essere pronto a morire dentro. Perdere la pelle, mi ripeteva sempre Arjeta, perdere la pelle, così chiamava la metamorfosi”. Lo sa bene Arjeta che ha visto una granata portare via i piedi all’amato fratellino. La terribile sensazione, in quel contesto, per Arjeta, figlia di una croata e di un serbo-kosovaro, di perdere il plurale jugoslavo: “lei è uno di quei bambini jugoslavi che, dopo la guerra, impararono a volare come passerotti in un’aria senza radici. (…) Il vecchio plurale aveva fatto il suo tempo, ora il nuovo passaporto valeva più di qualsiasi vecchio Noi”. L’amore per un uomo, l’abbandono, ha questa stessa perdita di plurale. “Solo allora compresi quanto fosse pericoloso un plurale di quel genere per una vita umana che dipendeva dall’assenza di lacrime”.

E questo la porta ad altre perdite di plurale, del Noi. A cominciare dal padre – collezionista di libellule, da qui il titolo – che, durante la guerra, si era macchiato di delitti terribili, come l’uccisione di bambini. Poi, la sua partenza per gli Stati Uniti, lontano.

Tutto però gira intorno alla parola amore. E quello, ormai ferito, per Ilja le ha consentito di aprire lo scrigno in cui i ricordi erano chiusi. “A quanto pare Ilja è stata la prima persona a possedere la chiave per accedere alle polverose stanze del mio archivio dei ricordi. Poi me l’ha resa, quella chiave, l’ha consegnata a me, forse senza nemmeno rendersene conto. Ilja non mi ha usata e non mi ha derubata. E avrebbe potuto fare di me qualsiasi cosa, dopotutto possedeva la chiave. Ma a un certo punto ha preferito darla a me. E ciò significava scomparire dalla mia vita. Non poteva andare in altro modo. Dovevo imparare a evitare la sorte”.

Grande scrittrice Marica Bodrožić, sicuramente tra le espressioni maggiori del suo Paese di origine, anche se scrive in tedesco. Perché il suo Paese sta dentro di lei, come qualcosa di irrisolto, perché partita jugoslava fa ancora fatica ad accettare di essere solo croata.


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