La Cooperazione italiana in Kosovo. Il ruolo giocato, le iniziative promosse e i risultati raggiunti dai soggetti italiani nel dialogo interetnico. Un'intervista

09/02/2009 -  Anonymous User

Di Francesco Gradari

Accanto alla ricostruzione fisica di case e infrastrutture e al rilancio dell'economia locale, le attività della cooperazione italiana nel Kosovo post-conflitto si sono concentrate sul sostegno al riavvicinamento tra le diverse comunità, soprattutto tra serbi e albanesi. Tramite iniziative molto varie, tanti soggetti italiani hanno tentato di facilitare la (ri)composizione del tessuto sociale kosovaro e dei legami tra i due principali gruppi nazionali presenti nel paese. Ne discutiamo con Anna Castelli, liaison officer dell'ufficio di Cooperazione italiana a Pristina*.

Il 2009 è l'anno del decennale dell'intervento Nato contro il regime di Milošević. A livello politico è palese il fallimento di ogni tentativo mirante al riavvicinamento tra Belgrado e Pristina. Qual è il suo giudizio sull'evoluzione delle relazioni a livello di società civile tra la comunità serba e quella albanese in questi ultimi anni?

Il processo di riconciliazione che avviene a livello di società civile e' spesso sganciato dai proclami delle istituzioni. La mia prima missione in Kosovo è iniziata qualche settimana prima degli incidenti del marzo 2004: è evidente che le cose siano migliorate parecchio da allora.

Sul terreno sono sempre esistiti, anche in quel periodo, casi di solidarietà fra famiglie, vicini di casa albanesi che hanno messo al riparo dalle violenze i serbi. Non so quanti casi isolati di questo tipo ci siano stati, ma so per certo che nessuno ne ha mai parlato e soprattutto le famiglie albanesi non lo avrebbero mai ammesso di fronte ad altri albanesi. Esiste però ancora una sorta di auto-segregazione da parte delle due comunità che di fatto non interagiscono fra loro. Da questo punto di vista, uno scoglio rimane certamente la lingua.

Il 2009 segna anche il decimo anno di presenza della cooperazione italiana in Kosovo. In che modo è intervenuto il nostro paese per favorire il dialogo tra le due maggiori comunità del paese e attraverso quali canali?

Nell'ambito dell'intervento delle Ong finanziate dalla Cooperazione Italiana componenti di dialogo interetnico sono state inserite in progetti di tutela del patrimonio artistico, educativi e di sviluppo economico. Parliamo per la maggior parte di progetti promossi.

Su questo canale la Ong Intersos ha sviluppato progetti che hanno interessato la tutela del patrimonio culturale quale strumento per il dialogo interetnico. Il network Mosaik (rete di 14 Ong kosovare rappresentanti le diverse comunità presenti nella regione di Pejë/Peć, ndr) è un bell'esempio sostenuto dalla Cooperazione Italiana prima e dal Ministero della Cultura locale poi. Stesse finalità anche per il contributo di un milione di euro a valere sul canale multibilaterale che la Cooperazione Italiana ha finanziato a Unesco.

Nel settore educativo l'Ong Reggio Terzo Mondo ha recentemente concluso un progetto che dal 2005 ha sostenuto la creazione di un asilo multietnico nella municipalità di Klina, con l'obiettivo di promuovere nei minori, nelle famiglie e negli educatori locali dei diversi gruppi nazionali, l'accettazione dell'altro e la risoluzione pacifica dei conflitti. Questa esperienza e' stata accompagnata anche da altre attività di collaborazione fra associazioni delle diverse comunità sia in campo agricolo che in quelle del miglioramento della condizione femminile.

Ci sono poi alcune realtà di nicchia come quella trentina, all'avanguardia per gli interventi di cooperazione comunitaria, che hanno mantenuto con fondi propri una presenza costante nella regione di Peja/Pec ed hanno lavorato costantemente nel processo di dialogo interetnico.
La Caritas Italiana ha creato un programma che prevede la riabilitazione psico-sociale delle vittime di violenza, in particolare le famiglie degli scomparsi e gli ex detenuti politici. Il progetto ha portato all'apertura, nel 2005, del Centro kosovaro per l'auto mutuo aiuto, una realtà oggi molto apprezzata.

Esistono poi dei canali di finanziamento di piccole iniziative per la promozione della partecipazione dell'Italia in iniziative di pace ed umanitarie in sede internazionale, con finalità diverse, fra le quali la tutela dei diritti umani che l'Ambasciata d'Italia promuove ogni anno.

Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate?

Il rischio che si corre in questo settore, più che in altri, è quello di investire risorse per portare avanti iniziative di grande visibilità e poca sostanza. Personalmente credo che molte risorse siano state spese male nel settore dei rientri. Seppur con le migliori intenzioni, in molti casi si sono perse di vista le condizioni sul terreno, si è voluto spingere verso una soluzione ideale, ricreare le condizioni che c'erano prima della guerra dal punto di vista dei numeri, senza tenere conto che le condizioni erano cambiate profondamente. Ci sono ancora molti casi di serbi che accettano di rientrare nelle proprie case ricostruite e che poi le rivendono ad albanesi poiché capiscono che non si potrebbero più adattare a quel contesto per i motivi più diversi.

C'è stata una reale appropriazione da parte di leader politici e attivisti locali delle iniziative volte a sostenere il dialogo interetnico avviate con il sostegno internazionale e italiano in particolare?

In generale direi che molti degli interventi internazionali non sono stati realmente assorbiti dalle comunità locali. Si è creato negli anni un processo di dipendenza nei confronti dei donatori internazionali sia da parte delle istituzioni che da parte della cosiddetta società civile.

Il complesso di inferiorità, insieme al senso di gratitudine, l'incapacità dopo tanti anni di regime a pensare per se stessi, ha fatto sì che la società kosovara riponesse troppa fiducia nelle soluzioni proposte dai vari donatori.

Questa distorsione ha contraddistinto tutte le componenti della società. C'è stato un proliferare di Ong locali grandi e piccole che sono nate e scomparse, dipendendo esclusivamente dall'aiuto esterno. Nel caso specifico dei percorsi di pacificazione fra diverse comunità etniche c'è stata una vera e propria corsa al finanziamento da parte delle Ong locali per molto tempo. Ma con la diminuzione degli aiuti internazionali molte realtà sono scomparse e auspico che sopravviveranno quelle che hanno dei contenuti validi da riportare alle istituzioni e che sappiano convincere i cittadini con delle soluzioni endogene.

Rispetto alla riconciliazione e al riavvicinamento, esiste una peculiarità, un modus operandi proprio della cooperazione italiana, che la distingue dagli altri paesi europei presenti in Kosovo?

Esiste una differenza fra l'approccio italiano e quello di altri paesi europei quando si parla di protezione sociale e delle fasce vulnerabili in genere. In questo campo riesco a vedere chiaramente una eccellenza nell'approccio italiano in termini di inclusività. Al momento la Cooperazione Italiana sta ponendo una attenzione particolare alle fasce deboli, in particolare ai disabili. Oltre ad essere in grado di portare degli apporti all'avanguardia in termini legislativi, la Cooperazione è riuscita a sistematizzare dei tavoli di lavoro, che includono l'Ufficio del Primo Ministro, i Ministeri competenti, la società civile. La partecipazione è stata sempre molto alta, segno di un apprezzamento nell'approccio di lavoro.

L'esperienza di questi anni ha senza dubbio fornito tanti elementi utili di cui tenere conto nel progettare interventi simili in futuro. Che cosa possiamo dire di avere imparato?

In una società clanica come quella kosovara e' importantissimo rimanere fedeli alla propria famiglia, la famiglia e' il centro delle relazioni sociali. E tutte le famiglie hanno subito perdite, prima e durante la guerra e pensare in una mera ottica di perdono tipica del pensiero cattolico, sarebbe riduttivo. Non e' il singolo che va convinto, e' il gruppo, la comunità.

Nelle realtà povere, e in Kosovo i poveri sono tanti, e' necessario che ci sia una sorta di ricompensa per qualunque tipo di azione che si intraprende. Le persone o i gruppi devono cogliere come e perché la loro vita migliorerà, altrimenti non avranno incentivi nell'impegnarsi in un processo di integrazione doloroso e difficile. E' probabile che la ricerca di uno sviluppo economico da realizzarsi attraverso l'utilizzo di risorse comuni sia una strada percorribile anche per facilitare le relazioni tra le diverse comunità.

Il rischio maggiore credo che sia quello di non rendersi conto che si parla di tempi lunghissimi se si vuole ricostruire una società in grado di governare in maniera costruttiva le conflittualità interne. Ho conosciuto però Ong italiane e straniere che si sono impegnate in questo lavoro con risultati positivi, ma con la consapevolezza che si tratta di processi estremamente lenti.

Sarebbe opportuno voltare pagina e cercare di portare avanti servizi per l'integrazione delle minoranze che già vivono in Kosovo. Penso ad asili bilingui, introduzione di moduli ad hoc nei curricula scolastici che promuovano la tolleranza. E questo sarebbe un buon momento per iniziare.

* Le opinioni espresse in questa intervista sono da considerarsi personali e non necessariamente rappresentative della posizione ufficiale della Cooperazione Italiana.


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