Ennio Remondino

Il 28 ottobre a Roma si è riunita l'Assemblea parlamentare della Nato. Seminario dedicato al Kosovo, con la partecipazione di 16 delegazioni parlamentari e diplomatiche dell'Alleanza Atlantica e di tutte le comunità nazionali dell'area coinvolte nei conflitti balcanici. Fra i relatori, il giornalista Ennio Remondino, corrispondente estero della Rai per quell'area. Questa la trascrizione del suo intervento

11/11/2005 -  Anonymous User

Ennio Remondino

Di Ennio Remondino

La scelta dell'assemblea parlamentare Nato di ascoltare, in un contesto politico-diplomatico di questo livello, un giornalista, confesso mi stupisce. Non è soltanto modestia la mia. E' il disagio fra le cose che da reporter ho visto sul campo, rispetto a valutazioni, considerazioni e analisi che ho sentito e visto sviluppare successivamente dalla politica internazionale su quegli stessi fatti.

Detto in altro modo, sovente, ascoltando politica e diplomazia, ho l'impressione di aver trascorso più di 15 anni della mia vita professionale in una regione europea che ritenevo essere i Balcani, ed era invece una sorta di "Isola che non c'è". I miei Balcani immaginari.

Ho seguito la vicenda Bosnia dal '92 al '96, vivendo fra Sarajevo, Pale, Mostar e Banja Luka. Nel 1997 ho aperto una redazione Rai a Belgrado. Ho vissuto il Kosovo da Pristina per tutto il 1998, ho visto nascere l'UCK sul campo e la guerra a Ramboiullet. Ho ricevuto le bombe Nato del '99 a Belgrado, a Pristina, Prizren, e Pec. Continuo a seguire come posso quell'area dalla nuova sede datami dalla Rai in Berlino.

Quindici anni nei Balcani, e più conosco, meno capisco.

Ancora una battuta esemplificativa. Sono arrivato nella ex Jugoslavia che non conoscevo una lingua condivisa, e ne esco oggi non conoscendone almeno sette di lingue, tra cui il "montenegrino", il "bosniacco" e l'"erzegovese". Dev'essere il destino del giornalista, quello di non riuscire a capire.

Quello che ritengo utile dire, è che il presente su cui ci troviamo oggi a discutere è basato su di un passato "ufficiale" ormai definito a livello internazionale soprattutto nell'ambito dell'Alleanza Atlantica. Quella che potremmo definire la "base del ragionamento" su cui, a mio avviso, sarebbe invece opportuno, necessario, elevare dubbi. Ridiscuterla.

Serve a qualcosa insistere col passato? Si, se sul passato si costruisce oggi una percezione del presente deformata. Gli esempi nella storia sono infiniti. Possiamo immaginare l'attuale Germania, senza la lacerante rivisitazione della barbarie nazista? O l'Italia democratica, senza la dolorosa ammissione delle colpe del fascismo?

Il problema dei Balcani, uno dei maggiori problemi, è che nessuno dei protagonisti ha mai voluto affrontare seriamente questo confronto col suo passato, con le responsabilità oggettive attraverso cui iniziare e definire un futuro possibile. Il perchè ed il come quanto accaduto sia potuto accadere.

Non lo sta facendo la Serbia democratica che nasconde ancora oggi le sue colpe oggettive dietro un accentuato vittimismo da trame internazionali. Il "Cattivo Unico" subito ieri, diventa alibi per non diventare compiutamente buoni oggi. Intanto il governo del moderato Vojslav Kostunica si regge sul voto determinante del partito che fu di Milosevic.

Non lo fa compiutamente la Croazia delle antiche simpatie di convenienza occidentale e dell'accesso all'Ue, quando ancora si lacera al suo interno sulla figura di Ante Gotovina, per alcuni criminale ricercato e latitante, per molti eroe e patriota da proteggere.

Non lo fa il Kosovo che iscrive in blocco fra gli eroi nazionali e partigiani combattenti, anche banditi di strada e trafficanti da galera. Intanto il dibattito politico interno si regola spesso a colpi di kalashnikov, con buona pace degli "standard" internazionali di legalità e di tutela dei diritti umani.

Non lo ha fatto nessuna delle tre nazionalità bosniache che 10 anni fa abbiamo legato fra di loro nella piccola Jugoslavia degli accordi di Dayton e di Parigi, e che continuano oggi a sostenere al loro interno la rappresentanza politica più separatista e integralista.

Non lo fa l'indeterminata entità detta "comunità internazionale", che di volta in volta si esprime attraverso aggregazioni variabili e con regole variabili. Ora l'Onu, ora gli Stati Uniti, ora il Gruppo di Contatto, ora l'Osce, ora la Nato, ora l'Unione europea. Sul chi comanda veramente, il giudizio nei Balcani è a sua volta variabile, tifoso nei confronti dell'interlocutore più comodo. Ma su questo vorrei tornare fra poco, con un po' più di cattiveria.

Non lo fa il "Potere terzo" del Tribunale internazionale dell'Aja sospettato di aver regolato le sue incriminazioni sulla base delle opportunità "politiche" più che sulle prove. Sull'argomento mi limito al presente, all'apertura della procedura di ammissione della Ue di Croazia e Turchia. L'Austria vincola il suo Si alla Turchia, al Si di Bruxelles alla Croazia. La procuratrice Carla Del Ponte, che una settimana prima aveva accusato Zagabria di proteggere il ricercato Gotovina, ci ripensa in tutta fretta e cambia al volo la pagella europea della Croazia. Un mese prima la stessa accusatrice aveva immaginato Gotovina nascosto sotto le tonache dei frati francescani di Medjugorje, in una trama congiunta tra San Francesco e il Vaticano. Difficile convincersi che quello dell'Aja non sarà il tribunale del vincitore.

Il problema potrebbe essere quello di capire di quali Balcani stiamo parlando. E di quale "comunità internazionale", e di quali regole parliamo, se ci sono delle regole condivise e se valgono in maniera eguale per tutti. Nei miei Balcani ho visto di tutto e di più. Ho visto il naufragio della credibilità dei caschi blu dell'Onu a Srebrenica, e ho visto l'indignazione internazionale a intensità variabile fra il sonno quadriennale della Bosnia e la frenesia umanitaria per il Kosovo.

In Kosovo, perché è di questo che dobbiamo parlare oggi, ho avuto l'impressione di assistere alla accurata composizione di un puzzle le cui singole tessere fossero predisposte da tempo a realizzare il disegno della guerra.

- Ho visto un regime dispotico e traballante, quello di Milosevic, trarre forza e sostegno interno dall'accerchiamento internazionale.

- Ho visto una terra sofferente amalgamata sino ad allora dalla pratica dell'opposizione non violenta, venire armata e organizzata per la guerra.

- Ho scritto del "Ghandi dei Balcani", il non violento Rugova, e ho memoria e registrazione di quando, nella primavera del '98 sostenne che la nascente Uck era una creatura dei servizi segreti di Belgrado. Mi pento e chiedo scusa per quel Ghandi citato a sproposito. Rugova (augurandogli buona salute) non l'ha ancora fatto.

- Ho visto i carichi di armi del governo Berisha passare la frontiera albanese con la Serbia. Ritrovo ora Berisha a Tirana e mi interrogo nuovamente sul Kosovo.

- Ho sentito il "capo del governo clandestino del Kosovo" Bucoshi, nel suo ufficio di Tirana, spiegarmi l'impegno finanziario della diaspora kosovara e albanese in Germania e Stati Uniti, per la creazione di un esercito di liberazione del Kosovo.

- Ho visto, con la missione Kdom (Kosovo diplomatic observers mission), spie e istruttori militari diventare diplomatici, e la diplomazia vera fare da palo all'inganno.

- Ho visto l'Osce dell'ex ambasciatore William Walker, ottenere il miracolo di Lazzaro a Racak, dove i morti nella notte camminano e si espongono alla indignazione televisiva mondiale del mattino dopo. Non ho visto in tempo utile le perizie dei periti finlandesi, che qualcosa chiarivano.

- Ho visto da lontano Rambouillet, e da cronista smaliziato, ne ho approfittato per attrezzarmi alla guerra imminente.

- Ho visto l'uso disinvolto dei media nel creare consenso o riprovazione, a comando. Ho imparato che esistono le sofferenze "buone", quelle da esaltare nei telegiornali, e le sofferenze da nascondere.

- Ho visto governi e diplomazie, costruire "verità" sulla convenienza del momento, ma quel che è peggio, ho visto costruire analisi e progetti politici internazionali successivi sulle precedenti verità artefatte.

Il problema che intendo porre, non è in realtà quello della rivisitazione storica del passato, quanto piuttosto di trarre lezione da troppi equivoci per ottenere chiarezza sul presente e sul futuro.

Tre semplici questioni.

1. Esistono delle regole e quali sono?

2. Chi le decide e chi le deve far rispettare?

3. Sin dove arrivano i Balcani?

Le regole
Esistono, e quali sono? Per la Bosnia furono quelle della inviolabilità dei confini statuali delle vecchia federazione jugoslava. Sulla base di quelle regole ci furono le tragedie di Vukovar, delle Kajne serbo-croate e il macello della Bosnia. Oggi, forse più assennatamente, per il Kosovo cambiano regole del gioco e arbitri. Sarà opportuno a questo punto pensare a convincenti argomentazioni con cui rivolgerci ai croati di Mostar, ai serbi di Banja Luka, agli albanesi macedoni di Tetovo, e per quelli montenegrini di Dulcigno, e persino agli ungheresi della Vojvodina.

Il temuto "effetto domino" del Kosovo su tutti i Balcani. Non credo esistano oggi le condizioni di un nuovo stravolgimento bellico dell'area. Credo invece nella possibile accentuazione della condizione di instabilità, con la possibilità di focolai di violenza di "bassa intensità". Colpisce oggi, a dieci anni dalla fine del conflitto, l'assordante silenzio attorno agli accordi di Dayton sulla Bosnia. Un caso o un ripensamento?

Sulla questione frantumazione delle vecchia Jugoslavia, non credo sia saggio sottovalutare cosa sta accadendo oggi in Montenegro e Macedonia. L'ipotesi di una separazione fra Podgorica e Belgrado non fa oggi più paura a nessuno, neppure ai diretti interessati. Dovrebbero suscitare preoccupazione, se mai, i meccanismi attraverso cui quella separazione potrebbe avvenire.

Gli interessi personali del leader Djukanovic, per sottrarsi a possibili conseguenze giudiziarie internazionali. Le due componenti slave fra indipendentisti e unionisti che si equivalgono. Sarà il voto della consistente minoranza albanese sui confini di Scutari che deciderà sull'ultimo simulacro di federazione slava nei Balcani. Accadrà, ma non sarà privo di conseguenze sugli equilibri dell'intera area.

L'attuale assetto Macedone, e l'apertura del nuovo governo di Skopje al dialogo interetnico, temo risulti ancora oggi minoritario nel comune sentire delle comunità nazionali bulgaro-slava e albanese. Da Tetovo ad Ochrid, il confine nord della Macedonia è già da oggi quello di un Kosovo nazionale, con un interscambio politico-commerciale che non credo possa rientrare nelle regole di globalizzazione condivise dalla comunità internazionale.

Mi sembra necessario annotare come, rispetto al demonizzato frazionamento nazionale nei Balcani del recente passato, si faccia oggi troppo conto sulla salvifica ricomposizione dei frammenti jugoslavi nel corpo nell'Unione europea. E se l' Unione scoprisse di non essere presto più in grado di metabolizzare altri allargamenti?

Gli arbitri

La questione è dirimente, e non può essere liquidata con una lezioncina di diritto internazionale. Non nei Balcani. Quale Onu, ad esempio, o quale Nato, quale Unione europea, o quali Stati Uniti? Provo a spiegarmi. L'arbitro Onu della vergogna di Srebrenica, oppure l'Onu marginale che mette il cappello ex-post all'intervento Nato per il Kosovo con la risoluzione 1244 finita da subito in carta straccia? L'Onu dell'Unmik del marzo 2004 che fa finta di niente, o l'Onu Unmik della fine 2005 che abbiamo appena sentito pieno di buone intenzioni?

La Nato. Chiedo scusa ai padroni di casa, ma quale Nato? La Nato delle bombe intelligenti sulla Jugoslavia e delle bugie cretine di James Shea da Bruxelles, o la Nato della valorosa interposizione in Bosnia e attorno alle enclavi serbe in Kosovo? La Nato che libera tutti i kosovari, o quella che ne libera soltanto una parte, lasciando che in certe zone i più scannino i meno? La Nato della vergogna degli incendi di Prizren, o la Nato che difende e salva i monasteri di Decani e di Pec (o Peja)?

Anche per gli Stati Uniti, occorre capire, a partire dal loro ruolo chiave nella Nato e in Kosovo in particolare. Basta percorrere il Boulevard Bill Clinton a Pristina per capire. C'è persino il bar Hillary, e la mini statua della libertà sul tetto dell'hotel Victoria. Mi riesce difficile immaginare una prossima piazza intitolata a José Manuel Barroso. C'era un bar Berlusconi, ma a Tirana, ed è stato abbattuto perché era una costruzione abusiva.

La questione Stati Uniti (quali? Quale politica), si intreccia con quella delle regole. Nel 2002 sono nati i cosiddetti "Standard". Fu l'allora rappresentante speciale Steiner a racchiudere la sua proposta nella sintesi "standards before status". Verifica degli standard di democrazia, legalità, tutela delle minoranze e rispetto dei diritti umani, prima di iniziare a discutere del futuro status del Kosovo, cioè di indipendenza. I disordini organizzati della primavera dello scorso anno cancellano molte illusioni. Oggi si parla di "Standard and status". La svolta è stata sollecitata dal sottosegretario di Stato Nicholas Burns nel maggio di quest'anno, e accettata dall'Onu grazie al rapporto del norvegese Kai Eide. Lezione di realpolitik per i Balcani (a non solo): fai il peggio e ottieni il meglio.

Il buonsenso impone oggi il confronto diretto e indispensabile fra albanesi e serbi. Ma se anche questa formula non funzionasse? Abbiamo iniziato con "before", poi "and". Domani forse, "Status without standards"? Il rischio delle regole elastiche è alla fin fine sempre quello di far vincere chi le regole non le vuole rispettare mai o chi sa di avere "santi in paradiso" talmente forti da potersene fregare delle regole valide per gli altri.

I Balcani
Ultima questione. Ma i Balcani esistono davvero? Il mio amico Predrag Matvejevic, letterato e scrittore croato che s'è esiliato dalla guerra civile prima a Parigi e ora a Roma, se lo chiede spesso. Metternich, il grande ministro austro ungarico diceva che i Balcani iniziavano subito a sud di Vienna. A Ljubliana se li chiami balcanici si offendono. Vai a Zagabria e se chiedi dei Balcani ti indicano la Pannonia e Belgrado. Da Belgrado, l'indicazione è ancora verso sud, verso il Kosovo e l'Albania. Di balcanico nei Balcani sembra esserci soltanto il tentativo di non esserlo.

Un aneddoto, per esprimere una preoccupazione culturale e politica rispetto alle analisi presenti. Il mondo s'è confrontato e ha punito il progetto politico di "Grande Serbia" che fu cavalcato da Milosevic. La Croazia del despota scomparso Franjo Tudjman ha sognato la sua "Grande Croazia" provando a spartirsi la Bosnia con Milosevic. Per lui lo sconto di riprovazione e condanne riservato agli "amici degli amici". Ambedue progetti politico egemonici in salsa slava.

Più a sud, l'attualità dell'ipotesi di "Grande Albania". Non un progetto politico articolato, esplicito, ma semplicemente la realtà dirompente dell'espansione demografica. Troppe analisi sui progetti politici veri o presunti, poche riflessioni sulla geografia e demografia dei fatti, è il mio sospetto. Su quali Balcani occidentali dobbiamo per esempio riservare attenzione, prima di elaborare progetti. Esiste una unitarietà di problemi legata ai Balcani slavi (che non sono soltanto Serbia e Croazia, ma anche Bosnia e Montenegro e Sangiaccato), come esiste una unitarietà di problemi dei balcani albanesi che non sono soltanto Kosovo, o Albania, ma assieme parte di Macedonia, Montenegro e Grecia.

L'esperienza personale è che nei Balcani, quando credi di aver sistema un muro qui, ti cade una casa là. Tiri su una casa qui, e ti finisce in frantumi una città là. Se i Balcani esistono, sono un unicum molto frequentato. Forse basterebbe decidere una segnaletica comune iniziando a discuterne con tutti -tutti, ripeto- i protagonisti. Pensare oggi ad una Costituente internazionale balcanica, appare un azzardo folle. Non cominciare a pensarlo potrebbe rivelarsi una domani una catastrofe.

A meno che, non mi sia ritrovato ancora una volta a parlare dei miei Balcani personali, che non esistono. Se è così, vi chiedo scusa.


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