La frontiera di Cilvegözü (foto A. Gilabert)

La frontiera di Cilvegözü (foto A. Gilabert)

Secondo recenti stime sono oltre 600mila i profughi siriani giunti in Turchia, nella provincia di Hatay, in fuga dalla guerra. Qual è l'impatto degli “ospiti” sulla popolazione locale? Nostro reportage da Reyhanlı sul confine con la Siria

27/11/2013 -  Fazıla Mat Istanbul

Reyhanlı, provincia turca di Hatay, a pochi chilometri dal confine siriano. Da quando circa tre anni fa è iniziata la guerra in Siria la presenza di profughi è diventata una costante di questa cittadina. La sua popolazione che nel 2011 contava poco più di 62mila anime negli ultimi due anni è quasi raddoppiata. Un dato che riflette direttamente il costante aumento dei siriani che raggiungono la Turchia il cui numero, secondo le ultime stime, ha oltrepassato i 600mila.

Mahmoud, originario di Aleppo, è solo uno delle migliaia di siriani fuggiti in Turchia. Ha gli occhi verdi, vent’anni e la pacatezza di un uomo anziano. In un negozio che vende pizza e börek racconta la propria vicenda indicando i segni delle ferite da bombardamento che porta sulle gambe, sul braccio, sulla pancia. Dice in un turco stentato che è arrivato in Turchia circa un mese fa. Ha trovato lavoro a Gaziantep, si trova momentaneamente a Reyhanlı per vedere dei parenti in occasione della festa del sacrificio. “In Siria non è rimasto più nessuno. Fratello, sorelle, mamma, tutti andati”, spiega. I bombardamenti hanno ucciso quasi ogni componente maschile della sua famiglia. Lo hanno voluto arruolare nell’esercito, ma lui è fuggito. Di al Assad dice che è “Şeytan”, satana. Tornerà in Siria, una volta che tutto sarà finito ed al Assad se ne sarà andato. Ma non sa dire quando accadrà. Risponde solo che “Allah è grande”.

Sui 910 km di confine che separano la Turchia dalla Siria sono aperti allo stato attuale solo tre dei tredici varchi di frontiera. Cilvegözü, a 5 chilometri di distanza da Reyhanlı, è uno di questi. Il corrispettivo varco di Bab al Hawa sul lato siriano è sotto il controllo dell’Esercito libero siriano dal luglio 2012. Per “motivi di sicurezza” l’uscita dalla Turchia è ufficialmente consentita solo ai siriani. Molte persone attraversano i varchi a piedi, trasportando qualche bagaglio o sacchetto.

Lo scorso ottobre, durante la festa del sacrificio, le entrate e le uscite quotidiane sono state circa 1.600, contro i 1.000 giornalieri che si verificano normalmente. Anche in tempi di guerra le festività continuano a rappresentare per molti un momento in cui si cerca la riunione con i propri familiari che abitano non solo a Reyhanlı, ma in gran parte della regione di Hatay e in molti altri centri dell’area sudorientale turca.

Affitti e sopravvivenza

Famiglia di profughi siriani (foto A. Gilabert)

Famiglia di profughi siriani (foto A. Gilabert)

Ma non tutti quelli che rientrano in Siria sono stati in visita dai parenti. La famiglia di Hassan, una moglie incinta e quattro figli piccoli, ha deciso di ritornare nella propria cittadina in provincia di Hama dopo aver tentato, invano, per dodici giorni, di trovare un alloggio. L’uomo, un trentenne che prima dell’inizio della guerra lavorava come funzionario comunale, racconta di essere stato a Gaziantep ma di non avere trovato posto nei campi profughi e nemmeno una casa da potere affittare con i pochi mezzi a disposizione. In Siria abitavano in un borgo che contava una popolazione di 30mila persone. Ora sono rimasti solo 500 abitanti. Il luogo è stato quasi interamente raso al suolo dai bombardamenti, le perdite degli amici e dei parenti non si contano. Ma “non c’è niente da fare”, dice Hassan con dignità, “siamo costretti a ritornare in Siria”.

Le tendopoli messe a disposizione dallo stato turco per i profughi siriani sono ventuno, collocate tutte lungo il confine. Ma la loro capacità di accoglienza di 200mila persone da tempo non è più sufficiente ad ospitare le centinaia di migliaia di siriani che sono già in Turchia e che continuano ancora ad arrivare. Il problema dell’alloggio è una questione particolarmente sentita a Reyhanlı, dove gli affitti delle abitazioni hanno registrato degli aumenti vertiginosi. Molte famiglie siriane – di solito con numerosi figli – riescono a sostenere questi costi solo abitando assieme.

“Fino a un paio di anni fa la casa più bella della cittadina aveva un canone mensile di 400 lire turche”, spiega un ristoratore, “ora lo stesso appartamento costa 1.000 lire”, una cifra che corrisponde a circa 400 euro. Un altro commerciante, proprietario di diversi negozi, dice che il prezzo minimo per una casa “normale” parte da 500 lire. “Altrimenti”, spiega, “ci sono le stalle degli animali che alcuni locatari hanno sgomberato per darle in affitto”. La crescente domanda rivolta agli immobili fornisce una spiegazione ai numerosi palazzi appena edificati o in via di costruzione che sorgono in prossimità del centro cittadino. Nonostante i prezzi esorbitanti è infatti molto difficile, se non proprio impossibile, trovare una casa libera a Reyhanlı.

Gli ospiti

La popolazione locale sembra ormai avere accettato la presenza degli “ospiti” con i quali comunicano facilmente, dato che una buona parte delle persone della regione è bilingue turco-arabo. Lo scorso maggio, l’esplosione di due autobombe che ha causato la morte di 52 persone, lasciandone ferite altre 146, ha creato un grave momento di tensione. Attaccati dagli abitanti del luogo perché ritenuti responsabili della tragedia, centinaia di profughi sono tornati in Siria. “Sono partiti in molti, ma altri e altrettanto numerosi sono arrivati ancora”, analizza lucidamente un giovane venditore ambulante, “l’unica differenza è che ora hanno un atteggiamento più defilato, cercano di essere meno visibili”, aggiunge.

Oltre che per l’aumento dei prezzi delle case, i cittadini di Reyhanlı, si lamentano anche del costo dei generi alimentari e dell’abbigliamento, che dicono essere diventati più alti con l’arrivo dei siriani, mentre il lavoro tende a scarseggiare. Nella cittadina si trovano giusto alcune piccole fabbriche tra cui diverse adibite alla lavorazione del cotone, principale coltivazione dell’area. Ma per i turchi sarebbe diventato più difficile anche lavorare nei cantieri. “La giornata di un operaio locale è di 30 lire, mentre i siriani si adattano a lavorare a un terzo di quella cifra” spiega un giovane. In alternativa c’è chi si arrangia vendendo gasolio e sigarette portati in contrabbando dalla Siria, facendo facchinaggio o lavorando al mercato o nei negozi.

Massoud, proprietario terriero

Massoud è il padre di una famiglia composta da nove persone. Nel bilocale preso in affitto, ospita temporaneamente anche un’altra famiglia siriana, degli ex vicini di casa di Hama. Non si tratta della prima volta, “siamo tutti nella stessa situazione di disgrazia”, spiega sgranellando un rosario. L’uomo ha un’aria sicura di sé, che fa trasparire in parte il benessere economico di cui racconta aver goduto fino a qualche tempo prima, perché proprietario terriero. Un bombardamento ha interamente distrutto l’abitazione della sua famiglia, e nella stessa circostanza ha assistito alla scena straziante di un vicino che raccattava i pezzi del proprio figlio.

Fosse stato per lui, racconta, non si sarebbe mai spostato dalla Siria: l’ha fatto per i figli. “Siamo arrivati qui oltre un anno fa e inizialmente, disponendo di abbastanza denaro, siamo andati ad abitare in una casa grande. Ma i soldi ormai sono quasi esauriti e per questo ci siamo dovuti trasferire in questo bilocale”, spiega. Mentre parla, al centro di una delle due stanze arredate unicamente con materassi, cuscini e tappeti viene posato un ampio piatto di riso da offrire agli ospiti, sempre trattati nel migliore dei modi, anche nelle condizioni più difficili. La cuoca è la signora della casa. In Siria faceva l’insegnante di educazione fisica. Una delle figlie più grandi, invece, frequenta a Reyhanlı una delle scuole gestite dai siriani.

Quando il denaro finirà completamente Massoud intende tornare in Siria. Aggiunge però che non ha mai pensato di andare in un altro paese, che sia in Europa o l’Egitto. “Da qui riesco a vedere la mia terra”, spiega.

Aiuti

Camion della ong Fondazione di aiuto umanitario (foto A. Gilabert)

Camion della ong Fondazione di aiuto umanitario (foto A. Gilabert)

Con l’inverno alle porte, mentre qualcuno lotta per sopravvivere in Turchia, altri si occupano di inviare aiuti a chi invece è rimasto in Siria. La ONG islamica Fondazione di aiuto umanitario (IHH), nota al grande pubblico per l’episodio della Freedom Flottillia per Gaza del 2010, è una delle organizzazioni più attive di Reyhanlı. Il suo aiuto si concretizza in spedizioni giornaliere in Siria di 6 o 7 convogli da 27 tonnellate ciascuno contenenti pacchetti alimentari e sanitari, oltre che kit specifici per bebè e pane.

Adiacente al magazzino dove quotidianamente arriva e si smista la merce da inviare nei quattro angoli della Siria, è operativa una fabbrica dove si producono circa 200mila pezzi di pane al giorno, prodotti con farina donata dal Qatar. I responsabili della ONG spiegano, senza meglio precisare, che i loro finanziamenti arrivano sia da donatori turchi che esteri. Il governo turco concede alla fondazione alcune facilitazioni alla frontiera: i loro TIR arrivano fino alle zone tampone tra i due varchi dove i pacchi vengono trasferiti nei convogli siriani. In Siria, una cinquantina di ONG locali operano in loro sostegno nella distribuzione dei materiali d’aiuto. Il processo, precisano gli operatori della fondazione, è seguito e documentato attentamente in ogni sua fase, aggiungendo che per quanto se ne possano inviare cibo, coperte e sanitari restano sempre carenti rispetto alle necessità della popolazione.

Una presenza importante a Reyhanlı è anche quella di diverse organizzazioni di medici statunitensi di origine siriana, attivi nel prestare soccorso ai feriti di guerra in ospedali attivati ad hoc. Maria del Mar, una giovane odontoiatra di Barcellona, presta volontariato in uno di questi centri sanitari, fondato da un medico di Boston. La ventiquattrenne racconta di essere venuta a conoscenza della struttura per caso, mentre sfogliava una rivista medica, ed ha deciso di contribuire come meglio poteva. L’ospedale in cui lavora dispone di una settantina di letti dove curano feriti e mutilati. “I campi profughi della Turchia, a paragone con quelli presenti in Libano, in Giordania e in Iraq sono migliori, hanno servizi igienici, si fa veramente il possibile”, afferma la donna. “Ma è una tragedia che di fronte a una tale brutalità le Nazioni Unite non stiano intervenendo per niente. Ciò che però andrebbe fatto non è costruire altri campi, è fermare la guerra”, aggiunge. Poi, come un raggio di sole, condivide il ricordo migliore che le resta dalla sua esperienza a Reyhanlı: “È l’aver conosciuto molte persone aperte che mi hanno insegnato che in Siria, prima della guerra, gente di tutte le religioni vivevano insieme in pace e nessuno veniva a chiederti quale fosse il tuo credo. Ma di questo alla TV nessuno parla mai”. E quello peggiore: “Le immagini dei bambini innocenti che a causa di questa guerra hanno perso le gambe, le braccia e sono rimasti senza genitori e fratelli”.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa


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