Armeni americani sulla via del rimpatrio. Bobby  (sinistra), Paul (centro) e Johnny (destra) salpano sulla nave Rossiya da New York diretti in armenia nel 1947 - fotografia per cortesia di Hazel Antaramian Hofman

Da ragazzina si è sempre chiesta perché viveva a Yerevan se suo padre era nato negli Stati Uniti e sua madre era di Lione. Poi ha capito. Hazel Antaramian Hofman, con un progetto storico-artistico, segue le tracce di chi, da tutto il mondo, dopo la Seconda guerra mondiale decise di migrare in Armenia

17/08/2012 -  Hazel Antaramian Hofman

Sono nata nel 1960, a Yerevan, Armenia, anche se parlo poco in armeno, e quel poco che parlo è armeno occidentale. Da ragazzina mi sono sempre chiesta perché vivevo in un posto così esotico se mio padre era nato a Kenosha, nel Wisconsin, e mia madre era di Lione, in Francia. Solo col passare degli anni e l'ascolto di innumerevoli racconti sono divenuta consapevole di essere il prodotto di due figli della diaspora armena successiva alla Seconda guerra mondiale, obbligati dal senso emotivo di hayrenik dei loro genitori ad abbandonare una terra culturalmente ed ideologicamente nota per l'ignoto.

I rimpatri successivi alla Seconda guerra mondiale hanno sradicato molti armeni in tutto il mondo: Francia, Libano, Egitto, Grecia, Cipro, Siria, Bulgaria, Romania, Palestina, Stati Uniti e qualcuno persino in Sudan, Iran, Iraq, India, Uruguay, Argentina e Cina. È stata una campagna orchestrata per ripopolare l'Armenia dell'epoca, piccola frazione di quell'ampio territorio documentato quale la casa ancestrale degli armeni dai tempi di Dario il Grande. I rimpatriati erano però diretti non alla loro patria romantica e vasta degli antenati ma in un'Armenia “sovietizzata” sotto Stalin. È stato un fenomeno migratorio accompagnato da spossessamento personale e spirituale e disparità culturale.

Dopo la Seconda guerra mondiale i rapporti tra Unione sovietica e Turchia erano tesi. I sovietici chiedevano la restituzione delle province di Kars, Ardahan, Erzerum, Trebizond, Van che sarebbero dovute passare dalla Turchia all'Armenia sovietica. Queste erano terre storicamente armene e dal 1878 al 1918 erano state sotto il controllo russo. Per due anni, dal 1918 al 1920, l'Armenia aveva inoltre goduto di un'indipendenza moderna. Il fatto che questi territori venissero restituiti all'Armenia sovietica era percepito come importante da tutti gli armeni, compresi quelli della diaspora. La rivendicazione sovietica di queste terre agiva quindi di concerto con le aspirazioni della diaspora armena. I rimpatri furono un aspetto della memoria storica del genocidio, dell'abbandono e della migrazione forzata dall'Impero ottomano durante il 19mo e gli inizi del 20mo secolo. Alla fine però le modifiche delle alleanze dopo la Seconda guerra mondiale, tra i sovietici e l'Occidente, in particolare gli Stati Uniti, e l'Occidente e la Turchia, sigillarono il destino di queste terre.

Il progetto 

Armeni americani fanno tappa a Napoli durante il viaggio verso l'Armenia sulla nave Rossiya, nel 1947 - foto per cortesia di Hazel Antaramian Hofman

L'autrice è interessata a continuare la raccolta di fotografie e racconti di rimpatriati. Per questo chiede, a chiunque abbia storie da raccontare sui rimpatri in Armenia dopo la Seconda guerra mondiale, di contattarla al seguente indirizzo mail: hazelantaramhof@yahoo.com, inserendo nell'oggetto la dicitura “repatriate project”.

Chiesa armena e rimpatri

Molti armeni della diaspora mantennero un forte legame con la loro fede cristiana e la devozione al loro patrimonio religioso, costituendo chiese armene e scuole nei paesi che li ospitavano. Data questa propensione alla devozione religiosa degli armeni residenti all'estero la politica del Cremlino iniziò, dopo il 1941, a promuovere l'idea di patria. Si ridusse quindi l'ideologia comunista a favore del patriottismo armeno e della Chiesa. Le manovre sovietiche per assicurarsi l'appoggio della Chiesa armena sono un aspetto cruciale di questo processo di propaganda. Il clero armeno si aggiunse al coro rivolto agli armeni nel mondo affinché tornassero nella loro “madrepatria”. Il nuovo patriarca Georg (Kevork) VI, eletto nel 1945 dal Conclave ecclesiastico nell'Armenia sovietica, fece un appello mondiale agli armeni affinché tornassero a “casa”. In realtà, ogni sostegno che venne dato alla Chiesa armena dai sovietici era motivato politicamente. Non negava certo anni di erosione della chiesa e della persecuzione di quell'istituzione. La cultura sovietica cambiò molto della tradizione degli armeni, incluso il rapporto tra il popolo armeno e il suo credo religioso, che si può definire la principale istituzione sociale che ha tenuto gli armeni uniti come popolo nel corso dei secoli.

La Repubblica dell'Armenia era in uno stato di estrema povertà dopo la Seconda guerra mondiale. Nel novembre del 1945 Stalin autorizzò il ritorno degli armeni nell'Armenia sovietica per portare nuova linfa nella costruzione, vitalizzazione e sviluppo economico in una Repubblica sovietica depressa. Le organizzazioni nazionaliste armene, i partiti politici, la leadership religiosa unirono gli sforzi per sostenere i rimpatri. Il Comitato rimpatri armeni sottolineò la necessità di fare leva sul senso nazionale armeno senza rimarcare come l'Armenia fosse ora parte dell'Unione sovietica.

Patria e propaganda

La storia del rimpatrio è costellata di percorsi individuali tortuosi e contraddittori ma, nella maggior parte dei casi, vi è una traccia comune: si è trattata di una scelta nazionalista, o a volte, legata a sentimenti socialisti, fatta da un patriarca o da una matriarca che ha sradicato la propria famiglia in risposta ad un appello emotivo globale incoraggiato dalla propaganda sovietica.

Il reportage da Beirut a Yerevan 

Un secolo fa il genocidio armeno sanciva la fine della convivenza turco-armena in Anatolia e affidava al Levante arabo i destini dei sopravvissuti. Aleppo, Damasco, Baghdad e Amman divennero così il grembo della diaspora armena.

Ma è in Libano che si compie il momento di maggiore intesa tra l'esilio armeno e il mondo arabo. A Beirut viene fondata l'università della diaspora, nasce la coscienza e la rivendicazione politica armena, sopravvive e si rinnova il mito del ritorno, si esprime l'anima della più grande comunità armena del Medio Oriente. E' da Beirut che si diffonde la diaspora in Europa, negli Stati Uniti, in Sud America e in Africa.

Paolo Martino è partito da Beirut e attraverso Turchia orientale, Giordania e Siria ha raggiunto Yerevan, capitale della evocata quanto estranea Madre Armenia. Dal Caucaso a Beirut è un reportage che percorre il cordone ombelicale della diaspora attraverso i luoghi della fuga e dell'esilio. Sullo sfondo un Medio Oriente battuto dalla Primavera araba, il più poderoso vento di rinnovamento che abbia mai spirato su quei cieli.

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Il richiamo sovietico agli armeni di tutto il mondo è stata una manovra per attrarre giovani; per assicurarsi lavoratori qualificati e professionisti provenienti da paesi sviluppati e per ottenere nuove tecnologie e prodotti. Incoraggiati da promesse di alloggi gratis, terra su cui costruire e opportunità di lavoro, chi abbandonò la diaspora cambiò radicalmente la propria vita basandosi su false speranze. Fin dal loro arrivo furono testimoni di condizioni sociali ed economiche inimmaginabili, senza alcuna possibilità di abbandonare l'Armenia del blocco sovietico e riottenere i passaporti confiscati.

La memoria collettiva di molti hayrenadartsner – rientranti – è stata quella del tradimento e della delusione, mascherati da proclami patriottici. Chi è sopravvissuto a quei tempi ha poi raccontato storie di arretratezza, malattie, discriminazioni, ansia psicologica e brutalità fisica incontrate sotto il sistema sovietico. Zabel (Chookaszian) Melconian, una ventenne di New York, lasciò gli Stati Uniti nel 1947, a seguito della decisione del padre di tornare in Armenia.

Dopo aver avuto esperienza di condizioni di vita abissali ricorda di aver provato ad avvisare i parenti in America di non partire per l'Armenia mandando messaggi criptici in lettere che venivano regolarmente censurate.

Sopravvivere

Articoli accademici, lezioni e testimonianze hanno appena iniziato a far luce su questo periodo della storia armena. Crosby Phillian, newyorkese, ha lasciato gli Stati Uniti nel 1949, all'età di sedici anni. Ora afferma che “sopravvivenza” era il mantra di molti rimpatriati che, durante la vita in Armenia, furono costretti a vendere i loro averi personali sul mercato nero per pochi rubli per poter procurarsi del cibo.

La vendita di oggetti sul mercato nero divenne un rituale di ogni domenica. Gli akhbars, spinti dall'ansia, furono alla mercé di coloro i quali avevano un po' di denaro e che conoscevano il sistema. Phillian, che attualmente vive in Francia, sottolinea anch'egli che la legge non scritta di allora, sotto l'Unione sovietica, era quella delle lunghe code per comprare alcuni alimenti di base: pane, carne o formaggio. Folle innervosite, liti e scontri fisici non erano inusuali. Phillian ricorda pure di un morto. Un uomo, che stava semplicemente provando a comperare del formaggio, venne ucciso da un tacco di scarpa da donna con cui fu colpito in testa.

Da Humphrey Bogart a Stalin

Le mie memorie di bambina in Armenia sono ovviamente limitate e condizionate dalla situazione sociale vissuta dai miei genitori. Col tempo, ascoltando le storie di famiglia, ho saputo come vi fosse stata una lacerante differenza nell'esperienza culturale dei miei genitori tra il periodo in cui crebbero lontani dall'Armenia e più tardi quando maturarono, nei loro anni formativi in Armenia.

Pensandoci, è difficile immaginare lo shock culturale vissuto da chi è cresciuto alla fine degli anni '40 negli Stati Uniti, con la colonna sonora di Count Basie, Benny Goodman e Frank Sinatra e i visi di Cary Grant, Humphrey Bogart, Lana Turner e Loretta Young che dominavano gli schermi.

C'era anche chi però ha avuto esperienze non del tutto negative. Quelli che ad un certo punto hanno imparato come funzionava il sistema sovietico. Hanno trovato lavoro nelle istituzioni governative o hanno avviato commerci lucrativi e avviato professioni che permettevano loro di guadagnarsi un po' di spazio. Altri sapevano invece “lavorarsi” il sistema con la corruzione.

Ma vi furono quelli che soffrirono enormemente. Finirono in uno stato di scarsa salute, stress continuo e povertà. Le esperienze più terribili comunque furono vissute da coloro i quali vennero deportati dall'Armenia in Siberia o Asia centrale e che non fecero mai ritorno. Data la radicale differenza della vita dei loro genitori prima e dopo la Seconda guerra mondiale come è possibile catturare le memorie innocenti di quei bambini nati in Armenia da rimpatriati? Sono i figli degli akhbars. Ignari della tragedia della loro famiglia crebbero assieme ai figli degli dekhatseez, gli armeni autoctoni. Ma molti di loro non si adattarono mai del tutto alla vita in Armenia e subirono in prima persona discriminazione sociale, gravi malattie e povertà.

Ricerca etnografica e arte

Molte domande continuano ad emergere: come si può superare la perdita profonda delle libertà culturali e la sfiducia subita dagli armeni-americani nel contesto della guerra fredda? Come riuscirono gli armeni cristiani a gestire la repressione religiosa nell'Armenia sovietica? Per capire e raccontare nuovamente la storia mi sono rivolta alla ricerca etnografica e all'espressione artistica.

Nel 2010 ho iniziato a fare delle interviste e a raccogliere le fotografie di famiglia, le memorie e i documenti di viaggio. Basandomi su queste fonti e sulla documentazione storiografica era mia intenzione catturare questa storia sfaccettata attraverso la pittura, i disegni e le installazioni artistiche come espressione e interpretazione delle esperienze sociali.

Quando lo scrittore e amico di famiglia Tom Mooradian visitò Fresno nell'autunno del 2009 (e più tardi nel 2011), durante il tour di promozione delle sue memorie “Un rimpatriato: amore, basketball e KGB” (Repatriate: Love, Basketball, and the KGB), mi sono resa conto che ci capivamo e che ritenevamo entrambi ci fossero altre storie personali che dovevano essere documentate. Ma, come dissi a Tom, il mio obiettivo non era quello di scrivere biografie personali, ma di utilizzare l'immaginario collettivo e i testi raccolti per narrare la storia dei rimpatri di fine anni '40, all'interno delle pieghe della storia armena del ventesimo secolo. Non solo per comprendere meglio la mia storia personale ma per raccogliere storia orale, per interpretare dal punto di vista artistico lo shock, la perdita di libertà e il tumulto ideologico che diede forma al tempo storico degli akhbars.

Parigi

Nel dicembre 2011 mi sono recata a Parigi, Francia, per incontrare vecchi amici di famiglia che rimpatriarono nel 1947 e poi lasciarono l'Armenia nel 1966. Le storie delle partenze dalla Francia, nel secondo dopoguerra, sono contorte, deprimenti, a volte surreali.

Sono passati oltre sei decenni da quando una nave se ne stava al largo, nel porto di Marsiglia. Qualche giorno dopo la nave russa messa a disposizione per il rimpatrio partì. Era il 24 dicembre del 1947. A bordo della Pobeda vi erano - tra gli altri - anche 300 armeni francesi che aspettavano i loro documenti di viaggio. Le autorità francesi negavano loro il diritto di salpare dal porto di Marsiglia e intimavano loro di sbarcare.

La nave alla fine salpò con a bordo 1.122 armeni, senza i 300 armeni francesi che la Francia riteneva suoi cittadini. Al tempo Virginie (Hekiman) Antaramian aveva 12 anni ed era nata in Francia da genitori armeni. Ricorda molti episodi di quei giorni. Ricorda di venir condotta a bordo della nave, furtivamente, dallo zio comunista Hagop Chiljian, come accadde a molti altri figli di genitori armeno-francesi. Poi ricorda di aver aspettato nascosta a bordo in attesa di essere raggiunta dai genitori.

Per i francesi, che avevano perso molti concittadini durante la guerra, era questione di salvaguardare la fetta giovane della popolazione. Virginie sentì da altri bambini storie simili alla sua: portati a bordo della nave principale su piccole imbarcazioni, nel mezzo della notte, per essere imbarcati senza che le autorità francesi ne venissero a sapere nulla o imbarcati sulla Pobeda in grandi casse. In un secondo momento però a coloro i quali non era stato dato il permesso di salpare da Marsiglia venne permesso di lasciare la Francia.

In Armenia io voglio andare

In qualche vicenda vi è anche un romanticismo che si mescola al surreale, come la determinazione di Hagop Dertlian, armeno, convinto comunista, che portò la moglie e 3 delle 5 figlie in Armenia. La seconda delle 5 figlie, Esther, fu lacerata dal dover abbandonare la sua amata Parigi e capiva bene la riluttanza della madre e delle sue sorelle più giovani nell'andare in Armenia, nel 1947.

A quel tempo la sorella maggiore di Esther, Armenouhi, si era già trasferita negli Stati Uniti dopo essersi sposata con un soldato americano dopo la guerra. La terza sorella, Alice, non volle invece lasciare Parigi. Restò un po' di tempo in città per poi raggiungere la sorella Armenouhi negli Stati Uniti. Fu però in Armenia che Esther incontrò e sposò l'amore della sua vita, Dickran Sahaguian, un armeno-francese. L'ironia è che i due vivevano nello stesso quartiere di un sobborgo di Parigi prima del rimpatrio, ma nessuno dei due conobbe l'altro sino a quando le loro vite si incrociarono in Armenia dopo il 1947.

Altre storie smuovono corde molto più tristi. La madre di Virginie, Dirouhee (Samuelian) Hekimian, di buona educazione, socialista, originaria di Décines, vicino a Lione, Francia, convinse la famiglia a trasferirsi in Armenia nel 1947 e improvvisamente si trovò ad affrontare, tre anni dopo, una grave malattia del marito e a crescere due bambini.

Per sopravvivere vendette tutti gli oggetti di valore in possesso della sua famiglia sul mercato nero per una somma esigua di rubli. La sua famiglia visse in povertà per molti anni. Le loro condizioni di vita li resero più vulnerabili alle malattie. Alla figlia, Virginie, venne diagnosticato il tifo mentre il figlio, Massis, a soli 5 anni, subì una pesante dissenteria mentre il marito era in ospedale. Virginie ricorda come la madre, molto religiosa, pregasse ogni notte chiedendo che la loro vita potesse miracolosamente cambiare.

Braccia e tecnologia

Nel marzo del 2012 feci il secondo viaggio per raccogliere storie e fotografie per il mio progetto. Andai a Yerevan in visita ad una vecchia conoscenza di famiglia. Non era una rimpatriata ma nei suoi anni giovanili aveva conosciuto molti armeni originari degli Stati Uniti e della Francia. Ci incontravamo per cena e invitavamo vicini di casa o suoi colleghi di lavoro, persone che o conoscevano storie di rimpatriati o erano loro stessi figli di rimpatriati. Le storie più interessanti emerse in quell'occasione riguardavano i progressi tecnologici fatti dalla società armena grazie agli armeni ritornanti e mai riconosciutigli pubblicamente. In fin dei conti, il cosmopolitismo di Yerevan è tutto legato a quegli armeni che venivano dall'estero.

La tecnologia americana era tenuta in forte considerazione da chi promuoveva il rimpatrio degli armeni e la sua acquisizione doveva contribuire allo sforzo sovietico di far progredire e sviluppare l'arretrata Armenia del dopoguerra. Tutto ciò era tanto importante che il governo sovietico finanziò a molti rimpatriati originari di paesi sviluppati viaggi con bagagli stravaganti. Con i cargo portati in Armenia dagli Stati uniti vi erano le ultime novità americane in fatto di locomozione e tecnologia per la casa.

Non furono molti gli armeni-americani a lasciare gli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale. Vi furono due convogli, uno nel 1947 e uno nel 1949. I fratelli Antaramian, Paul e Massey, vennero raggiunti dai loro genitori in Armenia e dai due fratelli minori, Anto e Perry, dopo che avevano venduto la loro fattoria nel Wisconsin. Paul ricorda che la famiglia portò con se dagli Stati Uniti materiali e attrezzi edili di ogni tipo, e poi legname, finestre, cardini, viti, cavi e chiodi con l'intenzione di costruire una casa appena arrivati.

Sul loro cargo vi erano anche lavatrici, stufe, frigoriferi, un trattore a un'automobile Nash Motors "Ambassador". Anche altri armeni-americani portarono le proprie automobili, come una Buick della General Motors e la versione civile della “Jeep” della Willys-Overland Motors. Deran Tashjian, armeno rimpatriato nel 1949, originario di Watertown, Massachusetts, ricorda che il padre portò in Armenia la sua Buick Roadmaster. Era una macchina agognata dai funzionari sovietici che continuarono a tartassare la famiglia di Deran affinché consegnasse la macchina al governo. Deran ricorda come sotto minaccia di deportazione alla fine la sua famiglia consegnò la macchina ai funzionari comunisti.

Ancora in viaggio

Il mio viaggio artistico, nel dopoguerra del rimpatrio armeno, è solo cominciato. Sino ad ora ho raccolto 45 foto in bianco e nero di bambini e famiglie di rimpatriati scattate in Armenia tra il 1947 e il 1966. Le fotografie entreranno in un database che verrà poi utilizzato per il lavoro artistico e come archivio di documentazione. Una mostra di disegni, dipinti e installazioni è prevista per la primavera/estate 2013.


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