Kiev, foto di Danilo Elia

Sono stati uccisi quasi tutti la mattina del 20 febbraio, abbattuti uno alla volta, con fucili di precisione. Da Donetsk ai luoghi della rivolta di Kiev, continua il reportage in quattro tappe che ci porta ad attraversare l'Ucraina da est a ovest. La terza puntata

16/04/2014 -  Danilo Elia

In centro a Kiev l’aria sa ancora degli pneumatici bruciati. Per settimane dalle barricate sulla Maidan si è levato un fumo nero, denso, che il vento (per una strana sorte) soffiava in faccia alle forze speciali schierate. In piazza ci sono ancora le ultime tende e c’è il palco, ma non c’è nessuno a parlare ai microfoni. Sui sanpietrini divelti e usati come materiale da lancio, sull’asfalto incenerito ci sono ora migliaia di fiori e candele. Maidan Nezaležnosti non è più solo il centro di Kiev, è un luogo di

pellegrinaggio dove a migliaia vengono ogni giorno a pregare per i “Cento del paradiso”, a deporre un fiore, a lasciare un biglietto. 103 manifestanti e 13 poliziotti sono morti sul selciato di questa piazza, in gran parte durante la carneficina del 20 febbraio, quando i berkut hanno sparato a bruciapelo sui manifestanti.

Quello che era uno dei varchi d’accesso attraverso le barricate sulla Kreščatik è ora presidiato da un ragazzino del Pravy Sektor, Bogdan, con la sua cassetta per le offerte. Non dimostra più di diciassette anni, come molti dei membri di questa formazione di estrema destra che ho visto finora. “Abbiamo aperto un centro di reclutamento di volontari”, dice indicando una porta lì vicino. “Dopo che hanno ammazzato uno dei nostri capi abbiamo bisogno di essere sempre di più per far sentire la nostra voce al governo. Ci stiamo organizzando in un partito”.

Nella notte tra il 24 e il 25 marzo Aleksander Muzičko, uno dei leader del Pravy Sektor, è stato ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia che era andata ad arrestarlo. Ma secondo i membri dell’organizzazione, dato che la cosa è accaduta di notte e in campagna, si è trattato di un’esecuzione ordinata dai vertici della polizia. “Abbiamo mandato avanti noi Euromaidan, e ora cercano di farci fuori”, continua Bogdan.

Il Pravy Sektor si è fatto conoscere fuori dell’Ucraina come il braccio armato di Euromaidan, il gruppo xenofobo e violento che ha incendiato la protesta. Eppure neanche uno dei 103 morti in piazza aveva legami con il movimento e Muzičko è di fatto il loro primo caduto. Non ci sono evidenze che il Pravy Sektor abbia mai costituito una minaccia per la parte russa e russofona della popolazione (come la propaganda russa ha sempre affermato), ma le posizioni ultranazionaliste e razziste di questi ragazzi con le teste rasate e gli anfibi ai piedi lasciano poco spazio a un’immagine di pacifica tolleranza. Ora che l’Europa se n’è accorta e che le pressioni sul governo ad interim si fanno sentire, a Kiev si cerca di prendere le distanze dai movimenti estremisti, non solo il Pravy Sektor ma anche l’organizzazione paramilitare Unso e lo stesso partito Svoboda.

La salita che da Maidan Nezaležnosti va verso via Institutska è stata intitolata ai “Cento del paradiso”. Un corollario di candele allineate sul selciato porta verso mozziconi di barricate che resistono come un monumento alla battaglia di Kiev. Ai lati della strada, vicino al luogo del massacro, ogni albero è un morto. Una foto inchiodata al tronco, uno scudo forato dai proiettili poggiato lì, mazzi di fiori freschi, qualcuno si segna il petto e prega. C’è il silenzio dei cimiteri e dei luoghi sacri.

Kiev, foto di Danilo Elia

È proprio in questo punto che la mattina del 20 febbraio i berkut hanno fatto al tiro a segno con i manifestanti disarmati, protetti solo da scudi di lamiera che erano come latta contro i colpi dei kalashnikov, molti saliti fin qui per recuperare morti e feriti e a loro volta colpiti. Sparati dalla distanza con fucili di precisione che miravano a uccidere. Nessun corpo a corpo, nessun lancio di molotov, nessuna necessità di difesa. Mandati a terra uno dopo l’altro, con metodica precisione.

Aleksander si aggira tra i fiori e una sorta di santuario in legno e mattoncini costruito in tutta fretta. Veste ancora in mimetica. Porta intasca delle schegge di metallo e un proiettile dalla punta cava. “Li ho raccolti qui intorno. Sparavano da lì dietro”, dice indicando oltre la stazione della metropolitana Kreščatik, “cecchini dei berkut, ma anche mercenari russi”. Gli dico che nel posto da cui vengo io, Donetsk, la storia che raccontano è diversa e gli mostro una foto di uno striscione con su scritto “Gloria ai berkut”. Aleksander non risponde, ma a sua volta mi mostra un video sul suo cellulare, ci sono dei poliziotti, discutono se obbedire agli ordini o ammutinare, poi la mano di un ufficiale donna oscura l’obiettivo e il video finisce. “Hanno avuto l’ordine di sparare sui manifestanti. Non tutti hanno obbedito, ma alcuni sì”. Una verità condivisa su quello che è successo in quei maledetti giorni probabilmente non ci sarà mai, e le due Ucraine continueranno a vivere ciascuna con la propria storia.

Al culmine della rivolta la Maidan somigliava più a un accampamento militare che a una piazza cittadina. Al culmine della battaglia, giù da via Institutska affluivano morti e feriti al di qua delle barricate, dove decine di medici volontari avevano allestito ospedali di fortuna. Ora nei gazebo di plastica si è tornati a vendere birra e panini, e le croci rosse fatte col nastro adesivo sono state sostituite dalle pubblicità della coca-cola. Una processione al grido di “Gloria agli eroi, gli eroi non muoiono mai” sfila con in mano i ritratti dei “Cento del paradiso”. Una donna guida il corteo e porta in mano una forma di pane, i ritratti sono contornati da corone di filo spinato. L’allegoria sfiora il misticismo, la folla si segna il petto. I morti sono martiri, quasi santi. La città offre il proprio tributo alle vittime secondo la tradizione ortodossa, a 40 giorni dalla morte. Il ministro dell’Interno, Arsenij Avakov, ha annunciato che i poliziotti che hanno sparato sono stati tutti identificati. Nessuno però è stato ancora né arrestato né incriminato.

(continua)


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