Lei salentina, lui milanese, insieme in viaggio nei Balcani. Da nord a sud attraverso tutte le capitali degli stati nati dall'ex Jugoslavia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

12/02/2010 - 

Di Esther Valzano
Foto di Michele Papa

Correva l’estate 2008. Decidiamo di partire in macchina. Destinazione: Balcani.

Siamo io, Esther e salentina e lui, Michele e milanese. Io da una terra di frontiera, lui da una città che vuole a tutti costi difendere le proprie frontiere dall’attacco dei “barbari”.

Il nostro obiettivo è imboccare la strada dal nord verso il sud dei paesi balcanici toccando le capitali dei paesi sorti dalle guerre degli anni ’90: Lubiana, Zagabria, Sarajevo e raggiungere Bari salpando da Dubrovnik, lungo la rotta seguita dai profughi che circa 15 anni prima sfuggivano alla guerra.

Con la curiosità e il batticuore da primo giorno di scuola partiamo il 9 agosto, destinazione l’agriturismo gestito dagli Abram e sperduto sul monte che sovrasta Vrpolje a circa 20 km da Lubiana. Ci arriviamo al tramonto, l’arancio di un solo estivo disegna i profili dei monti, mentre un puzzoso orso sonnecchia beato nella gabbia che lo rende innocuo agli uomini e
all’attività dei padroni di casa.

Il 10 agosto una soleggiata Lubiana saluta il nostro arrivo: strade strette e passaggi tra i palazzi bassi e colorati e poi l’esplosione della vita lungo il fiume Ljubljanica con giganteschi disegni colorati appesi alle alte sponde quasi a voler nascondere con colori accesi il grigio del cemento degli argini.

Anche qui come capita nei paesi dell’ex blocco sovietico, i cimeli del vecchio regime affollano i banchi dei mercatini lungo il fiume: spille e vestiario dell’esercito, libri di scuola con la faccia di Tito in copertina. È strano come del passato non restino che simboli, l’unico appiglio a un ricordo che la realtà ha voluto cancellare.

Chi volesse respirare un’area alternativa in città, la tappa obbligata è la Metelkova con le sue costruzioni in legno dai colori accesi e le sculture kitsch che si alternano a costruzioni in finto farwest: ci siamo arrivati in bici, facili da noleggiare in centro, e siamo rimasti affascinati dalla forza evocativa del luogo, un tempo caserma poi occupata da una comune dopo l’indipendenza della Slovenia nel ‘90. Ora ci vivono artisti giovani e meno giovani che sperano in un futuro migliore, mentre un chitarrista seduto per terra all’ingresso continua a strimpellare di fronte a un pubblico di cemento.

La visita di Lubliana si ferma al Petit café nei pressi del monumento dedicato a Napoleone, in un quartiere che ricorda il Montmatre parigino: altri clienti, come noi, sorseggiano un caffè all’ombra di enormi ombrelloni. Appena più in basso il fiume continua a fluire, silenzioso, lento e monotono.

Lasciati gli Abram e il sonnacchioso orso, imbocchiamo la strada per Zagabria. È l’11 agosto e arrivati in città ci accoglie quella tipica aria umida del sud che precede lo spegnersi della luce al tramonto.

Il nostro alloggio è la stanza presa in affitto da Muzar Boso, il più burocrate e tecnologico del viaggio che ci accoglie nella sua stanza in Jadranska nei pressi della Britanski tgr, una strada in salita in un bel quartiere residenziale da cui si domina in parte la città. Bozo ci racconta di un suo cliente italiano, che periodicamente viene a rifocillarsi i sensi con qualche ragazza che la povertà costringe a vendersi.

Basta percorrere la Ilica per incontrare vecchi negozi decadenti e vuoti accanto a supermarket dai prezzi occidentali: nel giardinetto dell’Accademia di Belle Arti i vecchietti affollano le panchine all’ombra di alti alberi, noncuranti delle formose pose di copie di statue di Mestrovic che arricchiscono il luogo.

La piazza Josipa Jelacica è dominata dall’insegna rossa dell’italiana Unicredit, vessillo di una nuova ideologia altrettanto affamatrice, mentre a qualche isolato più a nord i due antichi villaggi di Kaptol e Gradec, nati intorno a due chiese - quella di Santo Stefano e quella di San Marco - rappresentano la città antica, sulla rocca, infestata da forti venti e dalla furia tutta attuale dell’industria dell’edilizia dei nuovi ricchi.

Man mano che ci si addentra nei Balcani, si fanno sempre più evidenti i segni della guerra e il grado di coinvolgimento di città, villaggi e persone nei tragici eventi degli anni ’90: arrivare a Zagabria, significa anche vedere i primi i segni di proiettili sui muri dei palazzi lungo la Ilica, segni a cui le ragazze in attesa alle fermate del tram sembrano non prestare poi tanta attenzione.

Ma il culto dei morti ha sempre distinto paesi, mondi e civiltà. Una tappa obbligata quindi è il cimitero Mirogoj dove un’enorme tomba dedicata a Franjo Tudjman, il padre della Croazia indipendente, si staglia all’ingresso del cimitero, in marmo nero rotto dal rosso di fresche rose appena posate.

Continuiamo a scendere verso sud.
Il 13 agosto si parte alla volta di Plitvice, tappa obbligata sulla strada per Sarajevo. Il camping Korana, a 20 km dal parco, è quasi lussuoso, anche qui l’industria del turismo riesce a mietere i suoi frutti.

Un battello sul lago più grande del parco solca un acqua cristallina dal fondale bianco calcareo, letteralmente invaso da enormi pesci rosso-marroni affamati e incuranti della presenza umana: si avvicinano impavidi, con moto lento e sicuro come gli uccelli che zampettano per i parchi cittadini, alla ricerca di pane e briciole.

Si racconta che durante la guerra si sparasse anche qui. Quel che resta è la bellezza di tragitti su ponti in legno, cascate, rivoli e piccoli laghi, un paesaggio che riconcilia l’animo e i sensi.

Lasciamo Plitvice alle 11 circa del 15 di agosto, dopo una lunga attesa all’uscita dal camping.
Destinazione Sarajevo.

Plitvice è molto vicina al confine con la Bosnia, imbocchiamo una strada minore, passando per Prieboj e Ličko: a Petrovo Selo il confine. Nessun controllo particolare, passiamo sotto le insegne della BiH e della sua bandiera a stelle bianche. La guida di Michele singhiozza un po’, è come se sentisse il peso di un confine legato a eventi così tragici. Per il resto tutto fila liscio e senza soste per una strada soleggiata e una campagna arida e sempre uguale.

Siamo in Bosnia, e sembra che il cielo e l’aria assolata delle 3 del pomeriggio estivo raccontino di un paese dolcemente addormentato, mentre il pensiero di una guerra terribile rivive nei buchi dei muri delle case lungo la statale. Il forcone in cima ai covoni di fieno dicono molto di più della povertà di questa terra di quanto riesca a fare un rapporto di ONU, OSCE e Alto Rappresentante messi insieme.

Passiamo da Bihač, evitando la strada per Banja Luka, ma lambendo comunque i confini della Repubblica Srpska. Il confine è idolo che esige sacrifici di sangue, come dice Claudio Magris nei suoi Microcosmi e niente meglio della guerra di Bosnia può spiegarne il significato.

Brevi soste fino a Travnik, la strada attraversa come sempre campagne e villaggi: un camion ci precede, e sembra ci scorti per un lungo tratto. Sul suo carro tre ragazzini bosniaci, a dorso nudo, inneggiano al cielo brandendo una coca cola dinanzi ai nostri sguardi incuriositi.. Li fotografiamo poco prima che il loro autista imbocchi a destra una strada verso i boschi, e verso un lavoro.

Arriviamo a Sarajevo mentre il giorno cede il passo alla notte. Ad accoglierci un palazzo sventrato e annerito mentre i cartelloni pubblicitari tentano di nasconderne l’aspetto di desolazione. Solo l’Holiday Inn è stato ricostruito e si staglia giallo tra palazzi che portano ancora i segni della guerra.

Il nostro alloggio è in Garaplina Ulica, nel quartiere Bistrik sulle pendici delle tante colline che circondano la città. Si tratta di una stanza di lusso quello che madre e figlio ci offrono, a un prezzo bassissimo, in un quartiere della città che durante la guerra era bersaglio dei serbi.

La stanza è un po’ opprimente, dentro c’è tutto quel che serve per viverci, un letto matrimoniale, due divani e dei mobili da salotto con stoviglie, piatti del servizio buono e vasi per fiori, mentre un tappeto enorme, rosso bruno ci dice di essere in una casa musulmana, onesta e pulita.

Scoppio in lacrime. È una liberazione dopo la lunga marcia in macchina per terre case e strade segnate dalla guerra, ma i cui segni restano ancora visibili.

Non si può capire la guerra in Bosnia se non si è vista Sarajevo. Ci restiamo per tre lunghi giorni, il tempo di lasciarsi rapire da una città dove il rintocco delle campane si alterna alla voce della muezzin e può capitare di incontrare ebrei ortodossi per le vie del centro.

Il bazar è pieno di souvenir di ogni genere, alternati ai ristoranti che ti accolgono con le enormi peke, tipiche campane di ghisa che nascondono ćevapčići (carne di agnello o vitello macinata), šnicla (bistecca) o kotleti (costata di vitello) e che il cuoco scopre quasi fosse il vaso di Pandora.

Sono i giorni del Sarajevo Film Festival, Gomorra di Matteo Garrone sul testo di Roberto Saviano, è in programmazione e decidiamo di andarci.

In un grande cortile chiuso tra vecchi palazzi diroccati, gli spari del film, il sangue, le lotte di quartiere tra bande a Napoli racconta di un’altra guerra, che gli abitanti di Sarajevo sembrano guardino con un certo sollievo, come se per il tempo di un film, non si sentissero vittime ma spettatori di una guerra e quasi purificati dalle atrocità.

Le strade di Sarajevo di sera restano per lo più deserte, soprattutto quelle che salgono verso le colline come la Garaplina Ulica che ci riporta a casa. Sulla strada altri simboli della storia recente: un minuscolo cimitero musulmano, portoni di ferro traforati a colpi di arma e teli dell’UNHCR a ricoprire il materiale usato per ricostruire le proprie abitazioni.

Un gatto ci accoglie al rientro, mentre il cane del vicino ci abbaia contro: c’è un’aria qui di sera a Sarajevo che mi ricorda quella dell’estati della mia infanzia in Salento, i silenzi rotti dai passi quasi afoni sull’asfalto, mentre il mondo dei gatti e dei rivali cani sembrano riappropriarsi del potere ceduto di giorno agli umani.

Il 17 è il giorno della visita al cimitero di Kochevo. Una distesa di monoliti bianchi rapisce lo sguardo nonostante a pochi metri si stagli il palazzetto dello Sport delle Olimpiadi del 1985. Il bianco ininterrotto delle lapidi tutte uguali ci racconta la portata delle morti nella guerra di Bosnia: basta attraversare i vialetti del cimitero per notare che la maggior parte delle morti sono concentrate tra il 1990 e il 1995.

Qui non c’è un mausoleo per nessun padre della patria ma tutte le morti hanno lo stesso valore e lo stesso spazio sulla terra: solo un’alta piramide in marmo chiaro si staglia al centro delle distesa di lapidi quasi da monito contro chi volesse negare il supplizio subito dagli abitanti della città.

A Sarajevo facciamo il nostro primo ingresso in una moschea, un vecchio addormentato e scalzo sonnecchia vicino alla cassetta delle offerte con su scritto “DONATE”, mentre una specie di guardiano del luogo sta lavando un enorme tappeto aiutato dalla moglie.

Quando andiamo via, due sorrisi enormi ci salutano, mentre io cerco di recuperare i miei sandali ossequiosamente abbandonati all’ingresso e mi libero del foulard indossato per entrare in moschea.

“Prima della guerra a Sarajevo cattolici, ortodossi, musulmani ed ebrei convivevano in pace, oggi la città è a prevalenza musulmana”. Ce lo confida Anel, un ragazzo di Mostar conosciuto ad un aperitivo a Milano prima del viaggio. “La guerra dei Balcani è stata una guerra etnica, che alla fine è riuscita solo a realizzare la mania di omogeneità razziale dei nazionalisti al potere. Le pulizie etniche di Srebrenica, Visegrad e Goradce hanno solo imposto uno spostamento in massa verso Sarajevo, che a sua volta si è svuotata di serbi e croati”.

Lasciamo Sarajevo con il cuore in gola per l’emozione. Percorriamo la strada che porta verso la Novi Grad, lungo il fiume Miljacka. Autobus scassati, strade con voragini e ancora gli enormi buchi di guerra sui palazzi in alto colpiscono il nostro sguardo con la stessa intensità provata alla vista di Kochevo. Qualcuno ha anche tentato di chiudere quei buchi lanciando del materiale dalle finestre più vicine.

Imbocchiamo la strada per Mostar, una leggera pioggia ci accompagna e ci abbandona a tratti. Ora a margine delle strade non si incontrano il solito agnello arrostito e i covoni di paglia, ma oltre ai campi, agli alberi e alle case tirate su con qualsiasi materiale scorre la Neretva, il fiume che ti scorta fino a Mostar. Il paesaggio diventa sempre più chiaro, il sole torna a splendere oltre i monti.

Arriviamo a Mostar nel primo pomeriggio del 18 agosto, accolti da un sole caldo, estivo e da una traffico che ricorda ancora una volta quello del mio paese al sud, tra scarichi puzzolenti, motorini roboanti e schizofrenia di mezzi.

Il nostro alloggio è fantastico, nei pressi di una piccola piazzetta a pochi minuti dal ponte vecchio. Ad accoglierci la figlia della proprietaria che con pochi gesti da film muto riesce a spiegarci tutto l’indispensabile per muoverci in città.

Usciamo quasi subito, il nostro amico Anel è a Mostar, ci torna quasi ogni estate dopo la fuga con la madre in Sardegna con un ponte aereo durante le prime avvisaglie di guerra in città. La famiglia di Anel ha vissuto sulla propria pelle la tragedia della guerra in ex Jugoslavia: mamma croata e papà musulmano, con la guerra decidono di separarsi scavando confini prima impensabili.

Con Anel scopriamo i motivi veri della guerra in Bosnia. Anel racconta della fabbrica di Mostar che produceva pezzi per i MiG americani, della primavera culturale di Sarajevo e di tutta la regione, che insospettiscono serbi e croati: il nostro amico sta preparando una tesi di laurea sul linguaggio politico durante la guerra. Lo salutiamo quasi subito, il mattino successivo deve raggiungere in pullman Sarajevo per alcune ricerche bibliografiche.

Con alle spalle il Ponte Vecchio di Mostar (finito di ricostruire nel 2006 dopo la distruzione del 1993), scattiamo delle foto, mentre in basso, le acque gelide della Neretva non sono poi così limpide, gli scarichi più a monte della città sembrano esserne la causa.

Al calar del sole, le luci lungo il ponte in pietra creano le ombre di passanti e turisti e sembra di vederle le carovane di epoca ottomana e turca attraversare il ponte in pietra costruito per rendere il passaggio sul fiume più sicuro di quanto lo fosse con il precedente e pericolante ponte in legno.

La sponda est a maggioranza musulmana è un brulicare di botteghe artigiane dove i bossoli delle bombe sulla città prive di esplosivo e vuote vengono incise e vendute. Un altro modo per esorcizzare il passato attraverso la lingua dell’arte.

A Mostar assistiamo a un altro esempio del potere distruttivo di una guerra: un palazzo scheletrico senza pareti ma fatto solo di pilastri è un mostro che taglia il respiro quando di notte torniamo al nostro alloggio.

Lasciamo Mostar al mattino presto, un volantino recuperato chissà dove, ci avvisa di un traghetto per Bari da Dubrovnik intorno alle 13 del 19 agosto.

Sulla strada per Dubrovnik assistiamo al “ballo delle bandiere”. Tenuta sù da un filo legato a due pali posizionati sui due lati della strada la bandiera croata si alterna a quella bosniaca a segnalare la presenza dell’una o dell’altra etnia ad un ritmo tanto convulso da confondere anche il più esperto osservatore politico.

Ogni villaggio ha la sua bandiera e ogni bandiera ha il suo villaggio.

L’Erzegovina, la zona che da Mostar comprende una porzione di terra a forma di cono nella parte sud orientale della Bosnia, appare sin da subito più calda e arida, le acque della Neretva non scorrono più e sembra che l’aria del mare a pochi chilometri prenda il sopravvento sulla terra.

La Bosnia-Erzegovina possiede un piccolo tratto sul mare che costringe a un doppio controllo doganale, e il nostro ultimo ingresso in Croazia è segnato da una multa a 20 km da Dubrovnik: i due poliziotti ci lasciano andar via solo dopo aver pagato 1/10 della multa dovuta per legge.

L’arrivo a Dubrovnik è piuttosto rapido, la costa segue il nostro cammino con le sue acque limpide e immobili.

Il traghetto per Bari è pieno di vacanzieri di ritorno in Italia.

Il nostro viaggio sta per finire, troviamo posto sulla dritta del traghetto, c’è un vento forte e con lo sguardo seguiamo il nostro orizzonte balcanico sempre più sbiadito e lontano. Incrociamo altri traghetti di ritorno a Dubrovnik, mentre per la prima volta nella mia vita vedo dei delfini in mare e non in cattività che ci inseguono tra le onde spumeggianti.

Leggiamo per distrarci, il chiasso dei viaggiatori ci disturba e viviamo con una leggera malinconia inconfessata il nostro rientro in Italia.

I Balcani che abbiamo visto, vissuto e respirato ha l’aria di un corpo segnato da profonde cicatrici ancora troppo evidenti: quindici anni fa una guerra terribile si è consumata a poche centinaia di chilometri da noi europei e italiani e nessuno ha avuto la capacità di fermare distruzioni, morti e genocidi di massa.

Abbiamo conosciuto una moderna Slovenia e una Croazia in cerca di legittimità, ma soprattutto abbiamo amato la povera Bosnia-Erzegovina alla ricerca di un’identità frustrata non solo dalla guerra ma anche dall’impossibilità e incapacità di dimenticare un passato ancora pieno di fantasmi e di paure.


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