Sarajevo

Sarajevo - foto di Emanuele Mei

Un viaggio a Sarajevo, accompagnati dagli articoli del giornalista Kurt Schork, assassinato in Sierra Leone nel 2000. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

22/09/2015 -  Damiano Spacone

Le Vw Golf terza serie color pastello, quelle mezze arrugginite e un pò scassate che fanno le bizze per mettersi in moto, ancora spuntano qua e là per le strade di Sarajevo. Come i primi funghi della stagione anche esse possono essere considerate vere e proprie primizie, con in più quell'aria sbarazzina e così “vintage” che non annoia mai. Zigzagano rumorose, tossicchiando assai frequentemente, senza più affannarsi per raggiungere la meta finale, la bandiera a scacchi. Durante gli anni dell'assedio poco importava che fosse l'aeroporto Butmir, l'Holiday Inn o una rara fontanella, tanto il senso di marcia era comunque unico: un inferno di odio e sangue.

Sul boulevard il traffico è quello di una grande città che lentamente soffoca sotto il caldo estivo; taxi, bus e suv dai vetri oscurati sfrecciano a destra e sinistra, seguendo la cadenza frenetica che contraddistingue universi brulicanti di vita, pronti a mettersi di nuovo in piedi ed iniziare, seppur in salsa balcanica, a correre verso un futuro per troppo tempo abbandonato là, così lontano e incerto, così remoto.

Dall'aeroporto adesso è possibile immettersi sulla Ulica Zmaja od Bosne grazie ad una nuova strada, nuova come il nome, ma allo stesso tempo già adulta come la storia e la memoria racchiuse dentro di sè. Kurt Schork Lane leggo sul cartello. Provo ad immaginarmi Kurt come mia guida di eccezione per questa giornata, seduto qui accanto a me, contemplare assorto e pensieroso quei frammenti di paesaggio circostante, racchiusi nella sterile e fredda – difficile da credere oggi - cornice dei finestrini dell'auto. Sempre più di quel misero telo in nylon dell'ultima volta rattoppato così così, alla meglio. C'era sempre spazio per uno spiffero, un fruscio. Pochi e sbiaditi erano i colori, il rosso del sangue, il grigio del piombo; tanti, troppi, i rumori. I boati sordi e costanti delle granate accompagnati dal sibilo dei proiettili, rimbombavano in ogni angolo di questa bellissima città, primi violini di un'orchestra monotona e tetra chiamata guerra. Quel maledetto odore sulforeo non se ne andava mai, impregnava le narici giù fino a polmoni, sin dentro l'anima.

Chi era, già era, Kurt? Corrispondente Reuters durante la guerra in Bosnia e l'assedio di Sarajevo, Kurt è riusciuto nell'intento di raccontare al mondo intero, in modo genuino e sincero, una delle più belle e drammatiche storie che certi "attori" vogliono a tutti i costi mandare in scena, storie che trasudano vita imprengate come sono di umanità. Fregandosene del copione, improvvisano a modo loro e riescono a sorprenderci, illuminando il sentiero per quell'angolo così piccolo ed intimo della nostra mente, dove poter riflettere sul significato della vita. Proprio quel significato, quello sconosciuto, che giorno dopo giorno appare sempre più flebile all'orizzonte e di cui tutti noi, prima o poi, soffriamo tremendamente la lontananza.

Romeo and Juliet in Sarajevo

Il suo articolo "Romeo and Juliet in Sarajevo" narra la storia di Bosko Brkic e Admira Ismic. Bosko e Admira erano due semplici ragazzi, pieni di sogni e speranze, che la follia della guerra ad un certo punto ha preteso di spezzare brutalmente. Per noi lui era serbo, lei bosniaco-musulmana (bosgnacca); per loro solamente "Tu e io, noi due".

Quel 19 maggio 1993 decisero di abbandonare la loro Sarajevo, solo sbiadito ricordo di un modello di integrazione certo ricco di contrasti, ma pulsante di vita a tal punto da divenire scommodo ed ingombrante. Le milizie ai check points erano state avvertite, accordi erano stati presi, del resto tutto ha un prezzo in guerra, alto, altissimo e sempre troppo incerto. I lasciapassare in tasca e via, un' ultima frenetica corsa verso Vrbanja e poi da lì, qualche passo nella no man's land, e sarebbe stata fatta. Nei loro piani Grbavica, territorio controllato dalle milizie serbo-bosniache, rappresentava la prima tappa di un nuovo inizio. L'unica paura era per l'inumanità che si nasconde nell'essere umano, capace di attanagliare la sua mente, il suo cuore, fino a renderlo cieco di fronte allo splendore della vita.

Vrbanja Most

Procedo anche io lentamente verso quello che oggi è il ponte "Diliberović-Sučić", intitolato a Suada Diliberović e Olga Sučić, rispettivamente studentessa di medicina e attivista dei diritti umani. La prima bosgnacca, la seconda croata di Vrbanja, quasi a ribadire con forza il vero significato del ponte “come eterno e mai soddisfatto desiderio dell'uomo di collegare, pacificare e unire tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, affinché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi”.

Maledetto è questo ponte, il Vrbanja Most, ultimo giaciglio di Moreno Locatelli, che invece di unire ha lacerato; maledetta questa macabra mano di cinque vite umane spezzate e cinque sogni infranti. Un movimento, un'ultima glaciale messa a fuoco nel mirino, e il vigliacco sparava. Cinquecento marchi tedeschi, questa era la ricompensa, il valore contabile assegnato alla vita umana.

Quante volte avevano schivato quei proiettili, quante volte erano riusciti a trovare riparo dalla quotidiana pioggia di fuoco, contro cui un cappuccio di una felpa serve a ben poco, solo a nascondere il lento scorrere dei rivoli di sangue dal corpo straziato di un'altra e remunerativa vittima. Da svariate centinaia di metri, attraverso quel che rimane del vetro di una finestra da cui fino a poco tempo prima si contemplava il lento scorrere della Miljacka, magari con una tazza di caffè fumante in mano, etnia e nazionalità erano categorie superflue, insiginficanti. Testa o croce, un sputo in faccia alla vita e via, tempo di premere nuovamente il grilletto.

Admira e Bosko non arrivarono mai a Grbavica, i loro corpi rimasero abbracciati l'uno all'altra, immobili. Giorni passarano prima che le salme potessero essere identificate e successivamente restituite ai genitori di Admira – la mamma di Bosko nel frattempo era riusciuta a tornare in Serbia. Numero 250, numero 251. Manco a farlo apposta, la somma è 501. Admira e Bosko sono andati a credito con la sorte, l'uno rappresenta il numero della loro unione, della loro storia; unico dovebbe essere il lucchetto che sigilla le unione quì sul ponte, dove non ci sarà più spazio per bossoli e cartucce. Mai più.

Cimitero "Groblje Lav"

Rivolgo lo sguardo verso le colline e il cimitero Groblje Lav, da queste parti c'era il caffé dove Bosko e Admira si sono incontrati, dove progettavano una vita migliore, dove è stata presa la decisione di abbandonare l'inferno che fino a poco tempo prima chiamavano casa. Qui forse le loro menti sono tornate per un breve attimo, i corpi stretti in un ultimo mortale abbraccio, prima di dire addio per l'ultima volta a quel che rimaneva della loro Sarajevo. Ma questa non è la mia storia, il mio dispaccio. Questa storia l'ha raccontata Kurt, io posso solo e mestamente ricordarla. Ripeto quasi a memoria quelle parole, una dopo l'altra, con una voglia matta di chiudere gli occhi e lasciare che tutto il contorno scompaia, se ne vada, "in un mondo pazzo per la guerra loro erano solamente pazzi l'uno per l'altra".

Seduti assiemedavanti ad un caffè forse sarei riuscito ad apprendere da Kurt qualche dritta per un pezzo decente; chissà se anche Bosko e Admira avrebbero fatto un salto a sera, alla ricerca di un pò di refrigerio. Magari no, non sarebbero più tornati. Chi può saperlo, certo è che loro tre adesso sono tutti "lassù", al cimitero del Leone, dove anche parte delle ceneri di Kurt sono state tumulate. Tempo di andare adesso, non voglio disturbarli più. Tenere viva la memoria di vittime innocenti, la loro voglia di vivere e non piegarsi ad un mondo barbaro e violento, vale forse più di tanti petali destinati nel tempo a cadere.

Questa insolita passaggiata per Sarajevo, dove tutto assume sempre più in contorni di un sogno ad occhi aperti, mi ha aiutato a compiere un passo in avanti verso la comprensione dell'infantile stupidità della guerra. Peggior rimedio per antonomasia, da sempre dipinta maestosa e cupa, poggia in realtà su fragili piedini di argilla pronti a sgretolarsi in un battito di ciglia. La leggera brezza serale finalmente spazza via quel che rimane dell'oramai polveroso gigante, lasciando che parole come ljubav je najbolja riecheggino nella fresca aria. Non riesco nemmeno a voltarmi per un ultimo saluto al mio compagno di viaggio. Tiro diritto, anche se un lieve sorriso riesce a farsi largo tra le tante e cupe immagini scattate in questa giornata. Stonato come sono bisbiglio solamente ritmo e parole di Brothers in Arms dei Dire Straits. Che tipo Kurt, insiste per accompagnarmi fino all'ultimo scegliendosi anche la colonna sonora. Come dargli torto, quì a Sarajevo come in nessun altro luogo, ieri come oggi “ There’s so many different worlds, so many different suns. And we have just one world but we live in different ones”


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