Massimiliano Di Pasquale

23 marzo 2009

Alla memoria di Kapuściński è dedicato La terra del vello d'oro, l'ultimo libro di Wojciech Górecki che racconta il profondo amore dei georgiani per la loro terra attraverso storie mai raggiunte dalle telecamere

"È il grande merito di un autore contribuire con la propria scrittura alla conoscenza degli altri, e attraverso la conoscenza, alla comprensione e all'avvicinamento. Górecki ha superato le enormi difficoltà nelle quali, in quelle regioni, sempre si imbatte un reporter giungendo nei luoghi più inaccessibili e incontrando persone fuori dal comune che ci colpiscono per la loro semplicità e per il loro grande cuore".

Così scriveva sette anni fa il compianto Ryszard Kapuściński, alla cui memoria è dedicato La terra del vello d'oro, nella prefazione di Pianeta Caucaso, il libro in cui Wojciech Górecki raccontava l'universo sconosciuto racchiuso tra Mar Nero, Mar Caspio, pianura del Don, Turchia e Iran.
Analogamente all'opera precedente che rispondeva al tentativo "di descrivere la semplice vita quotidiana in una terra tutt'altro che semplice", raccontando luoghi e storie "mai raggiunte dalle telecamere" e lontani "dalle sedi del potere e dalle linee dei fronti", anche questo affascinante viaggio, stavolta nella sola Georgia, è animato dallo stesso spirito. Quello di Kapuściński e, prima ancora, di un altro illustre polacco di fine Settecento, il diplomatico Jan Potocki.

Górecki, reporter di razza, privo, come scrive Paolo Rumiz nell'introduzione, "dello spocchioso protagonismo che spesso contraddistingue i blasonati war correspondents", è abilissimo nel fondere memorie personali, testimonianze raccolte tra la gente e racconti che scrittori e cronisti, molti di nazionalità polacca, hanno dedicato nei secoli scorsi a quest'affascinante terra di confine. A metà Ottocento furono tanti i polacchi, tra questi anche Mateusz Gralewski e Kazimierz Łapczyński, a visitare la Georgia.

"Coloro che scrivevano delle memorie di viaggio - ricorda Górecki nel terzo capitolo del libro (dove ripercorre la storia del paese dal VI secolo a.C. alla guerra dei cinque giorni dello scorso agosto) - osservavano il comune destino dei due paesi che, una volta potenti, erano caduti: un po' perché dilaniati dai vicini invasori e un po', forse, per loro stessa colpa".
Se Gralewski rimase impressionato dalla nobiltà terriera georgiana "sincera, gioviale, spendacciona, arbitra di se stessa, devota, ospitale, coraggiosa, impoltronita", Łapczyński colse invece il carattere fiero di un popolo la cui storia aveva molte somiglianze con quella degli Stati Europei. "La storia della Georgia, a partire dalla sua conversione al cristianesimo nei primi secoli dopo Cristo, è la vita di un popolo che, più volte bruciato, saccheggiato, disperso e massacrato non a centinaia, non a migliaia, bensì a milioni, non si è mongolizzato, non si è musulmanizzato, non si è persificato ma è rimasto fedele a Cristo, conservando la propria lingua e la propria nazionalità".
La Georgia infatti non solo non fu mai schiacciata dal dispotismo orientale, ma a partire dall'età d'Oro dei grandi monarchi della dinastia dei Bagrationi (governarono dal 1000 fino all'invasione mongola del 1221), guardò sempre ad Occidente. Il massimo poeta georgiano, Shota Rustaveli, vissuto ai tempi della bella e intelligente regina Tamar (1184-1213) e autore dell'epopea Vepkhistkaosani ("Il cavaliere con la pelle di tigre"), viene considerato non a caso da alcuni filologi come un precursore di un'epoca, quella rinascimentale europea, che pone per la prima volta al centro dell'universo filosofico - letterario l'uomo.

Una vocazione, quella europeista e occidentale, che il paese riconferma anche all'inizio del secolo scorso, dopo la caduta del regime zarista e dell'effimero Parlamento Transcaucasico, che aveva riunito per soli 35 giorni i rappresentanti di Georgia, Armenia e Azerbaigian. Quando nel dicembre 1918 scoppia un breve conflitto con la vicina Armenia e la Russia bolscevica si offre di aiutare la Georgia, allo scopo di riportarla sotto il proprio giogo, il premier georgiano Noe Zordania così motiva il suo rifiuto a Mosca: "La nostra strada va verso l'Europa, quella della Russia verso l'Asia. So che i nostri nemici ci accuseranno di essere fautori dell'imperialismo. Mi corre quindi l'obbligo di affermare che antepongo decisamente gli imperialisti dell'Occidente ai fanatici dell'Oriente".

Tre anni più tardi, nel marzo del 1921, la repubblica georgiana perderà comunque la sua indipendenza e verrà inglobata nell'Unione Sovietica.
Migliaia di profughi caucasici, tra cui il premier Zordana, ripareranno allora in Europa.
Il libro di Górecki si apre proprio narrando questa vicenda. Il giornalista di Varsavia lo fa avvalendosi delle pagine dello scrittore e diplomatico polacco Ksawery Pruszyński che nel racconto L'ombra della Georgia, pubblicato nel 1945, offre un ritratto mirabile della diaspora georgiana a Parigi. E del profondo senso di disillusione dei suoi politici e intellettuali, allora come oggi, abbandonati e traditi dall'Occidente.
"No, lei non può rendersi conto di che cosa abbia significato l'Occidente per la mia generazione ... Ci avevano fatte tante di quelle assicurazioni e promesse! Uomini seri, uomini che guidavano le sorti delle nazioni, uomini cui un giorno sarebbero stati eretti monumenti, venivano da noi e ci appoggiavano..."
Queste le amare parole che Uvalishadze, personaggio modellato sul premier Noe Zordania, pronuncia in uno dei suoi ultimi incontri - siamo nel 1938 - con il giornalista Jan 'Stanisławowicz' Garnysz, alter ego dello stesso Pruszyński.

Significativo il ritratto di Uvalishadze con cui Górecki chiude il capitolo.
"Jan si trovò a pensare che tutta la vernice della cultura occidentale non era riuscita a cancellare l'uomo del Caucaso natio e che adesso quel signore dal perfetto francese e dalle letture classiche non era altro che il montanaro di un aul".
Qui Górecki, prendendo a prestito le parole di Pruszyński, sembra quasi offrire un'anticipazione su un tema che gli sta veramente a cuore e che tratterà approfonditamente nei capitoli successivi: il profondo amore dei georgiani per la loro terra.
Un amore e un radicamento che fa sì che in questo "paese dove ogni valle è abitata da un popolo leggermente diverso dall'altro" e dove "ogni valico segna a suo modo una frontiera", comporre un unico stato "senza abolirne la varietà" è un compito non facile con cui "è costretto a misurarsi ogni uomo politico georgiano".

Altrettanto arduo fare i conti con la pesante eredità di Stalin.
"Con i georgiani è difficile parlare di Stalin. La maggior parte di loro lo ritiene un grande" - sottolinea lo scrittore, che al culto del dittatore caucasico ha dedicato nel 1998 un film documentario. Qualcosa, invero, negli ultimi tempi è cambiato.
Tant'è che uno dei notabili di Gori ha proposto di trasferire la statua sita nella piazza centrale della città in un'esposizione, già pronta, dedicata all'aggressione russa dell'agosto 2008.
"Sarà dura smuoverlo da lì - ha commentato una ragazza con la quale tornavo a Tbilisi. - La gente scenderà in piazza come nel '56 e nell'88. Però bisogna farlo. È la nostra maledizione"

La terra del vello d'oro
di Wojciech Górecki
ed:Bollati e Boringhieri (2009).
Introduzione di Paolo Rumiz, traduzione dal polacco di Vera Verdiani.
Prezzo: euro 14