Fabrizio Tassinari

Fabrizio Tassinari

Fabrizio Tassinari è direttore dal 2009 dell’Unità di Politica estera e Studi europei presso l’Istituto danese di studi internazionali (DIIS). In precedenza è stato docente presso il Dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Copenhagen e ricercatore presso il Centro di Studi politici europei (CEPS) di Bruxelles. Collabora con numerosi media internazionali, come The Economist, Le Monde, C NBC, Radio Free Europe. È autore del saggio ‘Why Europe Fears its Neighbors” (2009, Praeger Security International).

07/06/2010 -  Fabrizio Tassinari

Premesso il mio sostegno al processo di allargamento dell’Ue, e all’adesione dei Balcani in particolare, ritengo non sia il momento di affrettare il processo né fornire scadenze suggestive, questo per due motivi principali.

Innanzitutto, c’è una questione di credibilità: l’allargamento presuppone una parvenza di “oggettività tecnica” da parte dell’Ue e della Commissione in particolare. Intendiamoci: le riforme nei paesi candidati, e la loro valutazione, non sono mai un esercizio meramente tecnico. Ci sono decine di esempi, a partire proprio dall’adesione della Romania e della Bulgaria del 2007, nei quali considerazioni politiche sono di gran lunga più pesanti delle schede di valutazione della Commissione. Detto questo, la credibilità dell’allargamento determina la sua efficacia. L’aspirazione dev’essere quella di mantenere rigore e de-politicizzare per quanto possibile i vari dossier. Annunciare scadenze più o meno realistiche a priori, a mio parere, non giova.

Una seconda ragione, che deriva dalla prima, si riferisce più specificatamente alla strategia Ue nei Balcani, che si basa sul cosiddetto Processo di Stabilizzazione e Associazione. Per interpretarlo, mi si consenta, con tutti i limiti del caso, un parallelo con i paesi dell’Europa centrale che hanno aderito all’Ue nel 2004. Si potrebbe dire che in quel caso “stabilizzazione” e “associazione” erano due obiettivi che procedevano grossomodo in sincronia. Alla maggiore stabilità economica e politica corrispondeva un graduale avvicinamento all’Ue dei paesi candidati.

Il peso della storia recente dei Balcani si palesa nel fatto che stabilizzazione ed associazione devono essere necessariamente visti in sequenza: prima i paesi devono dimostrare stabilizzazione, poi verrà loro consentito di avvicinarsi all’Ue. Quando i criteri di stabilizzazione continuano ad includere delicate questioni costituzionali, militari, o come nel caso del Kosovo, perfino il riconoscimento stesso di uno stato, la sequenza è necessariamente più lenta e più vaga. Anzi, l’impressione è che la sequenza si blocchi alla stabilizzazione, senza nessun progresso visibile verso il passo successivo. Ma queste sono anche le pietre angolari di qualsiasi opera di state-building, e non possono essere affrettate da scadenze suggestive come quella del 2014.

Fra stabilizzazione e associazione, ed infine adesione piena, c’è tanta strada da fare per i governi dei paesi candidati. Come accennato, a dividere queste diverse tappe c’è purtroppo anche tanta politica, e non della miglior specie. Il dibattito politico fa naturalmente leva e spesso distorce le questioni più sentite dalla popolazione: dall’immigrazione alla liberalizzazione dei visti alla cooperazione con il tribunale dell’Aja. Bene fece lo scorso anno il Commissario Rehn ad auspicarsi uno “sminamento politico” nella strategia Ue verso i Balcani. Ma se devo limitarmi all’analisi piuttosto che all’”advocacy”, questo sminamento rimane un miraggio, nei Balcani come in diverse capitali europee.

L’Europa rimane una calamita per i paesi vicini, ma non può essere la panacea per tutti i loro travagli interni; come non lo è per alcuni paesi che sono membri da decenni (Grecia docet). Concentriamoci su ciò che l’Ue ha dimostrato di saper fare; si evitino proclami: che essi siano ambizioni irrealizzabili o catastrofismi. Come ha scritto il giornalista Tim Judah di recente: “l’Ue non dev’essere timida nell’usare i diversi strumenti che ha per motivare i Balcani”; un’ipotetica data di adesione non è necessariamente fra questi strumenti.

Se si vuole salvaguardare la (residua) “potenza trasformativa” dell’Ue, ed in particolare la capacità dell’allargamento di incoraggiare riforme, se si vuole rafforzare la credibilità dell’Unione in politica estera, è a mio parere fondamentale perfezionare e (crisi permettendo) incrementare i benefici provenienti dalle varie tappe intermedie nel lungo percorso verso l’adesione piena, e rimanere il più rigorosi possibile nella valutazione di ogni progresso dei paesi candidati.

O, come cantava Elvis in una vecchia canzone: “A little less conversation, a little more action, please”.

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