Van, turchia

Van - foto di Paolo Martino

Una città simbolo della resistenza armena. Rasa al suolo due volte, prima dalle truppe ottomane e poi dal terribile terremoto dell'autunno scorso, Van sembra condividere il destino con la bellissima Tamara, figura leggendaria, scomparsa negli abissi del lago su cui si affaccia. L'ottava puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut"

24/08/2012 -  Paolo Martino

Un minareto giace a terra come un tronco abbattuto dal vento. Il relitto, ferro contorto e cemento sbrecciato, raccoglie una folla muta che a turno ne soppesa le schegge, misurando la caducità di ciò che la fede avrebbe voluto eterno. In silenzio gli uomini si sfilano i cappotti stendendoli in direzione sud fin quando, all'unisono, tutta la piazza si genuflette tra le macerie. Intanto la neve copre tutto, quasi che la natura voglia stendere un velo bianco di vergogna sulle ferite causate poche ore prima con il terremoto.

In questa vita, Van. Nella prossima, il paradiso.

Detto curdo

Van, profondo oriente anatolico. Crocevia di rotte, avamposto di imperi, trofeo di guerre, testimone di stragi. La Perla d'Oriente oggi conta i suoi morti. Sotto le macerie spolverate dalla neve, decine di corpi aspettano di essere ritrovati, mentre i vivi bruciano infissi e sedie rotte per riscaldarsi. Un uomo in tuta si lascia fasciare una mano, rassegnato, mentre con l'altra chiede una sigaretta ai passanti. Martelli pneumatici pulsano asincroni nell'aria, attutiti solo dalla nevicata pesante.Van stamattina fatica a riconoscersi, scossa nelle membra dalla violenza del terremoto. Eppure la smorfia di dolore in cui si contorce è solo un graffio, se paragonata alla distruzione che non la natura ma gli eserciti gli causarono novantatré anni fa. L'anno in cui la più grande città armena dell'Anatolia fu spazzata via per sempre.

Dal mio diario

10 novembre. Un fiocco precipita lento, dondolando nell'aria. Prima che cada al suolo smetto di seguirlo e riporto lo sguardo in su, cercandone un altro. E così via, finché trovo il coraggio di guardare in basso. La mia meta - l'ostello in cui ho passato un'estate, due anni fa – è un mucchio di calcinacci sotto la neve. Van era l'unica tappa, dal Caucaso a Beirut, in cui avrei potuto bere tè con vecchi amici, guardare le stelle in compagnia, ripassare le storie di un vecchio albergatore conosciuto tempo fa. Man mano che si accumula, la neve smussa il profilo spigoloso delle macerie: oltre all'anima dell'albergatore, lì sotto ce ne sono altre dieci.

Un'altra Van si spiega ai miei piedi. A quattro chilometri dalla città moderna, incastrata tra la fortezza urartea e le rive dal più grande lago dell'Anatolia, un'altra distesa di macerie segna il terreno. L'antica Van, “città resistente”, ultima linea su cui gli armeni nel 1915 si asserragliarono per affrontare le truppe ottomane, giace immobile, incorniciata da rovine sparse nel raggio di un unico colpo d'occhio. La città accolse fra le sue mura fino a duecentocinquantamila armeni, rifugiati in fuga dalle provincie dell'entroterra.

Sostenuta dall'Impero russo, la resistenza si protrasse per mesi, echeggiando nei racconti della nascente diaspora, da Yerevan all'Iraq. Quando le truppe di Atatürk marciarono sulla città, all'inizio di aprile del 1918, gli ufficiali turchi decisero che quel giorno sarebbe stato il funerale di Van: tremila anni di storia vennero rasi al suolo e la nuova città fu riedificata su un asse viario moderno, con viali a squadro. Gli stessi viali che il terremoto di ieri ha ingombrato di macerie e corpi.

Vai alla galleria fotografica: I fantasmi di Van - Uomini dopo il terremoto

 

Un gregge si fa strada tra la neve e il fango. Come Ani, spettro di pietre e solitudine, l'antica Van è una distesa sterile di resti lasciati al vento e ai pastori. Soltanto un minareto torreggia ancora sulle rovine, mentre sul lato meridionale della città un breve tratto di mura ancora intatto custodisce un portale e due torri difensive. Un cartello racconta che Van andò distrutta nella guerra tra gli occupanti russi e l'esercito turco, e che in seguito alla vittoria turca gli abitanti cristiani della città preferirono fuggire insieme ai nemici russi, con cui avevano collaborato. Come ad Ani, nessun cenno alla millenaria presenza armena; come nell'antica capitale, nessuna cura per il patrimonio archeologico, che sprofondando nella terra porterà con se le tracce di una storia che deve essere dimenticata. Tuttavia Van continua ancora a svolgere il ruolo millenario di avamposto armeno in questa terra, perché a difenderne la storia c'è il più protettivo degli elementi: l'acqua.

Un cancello sbarrato impedisce l'accesso al molo, mentre due imbarcazioni all'attracco seguono nervosamente il ritmo delle onde. Il lago che dalla periferia di Van si stende a perdita d'occhio confonde i suoi riflessi blu con quelli del più limpido cielo dell'altopiano. Al largo, piccola ombra in controluce, l'isola di Aghtamar accoglie l'antichissima cattedrale della Santa Croce, sede per nove secoli del Catolicosato armeno, centro monastico e simbolicamente centro spirituale dell'intera minoranza armena di Anatolia. Ristrutturata nel 2007 e aperta al pubblico come museo, la chiesa richiama migliaia di visitatori all'anno, gettando un fascio di luce sul passato armeno di questa regione. Stamattina nessun battello fa servizio, forse il personale è rimasto in città a scavare tra le macerie. Mi accontento di ammirare il lago e di confrontarlo con il pacchetto di sigarette acquistate da un tabaccaio di Yerevan, in Armenia. Si chiamano sigarette Aghtamar, e raccontano in un disegno la leggenda che dà il nome all'isola. La bellissima Tamara si erge sulla riva dell'isola impugnando una torcia, richiamo per l'amante che la raggiungerà a nuoto. Ignara che a breve, sapendolo annegato nel lago, lo seguirà negli abissi.

Van, i resti della città antica - foto di Paolo Martino

A tre giorni dal terremoto, dai villaggi della sconfinata campagna anatolica arrivano notizie tragiche. Le pesanti nevicate stanno isolando le piccole comunità di pastori curdi che popolano i pascoli dell'altopiano. Le stalle in cui bovini e ovini dovevano passare l'inverno sono crollate. Fieno, mangimi, rimesse di cibo: tutto è in balìa delle intemperie. Una organizzazione non governativa turca che distribuisce teli di plastica accetta un giornalista italiano a bordo del furgone. Ore di guida a passo d'uomo per raggiungere nuclei isolati, agglomerati umani toccati solo tangenzialmente dalla modernità. Mentre i capifamiglia di un villaggio di sei o sette case si avventano sui teli, mi isolo sul tetto di una moschea, da cui il circostante appare come un monotono deserto bianco. In queste stesse campagne, un secolo fa le truppe ottomane fecero strage degli armeni in villaggi che dovevano assomigliare a questo: isolati, indifesi, inconsapevoli dei grandi cambiamenti che sconvolgevano la loro terra e il mondo intero.

Proseguire nel viaggio è impossibile. Gli autobus diretti a ovest sono prenotati per molti giorni a venire, riempiti dalle famiglie che fuggono da questo inferno di freddo e macerie. Mentre le scosse si ripetono a ritmo serrato, chi è rimasto popola le strade con accampamenti di tende e capannoni. Da uno spiazzo ai margini del centro abitato, dove decine di persone si raccolgono intorno a un falò appoggiato sul fango, si levano le voci di profughi afghani. Un bicchiere passa di mano in mano, riempito di tè da un giovane dagli occhi a mandorla. “Siamo arrivati ieri dall'Iran, a cavallo. Pensavamo che in Turchia, dopo tre giorni di sella, ci saremmo riposati. E invece...” Uomini, donne e bambini diretti in Europa, un ininterrotto flusso umano che in silenzio attraversa questo angolo di mondo. Penso alla grandezza smisurata della diaspora umana, la condizione che per sempre più individui diventa un irreversibile stile di vita. Milioni di persone in fuga da centinaia di conflitti. Stanotte, almeno, a Van ha smesso di nevicare.

Gli autobus manovrano lenti nell'otogar, prima che la notte li inghiotta. Un termometro segna meno quattordici. Secondo una voce raccolta in città, si è liberato qualche posto. All'improvviso, salito finalmente a bordo, l'impazienza che mi accompagna da giorni svanisce, travolta da un più opprimente senso di imminenza. Il pensiero della Siria, il grande buco nero tra Turchia e Libano, la tappa obbligata della storia e della geografia della diaspora armena mediorientale, pulsa nell'oscurità come un lampo. Gli appunti dicono che in Turchia restano da visitare soltanto Diarbakyr e Antakia: tra tre giorni sarò a Aleppo. L'autobus intanto viaggia in silenzio, sfidando il sentimento di morte che la notti d'inverno dell'altopiano immancabilmente portano con sé.


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