Caffè in čaršija/çarshija.

Foto di Marjola Rukaj

Da sempre luogo d'incontro, i quartieri artigianali e commerciali di impronta ottomana sono sopravvissuti al corso della storia in molte città dei Balcani. Rappresentano ora un vero e proprio barometro per comprendere i cambiamenti anche più recenti e per capire quale spazio possono avere i Balcani nell'Europa allargata

12/11/2010 -  Marjola Rukaj

Luogo d'incontro

Vicoli stretti tra basse costruzioni ottomane, negozi di ogni genere, botteghe, merce esposta, artigiani che lavorano, negoziano, osservano i passanti stando sulle soglie delle porte e tante caffetterie colme di gente. E' il cuore delle città ottomane. Sarajevo, Skopje, Kruja, Novi Pazar, Gjirokastra, Korça, città diverse, Paesi diversi, che hanno in comune il centro storico ottomano, che resiste al tempo, cambia, si adatta, perde importanza, ritorna alla moda, ma preserva le testimonianze storiche della vita urbana ottomana, qual è stata per secoli in questa parte del mondo.

Lingue e culture diverse ma gli stessi termini per designarlo, čaršija/çarshija * per alcuni, bazar per altri. Parole interscambiabili che significano entrambe “mercato”, la prima in turco, la seconda in arabo. Non erano solo mercati, bensì uno spazio pubblico in cui si svolgeva la vita urbana e sociale dei cittadini, oltre a essere il punto di incontro tra più centri urbani e le località rurali nei dintorni. Affari, matrimoni, vendette, riconciliazioni, patteggiamenti avevano luogo nelle numerose caffetterie tra un caffè turco e l'altro. Ricchi, poveri, culture e lingue diverse, tutti accomunati nelle čaršije/çarshije dallo scambio reciproco e dal vivere quotidiano.

La struttura

La loro struttura è caratterizzata da viuzze pedonali, delimitate da edifici bassi di uno o due piani dove in passato non si abitava, ma si lavorava, si produceva, si vendeva, si comprava e si socializzava fino al calar del sole. Era lo spazio pubblico per eccellenza. Un mercato grande e permanente, dove si poteva trovare tutto ciò di cui si aveva bisogno. Una fiera dei mestieri a partire da fabbri, sarti e orafi, per finire con pasticcieri, notai e commercianti vari. Anche i contadini avevano la loro parte nella vita commerciale e sociale della čaršija/çarshija. Nell'incrocio tra i vicoli si formavano piazzette abbastanza ampie da permettere l'esposizione delle loro merci, solitamente un giorno alla settimana, il giorno del mercato. Ora le čaršije/çarshije meglio conservate sono un vero e proprio museo dei mestieri estinti o in via di estinzione. Tutto avvolto in un'atmosfera orientale ed esotica, che ha tanto affascinato i viaggiatori occidentali nel corso dei secoli.

Le origini

Le čaršije/çarshije appaiono nei testi storici per la prima volta intorno al XV secolo, da fonti ottomane, quando buona parte dei Balcani era già ormai parte integrante dell'Impero. Difficile dire quale sia stato il concetto di mercato nei Balcani precedente alle čaršije/çarshije o se queste ultime siano una reinterpretazione ottomana di un concetto bizantino. Scoprirne le origini è impresa ardua soprattutto perché le botteghe venivano costruite in legno e con altri materiali facilmente combustibili, e i frequenti incendi ne hanno cancellato le tracce. Solo nel tardo '800 le čaršije/çarshije hanno iniziato a prendere la forma che hanno ancora oggi. Anche se è impossibile tracciare un'evoluzione di queste strutture nel tempo, la mentalità conservatrice della cultura ottomana, in piena sintonia con quella bizantina, lascia pensare che la struttura architettonica non sia cambiata di molto nel corso del tempo. Le čaršije/çarshije infatti si assomigliano in tutto lo spazio ex-ottomano.

La vita nelle čaršije/çarshije

La čaršija/çarshija si svegliava presto, prima del sorgere del sole. Gli artigiani si mettevano al lavoro per avere tutto pronto all'arrivo dei clienti e per poter in seguito trattare con loro sui prezzi e la qualità dei prodotti. In parte è ancora così, per gli artigiani che conservano la loro bottega e i vecchi mestieri. Col sorgere del sole, la čaršija/çarshija inizia a riempirsi di gente. C'è chi osserva i prodotti, acquista, altri che siedono nei caffè, e chiacchierano. Il tutto avvolto in un'atmosfera rumorosa scandita da quello che gli artigiani e gli studiosi delle čaršije/çarshije chiamano “la musica delle čaršije/çarshije”, l'incessante tintinnio degli attrezzi che battono il metallo. Spesso la musica delle čaršije/çarshije era un rituale continuo che accompagnava le giornate degli artigiani anche dopo l'ultimazione dei prodotti della giornata. Probabilmente una sorta di trucco per garantire l'autenticità dei prodotti e provare che questi ultimi venivano non solo venduti ma anche fabbricati dallo stesso artigiano, anche perché in diversi periodi durante l'Impero ottomano i meri commercianti non godevano di buon prestigio sociale.

Ma è proprio nelle čaršije/çarshije che nasce la classe dei commercianti e un principio di borghesia ottomana nel tardo Ottocento: in un edificio a sé stante, tra i vicoli della čaršija/çarshija. E' qui che si trovavano numerosi negozi: orafi e negozi di oggetti preziosi quali gioielli, orologi, custoditi dalla struttura ben fortificata dell'edificio. Detti bezistan, i mercati degli oggetti di valore, sono delle čaršije/çarshije in miniatura ma coperte da un tetto, presente solo nelle čaršije/çarshije più ricche. Sembra una fase di passaggio al contemporaneo centro commerciale occidentale. E' proprio il bezistan il luogo della borghesia ottomana, che acquisirà grande importanza in particolar modo verso la fine dell'Impero ottomano, quando tale classe sociale, di natura più cosmopolita, assumerà un carattere più intellettuale e innovativo per le società balcaniche. Sono pochi i bezistan sopravvissuti fino al giorno d'oggi, molti hanno lasciato solo la loro memoria nella toponimia urbana tradizionale.

Lingue

Per secoli nelle società estremamente miste di questa parte del mondo, le čaršije/çarshije sono state i luoghi per eccellenza dove la diversità e la pluralità etnica e linguistica diventava palpabile, visibile, intensa e ricca. Era un mondo soprattutto maschile, in cui le donne si vedevano di rado solo ed esclusivamente per fare compere. In un ristretto spazio si trovavano uno a fianco dell'altro appartenenti a tutte le comunità balcaniche e persino egiziani e schiavi africani di colore. Mentre altrettante lingue si sovrapponevano, si intrecciavano, o viaggiavano su lunghezze d'onda parallele. La gente delle čaršije/çarshije era di solito plurilingue: a fianco del turco le altre lingue coesistevano a pari dignità. Anche perché nelle čaršije/çarshije si era presenti in funzione dello scambio e si aveva un ruolo sociale nella logica del mercato. Ed è in base a tale funzione che gli uni si relazionavano agli altri. Le lingue diventano quindi strumenti interscambiabili, fluidi, a volte meri codici di comunicazione privi di emozionalità e identità etnica o religiosa.

In tutte le čaršije/çarshije esisteva un fenomeno linguistico che da tempo interessa i linguisti comparati. Determinati gruppi di artigiani usavano inventare un codice, una vera e propria lingua segreta che utilizzavano per scambiare informazioni tra di loro senza farsi capire da estranei al gruppo. Si tratta di un codice plurilingue in cui coesistevano e si mescolavano più lingue balcaniche, intrecciate l'una nell'altra in modo tale che nessuno riuscisse a intuirle senza conoscerne le regole alla base. Curioso il caso delle lingue segrete diffuse nelle čaršije del territorio serbo dove la lingua segreta spesso era un intreccio del lessico albanese adattato alle regole della grammatica serba.

Religioni

Chiese e moschee si trovavano fianco a fianco, come del resto le botteghe di musulmani, ortodossi e cattolici si mescolavano tra di loro lungo i vicoli. In vari periodi vigeva una sorta di specializzazione di comunità e religioni in determinati mestieri. I musulmani si occupavano principalmente della ristorazione, della lavorazione del tabacco e in seguito del metallo, i bosniaci erano grandi maestri della filigrana, gli albanesi della produzione delle armi; gli ortodossi più dediti alla sartoria, e al commercio, specialità altrettanto frequente presso i valacchi, etnia presente ovunque nei Balcani, affine ai romeni e agli albanesi, ma la cui origine storica rimane difficile da circoscrivere in termini geografici.

La fine dell'Impero

Rimaste per secoli immutate, la trasformazione delle čaršije/çarshije inizia nel XIX secolo, con l'indebolimento e la rapida disgregazione dell'Impero ottomano. Le battaglie con le potenze occidentali si traducevano puntualmente in sconfitte dalle pessime conseguenze commerciali, poiché nei trattati di pace l'Impero ottomano si impegnava continuamente a concedere favori commerciali ai vincitori e ad agevolare l'accesso delle merci occidentali nei propri mercati. In tal modo nelle čaršije/çarshije balcaniche arrivarono merci industriali, dal minor costo e in maggiore quantità rispetto alla produzione artigianale. Il XIX secolo segna la crisi delle čaršije/çarshije e l'inizio dell'industrializzazione, la perdita degli equilibri dei mestieri tradizionali e l'inizio della prevalenza del commercio.

Molte čaršije/çarshije, in quanto tipico elemento dell'ambiente urbano ottomano, hanno continuato a conservare la loro importanza sociale, perdendo gradualmente l'esclusività dello scambio economico nello spazio urbano. Altre sono finite per diventare una periferia della vita cittadina, anche geograficamente, come nel caso della çarshija di Scutari, che nei primi anni del '900, finì per essere poco sfruttabile da parte dei cittadini, poiché troppo lontano dal centro città tanto da rendere necessario il trasporto con i mezzi pubblici. Molte si sono trasformate in quartieri normali del centro storico, come a Prizren in Kosovo, con abitazioni, negozi e ristoranti, che della čaršija/çarshija conservano solo la struttura architettonica. Con l'industrializzazione e l'apertura all'Europa occidentale le città più emancipate hanno intrapreso un processo di modernizzazione della čaršija/çarshija come nel caso di Korça nell'Albania sud-orientale facendo coesistere gli elementi ottomani con quelli occidentali neoclassici di fine '800. Altre come la Basčaršija di Sarajevo hanno resistito fanaticamente anche a fianco alle nuove costruzioni austro-ungariche, per via del forte significato identitario e culturale che essa ha per i sarajevesi.

Modernizzazione

La presa del potere da parte delle élite post-ottomane, filo-occidentali o nazionaliste, ha comportato cambiamenti radicali nella vita urbana dei balcanici. A prescindere dalla diversità ideologica o politica, le élite dei Paesi balcanici, nate dalle ceneri dell'Impero ottomano, erano tutte allineate alle forti tendenze di modernizzazione, riforme e progresso, che spesso e volentieri significavano de-ottomanizzazione e predilezione per l'occidentale a scapito dell'ottomano, ritenuto arretrato e conseguenza di un regime retrogrado accusato di aver causato tanta arretratezza dell'Europa balcanica rispetto a quella occidentale. Le azioni culturali e politiche hanno avuto conseguenze radicali anche nella trasformazione dello spazio urbano, spesso radendo al suolo il vecchio in nome del nuovo modernizzante.

Le čaršije/çarshije sono diventate in tal modo, negli ultimi due secoli, un luogo fisico fin troppo riconducibile all'eredità ottomana vista nei suoi aspetti meno positivi. L'avvento del comunismo ha continuato a procurare l'indebolimento delle čaršije/çarshije, poiché i centri del potere si sono trasferiti negli ingombranti edifici social-realisti e al kaldrma (kalldrëm) è stato preferito l'asfalto grigio dei boulevard fatti a misura di raduni populistici.

In alcuni casi, però, in nome delle altrettanto zelanti politiche miranti a forgiare un'identità nazional-culturale, le čaršije/çarshije sono state conservate e trasformate in luoghi turistici, quanto bastava per dimostrare il patrimonio architettonico medievale dei Balcani. E' stato così che la vecchia çarshija di Kruja, Albania, negli anni '60, è stata riscoperta e rianimata dal regime di Enver Hoxha, fino a  diventare un must del turismo culturale nell'Albania odierna.

Barometro

Molte delle čaršije/çarshije che sono sopravvissute al corso della storia conservando la loro funzione socio-economica sono diventate un barometro delle trasformazioni delle società subendo un'evoluzione condizionata dagli sviluppi politici: basti pensare all'albanizzazione della čaršija/çarshija di Skopje negli anni '80 e '90, abbandonata  dagli slavi macedoni perché ritenuta un luogo malfamato, successivamente trasformata in luogo attraente per artisti alternativi, per poi tornare di moda sotto le spinte dell'arrivo dei turisti e del bisogno di ricostruire un'identità storico-nazionale.

Dopo le vicissitudini politiche ed economiche dei Balcani, la globalizzazione comporta un'altra sfida per le čaršije/çarshije. Ovunque si nota un ridimensionamento dell'artigianato, orientato oggi per lo più in base alle esigenze del turismo. Sempre più spazio invece viene lasciato alle merci provenienti dalla Cina e dalla Turchia. Inoltre nelle čaršije/çarshije più estese sempre più frequentemente le botteghe degli artigiani si stanno trasformando in caffetterie e trattorie e gli abitanti delle città tendono sempre più a considerarle come luogo di svago e di ritrovo tra amici.

Tra le incessanti trasformazioni avvenute nel tempo, le čaršije/çarshije balcaniche sono sempre più importanti per riscoprire un patrimonio storico e culturale in funzione identitaria ma anche per osservare le tracce delle vicissitudini degli ultimi anni, alla luce di un passato multietnico spesso trascurato da politici e studiosi dagli intenti nazionalisti o mono-culturali. Mentre si lasciano alle spalle i conflitti fratricidi puntando tutti a un comune futuro europeo, il recente e accresciuto interesse dei cittadini nei confronti delle čaršije/çarshije, rende ottimisti sulla convivenza nei Balcani, che per secoli ha avuto luogo proprio nel cuore delle città ottomane.

Per facilitare la lettura si è scelto di usare il termine in versione 'bchs' (čaršija) nei testi riguardanti la Bosnia Erzegovina e la Serbia; in quelli sull'Albania, l'ortografia albanese (çarshija); invece per i bazar in Kosovo e Macedonia vengono usate indifferentemente entrambe le diciture.


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